Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 04

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constatato che una vasta e minuziosa organizzazione di tradimento
ci cingeva, e non abbiamo perso tempo. In quasi tutti i casi di
spionaggio, le ricerche immediate ci hanno portato a scoprire nel
raggio delle segnalazioni la presenza di qualche uomo valido alle armi.
Qualcuno era vestito da prete.
Gli atti alle armi sono arrestati. Si tratta quasi sempre di militari
austriaci. Molti confessano.
La carovana che passa è composta di questi prigionieri.

Come sbagliarsi? Sotto i travestimenti più eterocliti, il soldato
austriaco si rivela. Baffi biondastri e ritorti, basette lunghe, tipi
magiari, tipi tedeschi, portamento stecchito, fisionomie chiuse e dure,
sguardo nemico.
Perchè non fuggano sono uniti a due a due per le braccia. Pochi
fantaccini li scortano, con la baionetta inastata. I soldati che
incontrano non dicono niente, guardano con disprezzo la processione
sinistra e proseguono il loro cammino. Ma un conducente romano non
resiste, e dall'alto del suo cavallo interpella un prigioniero che ha
una faccia da _feldwebel_ classico: _Hai finito de fa la guerra cor
lanternino?_
Ha finito, sì, e alle spie che non sono state ancora acciuffate
l'esasperata vigilanza dei soldati rende molto difficile il còmpito.
Ma ve ne sono ancora, rese audaci dai lauti compensi pagati, e dai
più lauti promessi. E in parte anche dalla nostra magnanimità che
rifugge dalla giustizia sommaria e ci lega a procedure fra le quali lo
spionaggio scivola. Ci si era teso ogni sorta di tranello.
Le semplici popolazioni della campagna erano state terrorizzate con
i racconti della nostra ferocia, per indurle a fare una difesa da
siepe a siepe, e in qualche centro delle armi erano state distribuite.
Le sciagure che quella povera gente da undici mesi sopporta erano
addebitate all'Italia. L'Italia, questa stracciona, era responsabile
della guerra europea, della leva in massa, delle requisizioni; delle
contribuzioni, del pane K, della carestia. La molla più possente
nell'anima campagnola, il sentimento religioso, non veniva trascurata:
gl'italiani erano gli alleati del demonio, gli scomunicati, i dannati,
senza fede e senza morale. I nostri soldati, miserabili e delinquenti,
avrebbero profanato, rubato, massacrato.
Nelle cittadine ci ha accolto qualche volta l'entusiasmo schietto e
vivo delle popolazioni liberate, e la voce del sangue ha finito per
parlare anche alle genti più disperse e ignoranti della campagna.
La carità, la bontà, la generosità dei soldati hanno fugato ogni
prevenzione, se una prevenzione rimaneva in qualche anima oppressa dal
terrore abituale della servitù.
Le macchinazioni sleali del nemico si vanno sventando. Ma sta il fatto
che l'Austria ha cercato di usare come armi di guerra, oltre allo
spionaggio e al tradimento, la paura di povere donne e di poveri vecchi
contadini e la loro fede cristiana.
Tutto è buono quando serve: _Kriegsbrauch im Landkriege_....


DAVANTI A GORIZIA.
_20 giugno._

Mentre annotta, un duello di artiglierie s'impegna. Si distinguono i
colpi dei nostri cannoni da campagna, più avanti, più lontani, che si
son fatti sotto come una gran muta abbaiante di molossi intorno alla
fiera bloccata, mentre i boati più cupi degli obici echeggiano nelle
vicinanze e il bagliore delle vampe si accende fra le vigne contornando
neri profili d'alberi.
Forse si prepara un passo avanti sul Carso? Forse si respinge un
contrattacco? Chi sa? Le fanterie nemiche sono in qualche punto a
portata di voce. Nelle ore di silenzio, alla notte, i nostri soldati
odono gli austriaci che parlano dietro ai loro parapetti di roccia,
sulla quale le granate mordono così malamente.
Si combatte per la conquista di ciglioni nudi, sassosi, sui quali non
si possono scavare trincee. La parola Carso viene dal celtico _carn_
che significa roccia. La montagna, con le sue stratificazioni calcaree,
con quelle ossature bianche che emergono fra i magri sterpi sulle
piccole vette, con le sue vallette verdi, sorprendenti di rigoglio,
strane conche di frescura entro bordi di pietra, con i suoi crepacci,
le sue spelonche, e gl'imprevisti aspetti pieni di una tagliente
arditezza, ricorda un po' la montagna di Derna.
La natura offre alla difesa delle formidabili posizioni naturali,
completate e fortificate con un assiduo lavoro. Il nemico si annida
dietro baluardi di macigno, ai cui approcci si accumulano le difese
ausiliarie delle focate petriere e dei reticolati. Se l'Austria ha
creduto utile fingersi sorpresa dalla nostra guerra, tutto sul campo
di battaglia smentisce la sorpresa, tutto vi dimostra invece una
preparazione ben studiata, lunga e paziente. L'abilissima e laboriosa
organizzazione tattica del terreno dice come la guerra con l'Italia
fosse da gran tempo nei piani austriaci. Soltanto il momento rimaneva
da scegliersi. E quello lo abbiamo scelto noi.
Se non avessimo che degli uomini armati contro di noi, se non ci
fossero che delle masse manovranti, come nelle classiche guerre del
passato, se il valore, l'ardimento, l'eroismo costituissero ancora i
coefficienti massimi e quasi esclusivi della vittoria, noi non saremmo
più sull'Isonzo.

Ma l'eroismo finisce pur sempre con l'imporsi. Esso è una volontà che
arriva al furore. Una volontà che gli ostacoli esasperano e rafforzano.
Le nostre truppe, avanti alle difficoltà, non hanno che un impulso,
quello di slanciarsi.
Tutto ciò che abbiamo letto di più bello sulla guerra europea, di
assalti audaci e veementi, di attacchi alla baionetta attraverso folti
reticolati, in una grandine di piombo, non deve più farci invidia.
Simili episodi si svolgono normalmente nella nostra guerra. Soldati che
non erano mai stati al fuoco hanno trovato semplice e naturale andarci
così.
Al primo urto l'esercito si è comportato come se avesse sempre
combattuto e sempre vinto; ha dimostrato un istinto di battaglia,
una sapienza spontanea della lotta, una natura guerriera. Possedeva
inconsapevolmente virtù militari, che solo la pratica della guerra
sembrava dovesse infondere. Gli egoismi naturali degl'individui sono
scomparsi, la vita delle persone si è fusa in una vita più grande,
ogni uomo si è sentito una molecola nel vasto organismo dell'esercito,
una goccia d'acqua nell'onda. Vi è un ardore di tutti, un sentimento
di tutti, una passione di tutti, un solo volere, un solo cuore. Si
è destata subitamente nell'esercito nuovo l'anima antica, la fiera
anima della razza foggiatasi nel fulgore lontano di secoli gloriosi.
Vengono da lei queste abilità della guerra nella folla italiana. Questo
travolgente desiderio di assalto è un'eredità latina, come la lingua.
I sistemi della guerra moderna e la natura del terreno ci costringono
però ad un'azione paziente, fatta di scatti calcolati e di attese, di
colpi improvvisi e di pressioni lente, un'azione studiata, razionale,
metodica. Non abbiamo una posizione da prendere: ne abbiamo tante,
incatenate su cinquecento chilometri di fronte. E per ognuna è una
piccola battaglia, con le sue sorprese, le sue finte, le sue soste, le
sue manovre.
Guardate una carta: l'austriaco avanti a noi è sempre più in alto. Egli
tiene l'alta montagna, il nodo alpino, e noi saliamo i contrafforti,
conquistando sprone per sprone, declivio per declivio, vetta per vetta.
La nostra guerra è un'ascensione. Sempre più su, sempre più su. Ogni
combattimento è un gradino che superiamo. Il gradino seguente domina.
Il nemico fugge in altezza. Ritirandosi ci sovrasta. Ma che importa?
Noi ascendiamo irresistibilmente.
Nel Carso il nostro attacco s'inerpica ora sulle prime pendici.

Il duello d'artiglierie prosegue.
I cannoni austriaci fanno delle salve serrate e poi tacciono. Forse
hanno poche munizioni; forse temono di scoprirsi. Cambiano spesso il
loro obbiettivo. Non fanno quasi mai un fuoco di ricerca, di assaggio,
di esplorazione. Colpiscono raramente e con magri risultati, ma si
vede bene che sanno sempre dove tirano e contro quale bersaglio. Non
esitano. Cercano di agire a colpo sicuro. Segnali di spie? Abilità di
osservatori?
Ma quando una batteria austriaca è individuata è una batteria
silenziata. Un uragano di fuoco piomba su di lei. Allora dietro le
spalle delle alture pare avvenga una breve eruzione. Certo è che i
cannoni nemici sono astutamente piazzati. Sorge il dubbio che alcuni,
dei quali neppure i riflessi della vampa si scorgono nell'oscurità
della notte, siano nascosti in caverne.
La montagna è tutta grotte e baratri sotterranei. Ha labirinti immensi
nelle sue viscere; pozzi, cunicoli, gallerie, spelonche, formano un
meraviglioso e tenebroso paese di abissi. Vicino a Monfalcone stesso si
spalancano antri misteriosi dai quali emana uno spavento leggendario,
come la Grotta del Diavolo dove secondo la tradizione si muore di
terrore. È possibile che dietro la bocca cespugliata di cavità naturali
stiano dei cannoni in agguato, diretti dal comando telefonico di
osservatori appiattati sulle vette? Lo sapremo.
Tutta la vallata echeggia. Su Ronchi, su Monfalcone, delle granate
cadono. Le città sono deserte, gli abitanti sono fuggiti in massa verso
l'Italia. Sull'arsenale si ergono ancora intatte le alte ciminiere, ma
gli edifici sono in rovina. Il lavoro vi si è ostinato fino al giorno
quattro.
I bombardamenti eseguiti dalla nostra flotta avevano già paralizzato il
cantiere navale, ma v'era una fabbrica di proiettili di artiglieria,
appena impiantata, che non voleva darsi per vinta. Gli austriaci non
credevano che la nostra avanzata li sopraffacesse così presto. La loro
perseveranza nel mantenere attivi alcuni stabilimenti di Monfalcone
dice come si credessero sicuri della difesa dell'Isonzo e dà la misura
del nostro successo. La guarnigione fu sorpresa dalle avanguardie
italiane, e si salvò a stento inerpicandosi affannosamente oltre la
Rocca, inseguita dai nostri che non volevano lasciar presa.
La città antica, al di là dell'arsenale, così italiana, così veneta con
i suoi portici bassi, le sue procuratie dagli archi larghi come quelli
di cripte, è vuota, silenziosa, oscura, e qua e là le vecchie case
abbandonate, nelle risuonanti viuzze pittoresche, sono sfregiate dalle
esplosioni che sforacchiano qualche tetto e ne soffiano via le tegole.

Per tutta la notte il cannone ha rombato. La più grande violenza
delle artiglierie era verso Gorizia. Il cielo palpitava di lampi a
settentrione.
All'alba, delle immense colonne di fumo si scorgono in fondo alla
pianura. È il paese di Lucinico che brucia.
Entriamo ora in un'altra zona delle operazioni. Ci avviciniamo alla
strada di Gorizia, cioè al centro della battaglia dell'Isonzo, dove
più ferve intensa e vasta la lotta, dove gli austriaci hanno posto le
più forti difese, le più possenti e numerose artiglierie, le più solide
truppe.
Le posizioni nel loro insieme sono rapidamente descritte. L'Isonzo
scorre in una gola profonda fino a Salcano, cioè quasi fino a Gorizia,
e, da lì al mare, mentre alla destra del fiume si apre subitamente
l'ampia distesa verde della pianura friulana, alla sua sinistra invece
s'erge ancora, quasi senza interruzione, la montagna, ora a picco
sull'Isonzo, come a Sagrado, ora discosta diversi chilometri come a
Ronchi e Monfalcone. All'occhio, osservando il panorama, al di là del
fiume appare tutta una barriera; c'è come una muraglia, che chiude
l'orizzonte orientale, sfumando verso l'Adriatico. Le montagne formano
per così dire i bastioni di una smisurata fortezza della quale l'Isonzo
è il fossato. In qualunque punto del fiume, chi vuol passare si trova
di fronte questo baluardo, più o meno accessibile, spesso altissimo,
scosceso, imponente.
Formidabile e semplice, nella sua linea sommaria il piano di
difesa austriaco è consistito nella distruzione dei ponti, e nella
fortificazione della grande barriera montana con opere di ogni genere,
con multiple linee di trinceramenti e con una distribuzione sagace di
artiglierie ben nascoste.
Ma la barriera è spezzata, per dir così, da due valli, per le quali
passano le comunicazioni verso l'interno. La muraglia ha insomma due
porte, che danno accesso alle grandi arterie stradali e ferroviarie
per Lubiana, per Villaco, per Klagenfurt, il possesso delle quali è
essenziale. La conquista e la difesa delle due porte doveva perciò
essere l'obbiettivo logico dell'azione; qui dovevano evidentemente
convergere gli sforzi dei due eserciti. E alle due soglie gli austriaci
hanno quindi accumulato tutte le difficoltà, tutti gli ostacoli, tutte
le insidie che la loro scienza militare, perfezionata dalla lunga
pratica, poteva suggerire.
Le due porte sono Tolmino e Gorizia.

A Tolmino per la vallata dell'Idria e a Gorizia per la vallata del
Vipacco sboccano dunque nella valle dell'Isonzo fasci vitali di strade,
che scavalcano il fiume su molteplici ponti. Questi sono i soli ponti
che non siano stati ancora distrutti. È oramai un elemento d'arte
militare noto anche ai ragazzi che per difendere efficacemente il varco
di un fiume bisogna portarsi avanti, bisogna cioè occupare non soltanto
la riva da proteggere ma prendere solidamente posizione sull'altra
sponda, stabilire delle opere di arresto più lontane che sia possibile,
tanto per impedire al nemico l'accesso al varco, quanto per garantire
a sè stessi il libero uso del varco stesso e passare, occorrendo, dalla
difensiva all'offensiva.
È appunto quello che a Tolmino e a Gorizia gli austriaci hanno fatto
e che in termine tecnico si dice «testa di ponte». In questi due punti
essi si sono radicati al di qua del fiume. La natura del terreno li ha
straordinariamente aiutati. Allo sbocco della valle dell'Idria, al di
qua dell'Isonzo, presso Tolmino, si ergono due montagne gemelle, unite
per le falde, isolate in giro, cinte da tre lati da una curva sinuosa
dell'Isonzo: una specie di gigantesca e dominante coppia di sentinelle
a guardia di una soglia. Il loro nome è stato fatto sui bollettini:
sono le montagne di Santa Maria e di Santa Lucia. Fortificate, munite
di cannoni di grosso e di medio calibro, le due montagne comandano
tutti gli accessi.
Con un'analoga prodigalità la natura ha eretto avanti a Gorizia,
sulla destra dell'Isonzo, non meno formidabili baluardi nelle brusche
alture di Podgora, alle quali si attacca un tumulto di colline, che
si culmina, un poco al nord di Gorizia, nel monte Sabotino, fosco,
oblungo, imponente. Tutto questo sistema di vette e di declivi è
fortificato a oltranza.
Riducendo la difesa dell'Isonzo all'immagine rudimentale del muro con
due porte, un solido muro crestato di vetro e due porte terribilmente
barricate avanti alla soglia, comprendiamo chiaramente nel suo schema
la nostra azione, così bene descritta dai bollettini. Mentre investiamo
la porta principale, Gorizia, abbiamo scavalcato il muro alle due
estremità, Caporetto e Monfalcone, e incuneiamo la nostra azione
all'altra parte della barriera. A nord e a sud delle due teste di ponte
austriache, abbiamo così creato noi due teste di ponte italiane, per le
quali l'offensiva penetra e lentamente si allarga al di là dell'Isonzo.
Ed ora guardiamo.

Nella mattinata serena, la pianura superba, coperta da vegetazioni
così folte che simulano il bosco, sfuma via e impallidisce, contro la
luce del sole, in tinte evanescenti. Al primo momento la battaglia,
come tutte le battaglie moderne, è invisibile, incomprensibile,
un frastuono tonante, un formarsi e un dissolversi di fumo, un
chiamarsi e rispondersi di rombi e di boati, uno scintillare vago
di vampe in località imprecisabili. E tutto questo sembra poca cosa
nell'impassibilità sublime del paesaggio.
A chi osserva dall'alto di una delle rare collinette che levano sulla
pianura la molle groppa impellicciata di acacie, i villaggi, immersi
nelle immobili onde delle verdure, si fanno riconoscere ad uno ad uno,
per il campanile. Un campanile strano, con la cupoletta slava, che
ricorda quello delle chiese russe: Romàns — più vicino, un campanile
aguzzo, ardito, veneto: Versa — un campaniletto campestre che una
granata ha sfiancato: Fratta. Sono tutti paesi che i cannoni austriaci
hanno successivamente preso di mira. Gli abitati sorgono secondo
una logica della viabilità, le case si aggruppano alle confluenze di
strade, ogni villaggio chiude un piccolo centro di comunicazioni, e
l'artiglieria nemica, colpendo i villaggi, ha cercato di colpire ai
nodi le maglie della grande rete di vie che in ogni senso vena di
bianco la pianura friulana.
Sotto alle alture che chiudono il piano, Gradisca si sgrana bianca
lungo la sponda dell'Isonzo, che è indicata da un infoltire di verde,
da uno schieramento solenne di pioppi. Dei giardini, delle ville,
dei recinti, e, quasi fuori del paese, i grandi edifici della scuola
normale, una caserma, degli stabilimenti industriali sui quali le
ciminiere si levano sottili come antenne. Come tutto sembra quieto
laggiù, nel sole!
Alla città fa sfondo il Monte San Michele, che è un'ultima propaggine
del Carso, e più lontano, più in alto, irrompono, azzurre e pallide, le
vette del Monte Re. Ai piedi delle alture, sul limite della pianura,
come la spuma al bordo del mare, è un biancheggiare quasi continuo
di paesi, greggi di case che si dissetano nell'Isonzo. Sdràussina,
Sagrado, Fogliano, San Pietro, e sembra tutto un prolungamento di
Gradisca. Sulle pendici, dei prati verdi, delle boscaglie oscure, delle
strade deserte che serpeggiano ascendendo, delle trincee austriache
abbandonate — lunghe e sottili ferite nere, insolentemente visibili.
Sono probabilmente delle false trincee, incaricate di attirare la
nostra attenzione. Le vere si nascondono, si mascherano con erbe e
fronde.
S'incomincia a comprendere.
Le tappe della nostra avanzata sono segnate sulla pianura. Ogni sosta
ha lasciato una linea fulva di terra smossa, un solco di trinceramenti
dai parapetti punteggiati di feritoie, una barriera oscura che
attraversa i prati, sparisce nei vigneti, tocca dei paesi, si nasconde,
si perde. Il più vicino è il fronte sul torrente Versa, il fronte
assunto il primo giorno della guerra, come i comunicati descrissero.
Sono tutte abbandonate, quelle strane arginature della battaglia
che hanno segnato sulla terra una specie di gigantesco diario della
conquista, sono tutte lasciate indietro. La fanteria non si vede più,
è laggiù a Gradisca, tiene quella linea di paesi, tocca il fiume, si
annida nella boscaglia delle rive, pare scomparsa.
Nell'apparente solitudine luminosa del paesaggio, sono i proiettili
di cannone che rivelano vagamente le disposizioni del combattimento,
che lasciano intuire le masse combattenti sotto la coltre delle
vegetazioni. Due o tre stormi di _shrapnells_ austriaci scoppiano
sulla pianura, un polverone di calcinacci annebbia per un istante
un campanile, delle nubi bianche si formano sulle cime d'un filare
di platani. Una pausa, poi altre nubi si sfilacciano lentamente
nell'aria calda e quieta, e le esplosioni echeggiano. Ma da località
imprecisabili si solleva un tumulto impetuoso di rimbombi. La risposta.
Sono obici italiani che interloquiscono, ed ecco le vette sopra Sagrado
in convulsione. Se gli _shrapnells_ austriaci ci hanno indicato dove
stanno forse delle truppe nostre, sappiamo bene ora dove si nascondono
i cannoni che li hanno lanciati. Le granate italiane tempestano le
vicinanze di una villa circondata da boschetti, sul ciglio dell'altura.
È Castello Nuovo. Nembi di polvere e di fumo la avvolgono; i boschetti
scompaiono nelle dense nubi degli scoppi. La batteria austriaca non
fiata più. È un episodio breve, repentino, minuscolo.
Altri si succedono, incessantemente; la nostra attenzione è chiamata da
cento parti. Bisogna seguire le indicazioni del cannone. Esso spiega la
battaglia, a poco, a poco. Su tutto il fronte l'artiglieria romba, ma
la tempesta più violenta, più intensa, più ostinata, è verso Gorizia.
Oggi è uno di quei giorni che i bollettini chiamano di «attività sul
basso Isonzo». Sono i giorni nei quali si fa un passo avanti. Intorno
a Gorizia è l'uragano. La città, i sobborghi, le alture di Podgora,
impallidiscono in una bruma grigiastra.

Gorizia si nasconde in parte dietro alle alture di Podgora, s'incastra
fra le montagne, si annida in quell'ultimo lembo di pianura che
s'insinua verso la gola dell'Isonzo. Da lontano, Gorizia, che spunta
dalla valle affacciandosi nel piano, fa l'effetto di un torrente
di case che dilaghi dallo sbocco e si spanda in un'effervescenza di
muraglie bianche. I bordi della città presso l'Isonzo, dove delle linee
di difesa austriaca si annidano, la stazione ferroviaria, le adiacenze
dei ponti, sono bombardati. L'incendio di Lucinico si allarga. Lucinico
era compreso nelle fortificazioni di Podgora e la popolazione l'aveva
abbandonato.
Le fiamme si levano agitate, occhieggiano chiare nel tremolìo di
un'atmosfera ardente e fosca, e sulla folla velata e confusa degli
edifici il fumo sale denso nella calma, altissimo. Gli scoppi delle
grosse granate coprono di cirri le creste di Podgora. Nembi bianchi
sorgono lentamente dalle vallette di tutto quel complesso sistema di
alture che nasconde Gorizia. Sui fianchi violastri del Monte Sabotino,
che solleva più lontano la sua lunga groppa, il fumo si arrampica in
nubi che si dissolvono lente.
I nostri cannoni battono su tutti gli sbarramenti. La battaglia
s'inerpica, va verso San Floriano, va verso Plava. Scende dal nord,
dai monti, un boato continuo di cannoneggiamento remoto. Le esplosioni
vicine hanno una violenza da folgore. L'attacco nostro, generale per
l'artiglieria, non ha la pienezza delle grandi masse per la fanteria;
non vuole averla; si comprende che ha qualche obiettivo parziale; ma
su certe posizioni nemiche esso preme con magnifica violenza. Linee e
linee di trincee avanzate sono state prese. Alcuni reparti, ricacciato
il nemico, lo incalzano sulla seconda linea, che è la più forte.
Si combatte ai bordi di Lucinico in fiamme, sotto alle buffate acri
dell'incendio. Gorizia è là a due passi.
Con un entusiasmo ardente, con un eroismo sublime, delle fanterie
nostre hanno saputo portarsi di fronte alle più formidabili opere
campali di difesa, e sono là imperterrite, a qualche centinaio di metri
dal nemico, nelle frettolose trincee d'attacco.


ASPETTI DELLA LOTTA SULL'ISONZO.
_22 giugno._

La preparazione austriaca, evidentemente iniziata da moltissimo tempo,
ha fatto tesoro delle esperienze della guerra delle nazioni. Le prime
trincee conquistate dai nostri, profonde, interamente protette, con
delle vegetazioni abilmente riportate sulla copertura, non hanno
resistito all'impeto dell'assalto. Più avanti abbiamo trovato dei
baluardi di cemento armato, delle scudature di acciaio, tutte le difese
della guerra di trincea, contro le quali bisogna passar dalla furia
alla pazienza.
Il terreno, avanti, è disseminato di tranelli, e in qualche posizione,
perchè il tiro dell'artiglieria non distrugga i reticolati, questi
sono abbattuti, giacciono molli al suolo, non si scorgono; ma quando
l'assalto arriva o è imminente, dall'interno delle trincee i difensori
tirano delle corde, e i reticolati sorgono impreveduti e intatti.
Talvolta le trincee austriache, quando forse il fuoco della grossa
artiglieria si precisa o quando occorre spostare delle truppe allo
scoperto, si nascondono in un fumo di sostanze resinose. I punti
più importanti, più vitali, sono così trasformati in fortezze. Agli
approcci diretti di Gorizia, sui declivi di Podgora e del Sabotino, si
sovrappongono in ranghi paralleli trincee blindate, dalle cui feritoie
minuscole scoppietta un fuoco accurato di miratori scelti.
Non era sufficiente l'asperità dei luoghi; non bastava la protezione
offerta dalla terra stessa, che oppone alla invasione i castelli delle
sue vette; bisognava, per mantenervisi contro di noi, moltiplicare
all'infinito le resistenze impassibili della meccanica guerresca,
ridurre al minimo il coefficiente del valore umano; era necessario dare
il còmpito massimo della difesa all'acciaio, al cemento, all'intreccio
di fili di ferro che si spande sui pendii come un'immensa tela di
ragno, alle mine: combattenti che non fuggono. Per quanto buone,
solide, disciplinate, agguerrite, abili, le truppe austriache non hanno
mai posizioni troppo forti per il nostro soldato, quando al valore
degli uomini più che all'automatismo delle cose è affidata la lotta.
Ed anche contro la muraglia di cemento, contro i reticolati a sorpresa,
sulle mine, l'assalto italiano si sarebbe egualmente gettato,
furibondo, eroico, se non fosse stato trattenuto. In breve tempo
la linea d'attacco è arrivata fino lì, in un balenìo di baionette.
Un'avanzata che sarebbe potuto costare i sacrifici di una lunga e lenta
progressione, e trasformarsi forse in guerra di scavo, è avvenuta
fulminea, irresistibile. Qualche reparto è così vicino alla linea
blindata che l'artiglieria ha dovuto sospendere il fuoco su quel
punto, e a portata di voce dagli austriaci fortificati i nostri soldati
lavorano a sistemare le trincee avanzate che hanno preso, nelle quali
raccolgono le armi abbandonate dal nemico.
Alcuni fucili austriaci, nuovissimi, portano impressa sulla canna
un'aquila, ma non bicipite. È un'aquila con una sola testa, e posata
sopra una foglia di cactus, le ali aperte, essa tiene fra gli artigli
e nel becco un serpente che si torce avvolgendola nelle sue volute; in
giro all'aquila le parole: «Republica Mexicana». Ancora i fucili di
Massimiliano? No, sono i _mausers_ preparati per il generale Huerta,
e rimasti «per conto», il destinatario essendo partito senza lasciare
indirizzo.
Di tanto in tanto, nel rombare delle cannonate, echeggia un boato più
possente e profondo degli altri, che domina il frastuono come un colpo
di grancassa in un concerto. È il famoso obice austriaco da 305.
Si sapeva all'inizio della guerra che c'erano dei 305. Qualche profugo
li aveva visti passare, trascinati da file di buoi e scortati, pare,
da artiglieri tedeschi. Ma, efficaci nella demolizione di fortezze, i
305 sembravano inutili in una difesa a campo aperto dove il loro colpo,
costosissimo, lanciato sopra un bersaglio vago, non poteva produrre
molti più danni d'un altro qualsiasi colpo di grosso cannone. Perciò,
ad onta delle informazioni, si dubitava della loro presenza sul nostro
fronte. Questi colossi dell'artiglieria hanno gli svantaggi di una
mobilità faticosa. Sono i pachidermi della guerra.
Forse gli austriaci contavano sull'effetto morale. Il successo doveva
scaturire sopra tutto dal rumore. L'obbiettivo iniziale del mostro fu
la stazione di Cormons.
Alla prima detonazione formidabile, che fece sobbalzare gli edifici,
nella stazione si credette che fosse scoppiata una cassa di munizioni.
Fu un correre curioso di soldati, d'impiegati, che si domandavano: —
Com'è successo? Dove? — e la folla si precipitò a vedere. In un punto,
sulla campagna, c'era un gran fumo. E tutti via, verso il fumo.
Dissipatasi la nube, si vide a terra una buca larga cinque o sei metri,
profonda tre o quattro. Si facevano le più svariate ipotesi. In quel
momento, nell'aria s'avvicinò un rombo che si spense in un soffio
possente, e subito dopo un'altra nube di fumo, un'altra detonazione
profonda, dalla parte opposta della stazione. «Ah, ma sono cannonate!»
dissero allora tutti come tranquillizzati. Il mistero era perfettamente
chiarito. La cosa diventava naturalissima. Diamine, cannonate in tempo
di guerra, niente di più logico. E il lavoro fu ripreso, quietamente,
serenamente.
Ognuno tornò al suo posto, con qualche fierezza di sentirsi al fuoco,
e la stazione di Cormons continuò a funzionare con perfetta regolarità,
come se niente fosse. Nemmeno gli abitanti della città si spaventarono.
L'effetto morale fu veramente straordinario.
È anche vero che le granate da 305 non toccarono nessuno.

Dove tirano ora i famosi obici? È difficile indovinarlo. Non hanno
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