Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 18

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mandare rincalzi se ve ne fosse stato bisogno. Ma le notizie che
arrivavano dal combattimento erano buone. Con perdite lievi l'attacco
proseguiva. A mezzogiorno la cima del monte era conquistata.
Subito i soldati, benchè stanchi, si misero al lavoro per fortificare
la posizione. Alle trincee prese bisogna rovesciare il fronte perchè
servano contro al nemico, il parapetto diventa la spalla e la spalla
il parapetto. È un duro lavoro che l'urgenza rende affannoso. I nostri
erano intenti a questo consolidamento, quando gli austriaci hanno fatto
un ritorno offensivo. Il combattimento si è riacceso; è durato qualche
tempo. Un accenno di assalto alla baionetta ha ricacciato indietro i
nemici, senza però farli desistere interamente. Essi, probabilmente,
non avevano altro còmpito che quello di tenere impegnate le nostre
forze. Un movimento assai più grave stava svolgendosi.
Sul declinare del giorno furono avvistate masse austriache in marcia
lungo l'Isonzo. Erano due gruppi, uno veniva dal nord e uno dal sud,
e convergevano verso Plava. Il nemico tentava l'aggiramento delle
nostre truppe sulla Quota 383, tendeva a tagliarle fuori, a isolarle,
a occupare la base di sbarco. Esse non potevano difendere la vetta
e i fianchi, non bastavano a reggere quel fronte troppo esteso. Era
necessario ed era urgente che si raccogliessero, che restringessero la
linea del loro spiegamento. Dovettero abbandonare la cima conquistata,
ridiscendere alle prime pendici, a proteggere Plava e con Plava le
comunicazioni.
Venuta la notte, si rimise in acqua il ponte girevole e cominciò
il traghetto di altri battaglioni. Si unirono a quelli che avevano
combattuto, costituirono nuove unità di attacco. Il nemico aveva
rioccupato in forze le posizioni sulla sommità del monte. La battaglia
si annunziava aspra e sanguinosa.
Le truppe erano troppo stanche per iniziare l'azione immediatamente.
Anche quelle appena sbarcate avevano bisogno di riposo dopo le
notti perdute nella continua attesa. Si stava per chiedere loro un
grande sforzo. La mattinata del 12 trascorse tutta in una immobilità
ristoratrice. L'assalto cominciò nel pomeriggio.
Si svolse con la stessa tattica del giorno prima. Le forze, divise
in due colonne, si impegnarono ai due fianchi del monte, avendo la
vetta per obbiettivo comune. Il movimento si era appena iniziato,
che un terribile fuoco di artiglieria cominciò a battere le pendici.
Era una bufera di cannonate; gli _shrapnells_ arrivavano a raffiche
continue, volteggiavano in aria foglie e rami d'albero stroncati dalle
esplosioni, il piombo grandinava.
Le batterie nemiche da cui veniva quella bufera di fuoco dovevano
trovarsi in parte sulle pendici del monte Kuk, uno dei tanti monti
Kuk della regione, distante tre chilometri e mezzo da Plava, in parte
sul Monte Santo, dal quale i medî calibri tempestavano. Per questo la
nostra colonna di destra, più scoperta, era più battuta. Le perdite
si facevano gravi. Non era possibile individuare con esattezza le
artiglierie austriache, nascoste, invisibili. L'attacco procedeva
sempre, audace, meraviglioso. Ma la necessità di riorganizzare le file
troppo provate dal fuoco, diradate, la successione dei comandi per gli
ufficiali che cadevano, rallentavano l'avanzata dell'ala destra.
Ad un certo punto le perdite aumentano, la colonna di destra è
costretta a sostare. Quella di sinistra, meno colpita, più forte
ancora e più agile, è arrivata a contatto con la fanteria austriaca
e si precipita all'assalto. Fermata dai getti scroscianti delle
mitragliatrici, si ricompone e riassalta. Sette volte consecutive si
slancia alla baionetta. Intanto anche l'ala destra prende l'attacco.
Ma avanzando dalle larghe basi del monte verso la vetta, lo spazio
diminuisce, le file, che erano rade e sparse all'inizio, si sono
andate serrando, formano nuclei troppo densi, ammassamenti che offrono
una maggiore presa al fuoco incessante dei cannoni nemici e delle
mitragliatrici, i proiettili delle quali empiono tutto il bosco di
un sibilare metallico. È impossibile continuare. La colonna destra
incomincia a ripiegare lentamente.
Il nemico, che sente mancare da quel lato l'attacco, cerca di avanzare
incalzante. Accenna al contrattacco, fra gli alberi, preme, si fa
minaccioso. L'ala sinistra si sposta, lo arresta, lo ricaccia. Il
ripiegamento avviene ordinato, con lunghe soste, la faccia al nemico, e
si ferma a mezza costa, ad un centocinquanta metri dalla vetta. Era la
sera del 12 giugno.
Delle truppe di rincalzo passarono quella notte. La giornata del 13
trascorse in un lavoro di riorganizzazione. Alla notte seguente si
riescì a costruire due passerelle sul fiume. Esse garantivano ogni
libertà di movimento, assicuravano le retrovie. Un attacco di grandi
masse nemiche, sopra una testa di ponte così ristretta, servita da un
solo piccolo traghetto, avrebbe potuto provocare forse una gravissima
situazione. I nuovi ponti dissipavano il pericolo.
Il 14 fu ordinato l'attacco per il giorno dopo.
Si era portato un mutamento al piano precedente. Una terza colonna,
partendo dalla sinistra e puntando verso Globna — un gruppo di casupole
presso l'Isonzo, qualche chilometro a monte di Plava — doveva eseguire
un movimento avvolgente dal nord. Ma la battaglia non ebbe sviluppo.
La terza colonna trovò alla sua sinistra, presso Globna, dei forti
trinceramenti impreveduti, e, presa sul fianco dal loro fuoco, fu
costretta a far fronte verso di loro ed attaccarli. Questo impegno
la deviò dal suo obbiettivo; essa non potè continuare l'avvolgimento
iniziato, si trovò fermata, fuori dalla cooperazione prefissa,
impegnata in un'azione laterale e isolata. Appena tale situazione fu
nota al comando, l'attacco venne fatto cessare e rimandato, per non
affrontare uno svolgimento oscuro.
Fu il giorno appresso, il 16 giugno, la vera, la definitiva, la
gloriosa e terribile battaglia di Plava.
Contro a quei trinceramenti di Globna, che pigliavano sul fianco la
colonna avvolgente, fu mandato un battaglione per fronteggiarli e
permettere così alla colonna di proseguire il suo movimento. Questo
battaglione fiancheggiatore si trovò davanti a resistenze formidabili,
in un tremendo fuoco decimatore, ma non si mosse; non rallentò la sua
pressione sopra la forza nemica che doveva impegnare. Il comandante
cadde, il capitano anziano assunse il comando. Questi cadde alla sua
volta, il comando passò ad un capitano più giovane. Il terzo comandante
pure cadde, e il comando passò. Poi un quarto, poi un quinto comandante
del battaglione fu ferito o morto. All'una del pomeriggio sette capi
si erano successi. E il battaglione non arretrava di un passo. Il
nemico poteva dissolverlo, ma non respingerlo. Era come un muro che si
demolisce ma non si sposta. L'ordine era di resistere fino alla morte,
e si resisteva fino alla morte.
Nel pomeriggio comandava il battaglione un giovane tenente che lo resse
con indomita energia, come se insieme alla eredità del comando fosse
discesa da capo a capo la fiera esperienza del grado. Questo tenente è
stato promosso per merito di guerra.
L'azione del battaglione sul fianco estremo sinistro liberò e difese
quella della colonna avvolgente. L'attacco generale procedeva fra
difficoltà terribili. Un cannoneggiamento più vivo, più micidiale
ancora di quello del giorno 12, tempestava i nostri, voleva fermarli,
aveva l'intensità e il furore di una disperazione, apriva dei vuoti,
squarciava, ma non fermava l'avanzata, che ascendeva a piccoli balzi,
risoluta, sistematica, eguale. Le perdite più gravi erano sempre per
la colonna di destra, battuta dal fuoco del monte Kuk e dal monte
Santo. A sinistra l'attacco urtava in un potentissimo trinceramento in
calcestruzzo, difeso da mitragliatrici, preceduto da reticolati così
forti che le nostre forbici non potevano tagliarli.
Quello che avveniva nel battaglione contro Globna avveniva per tutto.
Comandi di battaglione, di compagnia, di plotone erano continuamente
sostituiti, quasi tutti gli ufficiali di un reggimento erano caduti,
le unità minori si fondevano, e l'assalto andava avanti. Era alla fine
un'azione individuale di soldati. Dei soldati semplici hanno assunto
il comando di reparti piccoli. Dei sergenti conducevano una compagnia.
Lo slancio in avanti non veniva più dalla condotta dei capi, era nel
cuore di ogni uomo. «Avanti! Avanti! Per di qua, su!», e la massa
proseguiva, riformando da sè i ranghi, attenta agli ordini dei compagni
più autorevoli dove gli ufficiali non c'erano più.

Meravigliosa fanteria nostra! Nel nostro esercito mutano le attitudini
e le capacità delle varie armi, ma non muta il valore. Il cuore è lo
stesso, l'anima è la stessa. Sono l'anima e il cuore della razza.
Prodigiosa fanteria nostra! Audace, terribile, generosa, essa è il
Popolo italiano. Come ricordare gl'innumerevoli e stupendi episodi di
valore sovrumano che formano insieme la storia d'ogni nostra battaglia?
Come ricordare i fatti di eroismo quando ogni uomo è un eroe? Il
sacrificio leggendario di Pietro Micca non è diventato un atto di tutti
i giorni, un gesto che si ripete avanti a tutte le trincee, quando
occorre aprire la via dell'assalto attraverso i reticolati del nemico?
Non partono tutte le notti le spedizioni dei volontari della Morte?
Chi sono questi audaci che vanno ad accendere una miccia con l'ultima
scintilla della loro vita? Non si distinguono più, hanno un nome solo,
sono una cosa sola: sono l'Esercito.
Da ogni parte, quel giorno, sulla montagna di Plava, il nostro assalto,
in un uragano di piombo, arrivò di fronte a reticolati che non si
potevano tagliare. Non si era ancora trovato il sistema dei tubi
esplosivi, e le forbici si spezzavano sui grossi fili di acciaio. I
nostri tentarono con le mani di svellere i paletti, ma era impossibile,
e non si resisteva due secondi in piedi, a dieci passi dalle
mitragliatrici nemiche. Ma i nostri rimanevano là, contro la barriera,
ostinati, furenti, fucilando le feritoie, tenendo a bada il nemico
mentre studiavano il modo di raggiungerlo, di varcare l'inestricabile
ostacolo.
Non potendo passare nè attraverso il reticolato, nè sopra, passarono
sotto. Scavarono la terra, fecero dei solchi, strisciarono col dorso
sulle spine di acciaio dei fili più bassi. Si adunarono a piccoli
gruppi di quattro, di cinque, al di là, incastrati sotto agli ultimi
intrecci della siepe di ferro. Poi balzarono in piedi e si gettarono
contro alle trincee scoperte, impegnando una lotta a corpo a corpo. A
questa vista gli altri, quelli che non erano passati, non si tennero
più, e incominciarono a scalare il reticolato, appoggiandosi ai
paletti, appoggiando il piede all'incrocio molleggiante dei fili,
facendosi poi porgere i fucili lasciati ai compagni che aspettavano
indietro. In un momento i reticolati furono tutto un formicolìo lento
di uomini sospesi, un gesticolamento confuso e pacato, sul quale
passavano dei fucili, da una mano all'altra, da una parte all'altra.
Scavalcata la barriera, appena a terra, senza contarsi, i nostri si
gettavano successivamente nella mischia urlando. L'attenzione del
nemico era stata sorpresa e deviata dal primo comparire incomprensibile
di soldati italiani addosso ai parapetti. Quell'urlìo, la visione della
massa sui reticolati, finì per atterrirli. La difesa era estinta dalla
terribile e implacabile audacia dell'assalto più che dalla lotta. Le
trincee caddero, il grido dell'evviva passava su tutte le posizioni.
Era il tramonto. Le trincee austriache non coronavano la cima, erano
costruite un poco più giù per poter avere un maggiore sviluppo.
Bisognava occupare la vetta, ma era tardi. Una riorganizzazione si
imponeva prima di procedere oltre, dove il bosco manca e si avanza
scoperti sopra una cresta pratosa. Fu deciso di aspettare l'alba. Ma un
centinaio di uomini, appartenenti a diverse compagnie, senza ufficiali,
avendo la volontà sola per comando e l'accordo per disciplina,
portati dalla foga della lotta, avevano proseguito, soli, ignari
della sosta; tornarono indietro nella notte. È un episodio minuscolo
ma significativo, che descrive lo spirito del soldato nostro, il suo
istinto della guerra, la sua indifferenza al numero, il suo senso di
autonomia. Quando la battaglia spezza le sue formazioni e abbatte i
suoi capi, quando si sbanda, si sbanda in avanti.

Siamo alla mattina del 17 giugno. Gli austriaci hanno ricevuto
rinforzi numerosi durante la notte e si preparano al di là della
vetta. Il nostro attacco è iniziato dalla colonna di sinistra. Appena
i nostri sbucano dal bosco, il contrattacco austriaco si precipita. È
formidabile, si tratta di una massa che si precipita con l'audacia di
chi si sente superiore. Ma la battaglia è breve. Si è impegnata appena,
che alla sua volta la colonna di destra emerge dal folto degli alberi.
Prima che il nemico possa distaccare forze per trattenerla o fare
una conversione per fronteggiarla, la nostra destra si slancia alla
baionetta e lo assalta sul fianco. È stata la fuga, è stata la rotta, è
stato lo sbandamento indietro. In altri tempi questo solo fatto avrebbe
potuto costituire la vittoria definitiva di una guerra. Ma ora, un
fantaccino sulla prima linea vive in un mese tutti i rischi, tutti i
pericoli, tutti gli eroismi di un veterano della Vecchia Guardia.
Alle otto e mezzo del mattino la vittoria era completa. Avevamo la
vetta di Plava definitivamente nostra. La lotta si riaccese poi ad
intervalli. Truppe nemiche affluirono, le vicinanze si coprirono di
trincee, delle artiglierie si concentrarono. Il giorno 19 subimmo
due contrattacchi notturni. Il 20 tre contrattacchi notturni. Anche
con forze superiori il nemico non si muove più che alla notte, ha
perduto ogni fiducia nei contrattacchi dell'alba. Il 29, sempre di
notte, contrattacco di masse, con artiglieria e mitragliatrici. Ogni
tentativo austriaco è inutile. Ma la sua preparazione difensiva rende
pure inutile qualsiasi azione nostra, anche di grande stile e con
grandi forze, per allargare la testa di ponte, o meglio per servirci
della testa di ponte al fine di irrompere e spingere l'offensiva verso
obbiettivi più vasti e lontani.
Lentamente, un piccolo allargamento della testa di ponte è avvenuto.
Dal 20 al 30 luglio abbiamo ripreso l'offensiva. Il cuneo del
nostro fronte parte adesso da Globna e da Zagora, e copre bene gli
allacciamenti sul fiume. Il sei agosto, l'otto, il dieci, il dodici,
furibondi contrattacchi nemici si sono sferrati. Ora è la stasi, una
stasi con cannoneggiamenti, fucilate, granate a mano, ma l'azione
manca.
Verso Zagora, al sud, le trincee avversarie sono così vicine che, come
sulla cresta di Luznica, le divide un solo reticolato comune. Da una
posizione all'altra i soldati si lanciano ingiurie e bottiglie vuote.
Da lì si vede, non lontano, il rovescio lungo e cupo del Sabotino,
sulla cui cresta altre trincee nostre avanzano. E quasi di fronte
a Zagora, all'altra riva del fiume, si vede a poche centinaia di
metri la gran bocca nera della seconda galleria della strada ferrata
Gorizia-Klagenfurt, melanconica strada tagliata tutta nei fianchi umidi
della montagna, e le cui rotaie sono diventate rosse di ruggine.
Una volta sola si è riudito il rombo di un convoglio risuonare nella
prima galleria, poco più in basso. E si vide sbucare lentamente
all'aperto, con la cautela d'una grossa bestia sospettosa che esca
dalla tana, un grigio treno blindato. Si fermò a osservare, sparò
in fretta alcune cannonate, poi ci pensò meglio e si ritrasse
prudentemente immergendosi per la coda nel buio.
Le truppe circondano senza tristezza i loro eroi caduti. Ne raccontano
le gesta, con semplicità. Episodi magnifici e senza numero. Una notte,
nella seconda fase delle operazioni, dopo la conquista, un caporale
si offrì volontario per andare a far saltare una mitragliatrice troppo
molesta. «Ma è impossibile!» — dicevano i più temerarî. Egli si ostinò,
e uscì dalla trincea, spingendo avanti il tubo esplosivo. Arrivò,
sotto al fuoco, a metterlo a due o tre metri dalla mitragliatrice;
arrivò ad accendere la miccia. Ma lo zampillare delle scintille
permise al nemico di dirigere meglio il tiro della mitragliatrice
stessa, l'eroe crivellato si accasciò. Abbattendosi spezzò la miccia
accesa, l'esplosione mancò. I soldati decretarono al morto la sepoltura
d'onore, ed egli dorme nel centro del piccolo cimitero, sotto ad un
tumulo più alto e più solenne.
Un altro racconto ricordo. In una compagnia combatteva un volontario
dai baffi bianchi. Aveva sessanta anni, era soldato semplice. Il suo
esempio trascinava tutti. Si era arruolato per seguire alla guerra il
suo figliuolo. Servivano nella stessa compagnia, non si lasciavano
mai. Si vedevano nelle marce quei due soldati vicini, così diversi
e così somiglianti, che si tenevano per la mano. Si tenevano per la
mano i due soldati per un'abitudine vecchia, di quando i baffi bianchi
di uno erano neri e l'altro era un bimbo. Non ci si accorge mai che
i bimbi crescono e che i baffi diventano bianchi. Forse anche in
quell'allacciamento perpetuo di vita vi era un impulso misterioso di
addio. Nel combattimento, sempre in prima linea, erano sempre avanti,
spalla a spalla. Durante l'avanzata su Zagora, l'8 agosto, il figlio
cadde mortalmente ferito.
Il padre gettò il fucile e si slanciò a sorreggere il morente. Intorno
i soldati delle seconde linee passavano di corsa. Qualcuno si fermò
un istante presso a quel gruppo. Il vecchio compagno era adorato.
Egli, deposto dolcemente a terra il ferito, gli sorreggeva la testa e
s'insanguinava la mano tremante per sbottonarlo e cercare la piaga.
Poi, con uno scatto, sollevò la faccia pallida, calma, solenne,
esclamando: «Ma perchè non l'ho avuta io?» In quell'istante una palla
lo colpì sulla tempia.
Il vecchio volontario si rovesciò sul figlio. La morte li riuniva
ancora.
Ma la tristezza e la poesia di questi episodi di sangue appare dopo,
ripensandoli in un altro ambiente. Lì tutto sembra naturale come è
naturale la vita. Tutto è forza e fervore, laggiù, è giovinezza, è
gaiezza. E canzoni liete echeggiano nel tragico bosco di Plava come
nella più lontana, quieta e ridente campagna del mondo.


GUERRA D'ASSEDIO INTORNO A GORIZIA.
UN ATTO DI SUBLIME SACRIFICIO.
_2 ottobre._

Abbiamo visto Gorizia dalla vetta del Corada, che si erge quasi di
fronte a Plava. Contro alla luce del sole già alto, le montagne ai cui
piedi la città si distende parevano fatte d'ombra azzurra, glauche come
onde. La più alta, il Monte Santo, si acuminava nel campanile del suo
santuario, antica mèta di pellegrinaggi. La tortuosa strada che vi sale
da Gorizia sull'altro versante, e che noi non potevamo scorgere, ha una
cappella votiva ad ogni svolta, una chiesuola ad ogni giro, una croce
ad ogni passo, e da quattro mesi non vede salire che cannoni austriaci.
Quel monte della preghiera è diventato la più formidabile delle
fortezze, tutta vita di artiglierie introvabili che il bosco nasconde.
La schiena del Sabotino, vicino a lei, si allungava e si sollevava
di scorcio come la groppa di un cavallo che s'impenni, coperta da
un finimento di trincee: verso il collo le austriache, sulle reni le
nostre. In un lungo scintillìo, in una voluta di luce che si spegneva
subitamente nell'ombra di una gola, l'Isonzo, passata Plava, andava
verso il sud a perdersi fra il Monte Santo e il Sabotino, fra questi
due solenni pilastri che formano una specie di porta al fiume, oltre la
quale comincia la calma magnificenza della pianura friulana. Gorizia è
sulla soglia.
Ne vedevamo confusamente le case, i campanili, le torri, tutta vaga e
incerta nel contrasto della luce, con delle trasparenze da miraggio.
Ci appariva oltre la spalla del Sabotino, fra il fianco destro del
monte ed un profilo oblungo ed oscuro di collina denudata, il profilo
del Podgora. Era pallida, indefinita, immersa in una bruma celestina,
in un vapore di serenità, e nel centro dell'abitato la piccola altura
della sua vecchia fortezza era come fatta di nebbia. La città lontana
pareva aperta, accessibile, in attesa. Sembrava di dovervi poter
giungere tranquillamente scendendo per la strada di Plava. Le barriere
umane erano troppo poca cosa, e lo sguardo scorreva sull'unità del
piano come sopra un mare, passava sulla grande eguaglianza della terra,
sulle ondulazioni facili dei declivî, cercando l'ostacolo che ferma
un esercito, cercando la muraglia di ferro, e non riconoscendola in
qualche minuto, infimo, lieve e sottile ombreggiamento da siepe, appena
visibile, senza rilievo, confuso nel colore dei campi: quello che è una
trincea nell'immensità di un paesaggio.
Abbiamo rivisto Gorizia più vicina, dalla cima del Monte Quarino,
presso a Cormòns; poi anche dalla vetta del Monte Medea, che è simile
a un'isola sulla verde e calma distesa della pianura, il monte dal
quale Attila contemplò con germanica gioia l'incendio che divorava
Aquileja. E tutte le volte la città, avanti alla quale l'uragano
della guerra da quattro mesi imperversava, ci ha dato la illusione
di una aspettativa tranquilla in fondo alla vallata dischiusa, senza
vigilanze visibili. Parevano assai più possenti le antiche fortezze dai
bastioni quadrati, larghi, che trasformavano la fisionomia dei monti, e
disegnavano una minaccia sulle vette, che non i muricciuoli ineguali,
primitivi, minuscoli, nascosti, della guerra moderna, cementati col
sangue. La fronte di una resistenza appare evidente sulle creste dei
massicci alpini, allacciata alle rocche della creazione, identificata
nei castelli immani della roccia. Ma sul digradare dei colli, sulle
ondulazioni verdi delle ultime pendici, sulla pianura unita, essa
sfugge. Pare che non ci sia più nulla di insormontabile da varcare, che
il paese sia tutto una strada, che il suo aspetto accolga e conduca.
La guerra moderna ha fatto scendere i forti dalle loro posizioni; li
ha per così dire sminuzzati, li ha sparsi per tutto, sui campi e sulle
balze; ha disseminato la fortificazione sopra ogni angolo di terra; non
ha lasciato un lembo di suolo senza il suo bastione; ha fatto d'ogni
fosso, d'ogni argine, d'ogni recinto, d'ogni ciglione, una formidabile
ridotta. L'offensiva è divenuta assedio, non ha altra manovra che
la zappa e l'assalto, deve spezzare delle cinture di fortezze,
deve vincere e rivincere ad ogni piccolo passo in avanti. Non è una
battaglia che si combatte di fronte e ai fianchi di Gorizia, è una
catena di battaglie. E subitamente lo spazio conquistato appare immenso
quando le terribili difficoltà superate si rivelano, quando si scorge
da dove il nemico è stato a viva forza scacciato, quando le nostre
posizioni si delineano dalle spalle del Sabotino alle pendici avanzate
del Carso.
Siamo nella zona più nota della guerra, sulla fronte più attiva e
tempestosa verso la quale l'animo della nazione si è teso con maggiore
fervore, presentendo fin dall'inizio che qui, in questa larga apertura
della frontiera per la quale il nemico si affacciava sulle nostre
pianure indifese, sarebbe avvenuto lo sforzo più intenso, il maggiore
impeto di masse. La critica e la cronaca della guerra hanno rese
familiari queste regioni, dalle quali arrivarono ai giornali le prime
visioni del conflitto e le descrizioni più ampie. Il lettore conosce
oramai la fisionomia della lotta, sa quale sistema di difesa il nemico
abbia adottato, ricorda l'aspetto generale del campo di battaglia.
L'Isonzo corre all'estremo limite della pianura: al di là del fiume
il terreno ridiviene montuoso. Il nemico aveva fatto di queste alture
oltre l'Isonzo un immenso spalto di fortezza, della quale il fiume
era il fossato. Avanti a Gorizia tutte e due le rive del fiume sono
montuose: di fronte il Monte Santo sulla sinistra, il Sabotino sulla
destra, vicino al Sabotino le brevi ondulazioni di Oslavia, vicino
ai colli di Oslavia il Podgora, ultimo sperone sulla pianura. Questo
gruppo di alture al di qua dell'Isonzo il nemico aveva conservato e
fortificato, costituendo una poderosa testa di ponte che difendeva il
passaggio e garantiva a lui il libero varco del fiume nella possibilità
di una offensiva. Questa era la situazione all'inizio del conflitto.

Ricordo gli ultimi giorni di maggio, quando, varcata d'un balzo la
frontiera, le nostre truppe iniziavano l'attacco della testa di ponte
di Gorizia. Le fanterie assalivano furiosamente le piccole trincee,
ai piedi delle alture, gettandosi contro ai reticolati senza ancora
conoscerne la forza, cercando di svellerli con le mani, di aprirsi un
varco come in una siepe. Attanagliati ai fili rimanevano dei morti, che
non parevano morti, tanto i loro volti conservavano una espressione di
volontà e di furia e i loro corpi eretti un gesto di vigore. Tuonavano
contro al Sabotino le nostre artiglierie da San Martino, da Quisca,
da Bigliana, le strade al nord di Cormòns erano affollate di cannoni,
di cassoni, di carri, artiglierie da posizione salivano lentamente
trascinate da lunghe file di buoi bianchi, e il Monte Santo, la vedetta
nemica, osservava freddamente tutto questo movimento, occhieggiando da
lontano al di sopra della spalla del Sabotino.
Gli austriaci hanno per tutto questo vantaggio: vedere. Il terreno
sale sempre di fronte a noi; al di là di una montagna ce n'è una più
alta. Non ci ha preoccupato l'ascesa, ma la vigilanza. Lo sguardo del
nemico scopriva tutto il nostro scacchiere, seguiva ogni mossa, poteva
guidare sopra ogni punto, con precisione, il fuoco di cannoni lontani.
In certi settori esso vigila ancora la rete delle nostre strade, scopre
la vampa d'ogni nostro colpo. Abbiamo dovuto preparare ardite battaglie
allo scoperto, senza segreti, e le nostre vittorie acquistano un valore
magnifico di audacia, una grandezza prodigiosa di nobiltà e di vigore,
per questa lealtà ineluttabile, per questa disperata sincerità che ci
faceva trovare il nemico sempre pronto, sempre in forze, cognito del
nostro piano.
Quelle prime azioni non erano che una presa di contatto, non avevano
che una importanza di ricognizione. Ci aspettavamo una difesa ben
preparata, sapevamo che il nemico aveva da anni studiato minutamente
quella zona dal punto di vista militare, le informazioni ricevute
erano concordi nel riferirci che grandi lavori di protezione si
erano compiuti, ma gli ostacoli sui quali la nostra offensiva urtava
superavano in potenza quello che l'opinione comune potesse prevedere.
Per tutto erano ranghi numerosi di trinceramenti di calcestruzzo,
con blindature di acciaio, con reticolati alti e profondi sostenuti
da pali di ferro infissi nel cemento, erano batterie incavernate che
incrociavano i tiri, erano sviluppi immensi di reti telefoniche e
telegrafiche, innumerevoli osservatorî, zone minate. Nei primi giorni
del giugno la battaglia vera cominciò.
Ebbi la ventura di assistere all'inizio della lotta gigantesca. Il sei
si passava il basso Isonzo a Pieris, l'otto si occupava Monfalcone,
il nove si attaccava Plava, il dieci ci trinceravamo a Gradisca. Si
combatteva su tutta la fronte; Lucinico ardeva; Mossa ardeva; le alture
erano velate a tratti dal fumo delle esplosioni; sulla pianura si
sfioccavano le nubi degli _shrapnells_ austriaci; il nostro attacco
saliva le spalle del Sabotino e del Podgora, sulle cui vette intenibili
l'onda dell'assalto oscillava. Ora avvicinando il campo di battaglia
dalla parte di Cormòns, si rimane stupiti di non riconoscere più certi
luoghi.

Il Podgora in quei primi giorni della lotta era una collina tutta
coperta di bosco, verde, oscura, con quel profilo nuvoloso, a masse,
che hanno i declivî selvosi, sui quali l'intreccio ampio delle fronde
si sparge e si allarga con una morbidezza folta da pelliccia. A metà
della costa qualche vigna, una verdura più chiara e più minuta. Il
declivio si spegneva dolcemente fra le case di Lucinico. Adesso il
Podgora è nudo.
Pare più piccolo, così spogliato del suo spesso mantello d'alberi.
Nudo, sterile, rossastro, lacerato, bucato, ferito, non si somiglia
più. Ha ricevuto centinaia di migliaia di cannonate. Le granate hanno
tutto distrutto e tutto sepolto. Dopo aver bruciacchiato, sfrondato,
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