Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 03

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in alto come braccia levate. Sotto a grandi copertoni di tela grigia
s'indovinano forme di cannoni.
Alla stazione di San Giorgio assisto all'arrivo d'un treno di feriti.

È un treno della Croce Rossa, tutto nuovo. Vestite di bianco, delle
dame di un comitato locale vanno premurose da un vagone all'altro
distribuendo bibite ghiacciate. Non si ode un lamento.
La prima cosa che i feriti domandano è d'essere informati della
guerra. Hanno sete di notizie. Portati via dall'azione, vogliono
sapere quel che è successo dopo, quello che succede altrove. Si direbbe
che soffrano più per il distacco dal combattimento che per le ferite
ricevute.
«Che cosa si sa oggi?» — chiedono prima di portare alla bocca il
bicchiere madido. «Buone nuove, Monfalcone è presa!». La voce passa
da una cuccetta all'altra. Tutti si sollevano sui gomiti, i meno
sofferenti balzano a sedere, è una agitazione sotto le lenzuola
candide, delle teste bendate sorgono dai cuscini: «Monfalcone è
presa!».
Dei dialoghi brevi s'intrecciano: «Ah, se fossi sicuro d'avere
ammazzato un austriaco, non me ne importerebbe della ferita!» — esclama
riadagiandosi cautamente uno che ha la spalla fasciata. Dalla cuccetta
sopra a lui una voce rauca scende: «Io uno almeno l'ho infilato!» — è
un fantaccino che è stato ferito di baionetta alla coscia durante un
assalto. Dopo un istante riprende: «Io uno, e lui (additando un altro
lettuccio) lui due!».
Qualche esclamazione d'incredulità, o d'invidia, si leva. «Due, due! —
ripete la voce. — Era vicino a me. Ci sono i testimoni. Due austriaci
si sono buttati addosso al capitano. Eravamo sulla trincea. Allora lui
l'ha spacciati tutti e due, ma ha preso una baionettata. È vero? tu,
parla!». — Ma l'eroe non può parlare, manda un mugolìo d'approvazione,
poi solleva il braccio nudo, un braccio nodoso, forte, bronzato,
che emerge dal biancore del letto e agita l'indice e il medio tesi
ripetendo col gesto ostinato: «Due, due, due....».
«Silenzio, ragazzi! — ammonisce dolcemente un infermiere che passa. —
Chi ha ancora sete?».
L'abnegazione del personale sanitario, tutto, è magnifica. Ad essa si
deve se i nostri feriti sono quasi tutti leggeri. La gravità d'una
ferita è spesso prodotta soltanto dal ritardo delle prime cure. Con
questo calore torrido, anche gl'infermieri, stanchi, debbono aver sete,
e pure essi rifiutano le bibite che vengono offerte anche a loro quando
tutti i feriti hanno bevuto.
L'attesa è lunga alla stazione; occorrono molte manovre per sgombrare
al treno la via, e nei vagoni chiari, odoranti di medicinali, si rifà
il silenzio. Alcuni feriti, che dal comitato delle dame hanno ricevuto
in dono delle cartoline militari e dei lapis, scrivono lentamente,
seduti sul letto. Uno fuma voluttuosamente una sigaretta e ne scaccia
il fumo facendo ventaglio della mano, perchè è proibito fumare. La
stazione sembra divenuta deserta. Sul marciapiede affocato passeggia il
territoriale di sentinella, solo. Fischiano le locomotive laggiù verso
i dischi, sui binarî abbacinanti, e il cannoneggiamento brontola dalla
parte del Carso.

Il desiderio di tornare al fronte è comune a quasi tutti i feriti. È in
loro la fede profonda e l'aspettativa della vittoria. Si rammaricano
di esser portati via «sul più bello». Sono presi dalla passione della
battaglia, dall'istinto della lotta, sentono ardentemente tutta la
grandezza e la giustizia sacrosanta della nostra guerra, ma sopra tutto
hanno come il sentimento che «si ha bisogno di loro», la preoccupazione
di un posto vuoto lasciato nelle file. È uno spirito straordinario di
solidarietà, è un senso altissimo del dovere, che rivelano nella razza
virtù guerriere d'una possanza insospettata.
All'ospedale di San Giorgio è ricoverato un soldato automobilista;
conducendo la sua macchina, per evitare due cavalleggeri che chiudevano
la strada ad una svolta, egli era andato a finire nel fossato,
ferendosi contro al volante. Correva incaricato di una missione: ora
il suo incubo è di compierla. Ha la febbre, non può muoversi dal letto,
ma prega, scongiura medici e infermieri: «Bisogna che io vada, credete,
è importante, lasciatemi andare, tornerò dopo...!». Questo senso di un
dovere assoluto, improrogabile, sacro, di un dovere che va compiuto ad
ogni costo finchè c'è un alito di vita, è diffuso nell'esercito ed ha
la profondità d'una convinzione religiosa.
Per tutto dove passo trovo degli esempi umili e magnifici di questa
nobile comprensione del dovere, anche fuori dei combattimenti,
nell'oscura fatica dei servizi. Ecco, in vicinanza del fronte, a
Medea, sulla via polverosa passano i cucinieri di un reggimento che
sono andati per l'acqua; sono sporchi, sono stanchi, non dormono che
tre o quattro ore per giorno, sul far dell'alba. Uno di essi, dagli
occhi febbricitanti, ha la mano destra fasciata, enorme, sollevata
e tremante. Porta il secchio sulla spalla sinistra. «Come stai?» —
gli domanda affettuosamente un ufficiale superiore. Il soldato, un
contadino calabrese piantato sull'attenti, risponde: «La mano mi fa
male ancora!». Quando si è allontanato, l'ufficiale mi spiega: «È
caduto, e cadendo si è immerso la mano nell'acqua bollente; il medico
gli ha ordinato di coricarsi sotto la tenda, di restare in riposo,
immobile, ma lui dice che c'è troppo da fare, ed ha pregato i superiori
di lasciarlo lavorare finchè Dio gli dà la forza di resistere».
Poco lontano, a Viscone, ad una tappa di carreggi, passa lungo i muri
del villaggio un sergente d'artiglieria zoppicante, col piede sinistro
fasciato. È stato ferito e mandato alla medicazione, ma egli afferma
che non è niente ed evita i posti sanitari perchè «lo portano via».
«Sono sicuro — mi dice — che riposandomi qui domani potrò rimettere la
scarpa e rimontare a cavallo; così ritrovo subito la batteria....».
Egli si è fermato a portata di voce, per dir così, della sua batteria,
e ne ascolta i colpi lontani, e li riconosce: «Ecco, è lei.... — e con
un sorriso soddisfatto — Come sona duro, eh?». Il profano non sente che
un confuso e formidabile rimbombare di tuoni verso Gorizia.

Avanti, gli avvenimenti ci chiamano con questo rombo tempestoso.
Andiamo verso l'Isonzo.
Come tutto prova l'iniquità della frontiera che abbiamo cancellato!
Come ogni cosa è italiana al di là! Vi è l'impronta nostrana sulla
terra, nel paesaggio, nella natura. Le vegetazioni come gli uomini
gridano la loro italianità. Presso antiche ville, che hanno nomi
legati alla nostra storia, vecchi cipressi muscolosi ergono la loro
mole gigantesca, oscura, solenne, che sembra un'affermazione vigorosa
e superba di nazionalità; si direbbero il simbolo caratteristico del
nostro suolo; le coltivazioni, i parchi, i giardini, tutta questa
campagna meravigliosa, prodigano forme e colori che sono unicamente
della nostra patria. Viaggiando sulle regioni conquistate s'intuisce
una unità più profonda ancora di quella della razza, dei costumi, della
lingua, un'unità perenne, inalterabile alle emigrazioni e ai dominî,
eguale sotto alle correnti e alle tempeste umane, una unità eterna:
quella della terra.
La strada bianca corre ancora nell'ombra dei platani, e di tanto in
tanto qualcuno di questi giganti, tagliato per formare una barricata
austriaca, giace abbattuto, rovesciato nel fosso o sul bordo erboso.
Barricate e trincee chiudevano la via ad ogni svolto, ad ogni
ponticello. Ma nessuno le ha difese. Fino a Cervignano, per avanzare
non s'è avuta che la fatica di rimuovere gli ostacoli. A Cervignano
pochi colpi di fucile. Un ponte di ferro, all'entrata del paese, era
barrato da un terrapieno e da un'abbattuta d'alberi. Una cannonata, che
ha lasciato il segno sull'armatura del parapetto, è bastata a mettere
in fuga i difensori.
Il paese ha ripreso un'aria tranquilla e sonnolenta, e i convogli
militari passano con frastuono per le strade antiche, anguste ed
affocate, fiorite di bandiere. Al di là, verso l'Isonzo, un polverone
denso annebbia la pianura. Il cannoneggiamento è più vicino. Nell'aria
limpida, chiaro, metallico, diafano, un pallone frenato si libra.
Ancora pochi minuti, e ci troviamo fra le truppe. Dei reparti passano
il fiume. Sulle alture di Monfalcone la battaglia rugge.
La nostra prima avanzata, che qui giunse d'un balzo a pochi chilometri
dall'Isonzo, non fece in tempo a salvare i ponti. La loro distruzione
era forse inevitabile.
Il ponte della strada carrozzabile, lungo più di cinquecento metri,
tutto di legno, ma largo e solido, ha bruciato completamente. Vedevamo
da Palmanova e da Cormòns, il giorno 24, le colonne turbinose di fumo
di questo incendio lontano, e pareva che una città ardesse. Si credette
anzi, al primo momento, che gli austriaci avessero appiccato il fuoco a
dei paesi, per vendetta.
Dei piloni, formati da fasci di travi, non rimangono che alcuni
mozziconi carbonizzati, emergenti ad intervalli regolari dall'acqua
azzurrognola e dalla ghiaia bianca, sull'immensa spianata del vasto
letto. Tutto il resto è scomparso. Le piene ne hanno cancellato ogni
vestigio.
Il ponte della ferrovia, poco discosto, è stato minato, e l'armatura
d'acciaio, ricaduta sulle macerie dei piloni crollati, disegna sullo
sfondo luminoso del fiume come una trina nera, a larghe centine,
spezzata nel mezzo, lacerata e scomposta. Queste rovine dànno la prima
sensazione profonda di un paesaggio di guerra.
Gli austriaci avevano cominciato a preparare delle forti difese sulla
riva destra. Non si trattava più di barricate frettolose. Lunghe,
solide, massicce trincee, dei larghi terrapieni che sembrano dighe,
i quali emergono freschi, del colore di terra smossa, al di qua della
boscaglia che fiancheggia il fiume e gli fa come una scorta di verde,
indicano l'intenzione di fortificare solidamente il passaggio, di
creare anche lì una testa di ponte. La rapidità della nostra mossa
iniziale ha ricacciato il nemico sull'altra sponda. Ritirandosi, gli
austriaci hanno anche distrutto, con delle mine, un pezzo di strada,
all'approccio del ponte.
Ma bisognava passare, e siamo passati.
Le riparazioni della strada, i preparativi per il varco del fiume, sono
stati compiuti sotto ad un fuoco intermittente di artiglieria, al quale
rispondevano i nostri cannoni appostati sulla pianura. Qui, la truppa
di questo settore fece la prima conoscenza col bombardamento nemico.
Il bombardamento nemico fu accolto con una indifferenza umiliante.
La fanteria, inoperosa nelle sue trincee, conversava sotto gli
_shrapnells_, e il chiacchierìo si sentiva da lontano. Sul bordo d'un
fosso, file di soldati inginocchiati lavavano la loro biancheria,
cantando a squarciagola.
Una sera, quando tutto è stato pronto, è scoppiato un inferno.
Dopo il tramonto, ad un tratto centinaia di cannoni nostri hanno aperto
improvvisamente un fuoco serrato sulla riva sinistra dell'Isonzo,
spazzandola a tiri progressivi. Ogni batteria aveva la sua zona da
coprire di proiettili. Gli _shrapnells_ arrivavano a stormi sul bordo
dell'acqua, sulle sabbie della sponda, sui roveti, sulla boscaglia
di salici e di pioppi entro la quale la fanteria austriaca veniva
ad annidarsi di notte schioppettando a intermittenza, e più in là
l'uragano di acciaio e di piombo batteva i vigneti, tempestava le
strade, esplorava la pianura in ogni ripiego. Era uno spettacolo
terribile. I balenii dei colpi e delle esplosioni illuminavano la
notte di una tremula luce violastra, e sulle nostre truppe la veemente
moltitudine delle traiettorie formava una vôlta sonora, una vôlta
ululante.
Alle nove precise, silenzio.
L'Isonzo ha qui due corsi d'acqua, vicini alle due rive, e nel
mezzo, fra l'uno e l'altro, la vasta distesa di ghiaia. Durante
il bombardamento che immobilizzava il nemico, il ramo più vicino
fu rapidamente passato a guado: è basso e con poca corrente. Nel
lampeggiamento delle cannonate si vide un formicolìo nero e silenzioso
di truppe traversare la spianata sassosa del letto e portarsi sul corso
più profondo trasportando il materiale necessario alla costruzione di
zattere.
Quando l'artiglieria tacque, all'ora stabilita, nella quiete
improvvisa pesava l'emozione di una grande attesa. Zattere piene di
soldati vogavano nel buio. Le prime compagnie si gettavano sulla
sponda sinistra occupandola. Altre forze si aggiungevano a loro.
L'occupazione si allargava. Si formava solidamente una testa di ponte.
Per il passaggio del grosso, intanto, il Genio lavorava alacremente
a costruire solide passerelle. Una ordinata e febbrile attività da
cantiere attraversava il fiume.
Ogni tanto due, tre lampi vividi, delle esplosioni: cannonate
austriache. La fucileria crepitava ad intervalli, dominata dallo
scoppiettìo regolare delle mitragliatrici: era la linea della nostra
occupazione che avanzava, sloggiando piccoli reparti austriaci dalle
loro trincee. Se si ostinavano, era l'assalto.
Si udiva allora echeggiare alto, intenso, entusiasmante, l'urlo
trionfale: Savoia! Passava nella notte il grido tempestoso che
faceva battere i cuori dell'esercito in attesa. S'indovinavano
gli episodi dell'occupazione nel risveglio del fuoco e nel levarsi
delle voci. Verso la metà della notte si è capito che gli austriaci
contrattaccavano. Ma si è pure capito subito che erano ricacciati.
L'oscurità è stata per un istante tutta piena di un eloquente vocìo di
vittoria.
Pochissimi feriti. Dei soldati sono tornati indietro con le mani
lacerate dai fili di ferro dei reticolati che essi avevano strappati.
All'alba le nostre colonne passavano serrate l'Isonzo sui tavolati
nuovi e risuonanti, e i tentacoli delle avanguardie avanzavano già
verso le alture di Monfalcone.
Sono le riserve che passano adesso.


AI PIEDI DEL CARSO.
_20 giugno._

Nel polverone denso, che incanutisce le siepi e incipria i pampini,
sulla strada bianca, affocata, accecante, uomini, cavalli, veicoli si
muovono come in una nebbia ardente, e sembrano ombre.
I soldati, già abbronzati dal sole, con quella fisionomia invigorita
e fiera che è data dalla sana fatica del campo, marciano in silenzio,
ordinati, un fazzoletto intorno al collo. Alt! Zaino a terra! Col peso
dello zaino pare che essi depositino la stanchezza; conversazioni e
risate si levano improvvise. È un vocìo allegro da scolaresca.
Largo! largo! — con uno scalpitìo serrato, con un rombo pesante di
ruote massicce, con un frastuono metallico, delle batterie passano
lentamente come in un fumo d'incendio. Al passo dei forti cavalli
normanni le grigie macchine da guerra, che non somigliano più che
vagamente agli antichi cannoni, procedono in una solennità formidabile.
La fine della colonna si perde nei nembi della polvere. Delle
automobili dello Stato Maggiore si aprono un varco fra tanti ostacoli,
e filano verso il fiume.
Là la strada cessa, il polverone si dissipa, e nell'aria tersa
si profilano lontano le pendici del Carso nude, grigiastre. Dalle
vegetazioni della piana emergono chiari e aguzzi i campanili dei
villaggi come fari sopra un mare.
Sulle passerelle che sostituiscono il ponte distrutto le colonne si
assottigliano e si sgranano, i cannoni ed i cassoni si spaziano per
superare con una galoppata l'ostacolo delle ghiaie. I conducenti
scendono di sella e corrono a piedi, schioccando la frusta, aggrampati
alle criniere.
Il cannoneggiamento è vicino. Si vedono scoppiare gli _shrapnells_ in
alto sugli alberi; e dal nord, da Gradisca, da Podgora, da Gorizia,
arrivano boati profondi di artiglierie pesanti.
Presso le rovine del ponte bruciato, dove l'antica strada, all'alto
della ripa, sembra mozzata da una lama e sporge sul fiume un moncone
fra parapetti spezzati, sono le ultime trincee austriache, intorno
alle quali il Genio ha accuratamente raccolto in enormi gomitoli il
filo di ferro dei reticolati spinosi. Ci sarà utile. In qualche angolo
inesplorato si rinvengono ancora certi ramponi di ferro a quattro
punte, dei quali gli austriaci si servono forse per ostacolare il
passaggio ai cavalli, o per armare fosse da lupo. In qualunque modo
si gettino, i ramponi rimangono con una punta eretta, aguzza come un
pugnale. Somigliano ai «triboli» che i soldati romani spargevano per
ostacolare l'assalto dei nemici, barbari a piedi nudi.
Sotto gli alberi, al bordo della trincea, una sedia, quella povera
sedia che compare melanconicamente su tutti i campi di battaglia, che
si rinviene abbandonata, sbilenca e triste, ovunque la guerra ha fatto
una sosta.

A difesa di questa regione del basso Isonzo gli austriaci hanno trovato
un alleato nell'acqua dei canali.
Ai piedi delle alture che sovrastano Gradisca e Monfalcone, scorre un
canale creato a scopi d'irrigazione e per usi industriali. Un'alta diga
maestosa, lunga quasi mezzo chilometro, chiude l'Isonzo presso il ponte
di Sagrado, sul quale passa la strada di Gradisca. L'acqua trattenuta
forma un vasto bacino che nutre il canale con una corrente di quasi
ventidue metri cubi al secondo. Il livello di questo corso artificiale
è più alto della pianura. Spezzando un argine gli austriaci hanno
potuto trasformare in paludi vaste plaghe al nord di Ronchi. L'altura
di Sant'Elia, che è al di qua del canale, è divenuta una penisoletta,
e, fortemente trincerata, ha costituito una posizione avanzata del
nemico.
Per alcuni giorni, la zona accessibile alla nostra offensiva si è
trovata sensibilmente ristretta dalle acque. Il bollettino ufficiale
ha narrato dell'ardimentosa azione di una batteria di obici che,
portatasi sulla linea della fanteria, ha battuto in breccia una diga.
Era la diga di Sagrado. Sfondata quella barriera, l'acqua non si
sarebbe più immessa nel canale e avrebbe ripreso il suo corso normale
nel letto dell'Isonzo. Ma prima che per questo audace bombardamento
l'inondazione, priva d'alimento, defluisse sgombrando il piano, il
nostro attacco si è gettato sulle terre rimaste asciutte, più al sud,
e per Monfalcone ha preso piede solidamente sulle prime pendici del
Carso, in vista del mare.
L'acqua ci è stata nemica, per tutto. Le piene, fra le gole del medio
Isonzo, ci portavano via i ponti; a valle l'inondazione artificiale
creava avanti a noi dei laghi, e il canale, che con le sue diramazioni
si va ora essiccando, forniva intanto la forza motrice di impianti
elettrici dai quali gli austriaci derivavano correnti per rendere
fulminatori certi reticolati di trincea.
Ma gli austriaci avevano dimenticato che la magnifica opera idraulica
dei canali di Monfalcone è italiana, studiata e compita dalla Società
Italiana per le condotte d'acqua, di Milano. La perfetta conoscenza dei
lavori ci ha permesso di correre subito ai ripari e di ricondurre le
acque ad un contegno più patriottico.

Passiamo l'Isonzo.
Una casa sfondata, un _hangar_ demolito, dei muri bucherellati da
schegge di granata: si è già nell'atmosfera del campo di battaglia. Ma
nessuna battaglia è passata di qui.
Dei cannoni austriaci di mezzo calibro, nascosti sulle alture di
Doberdò, tirano sulla strada, e sui villaggi, e sui ponti. Otto o dieci
colpi per volta, poi, per due o tre ore non si fanno più vivi. Non
combattono, stanno lassù in agguato, e quando vedono in una scìa di
polverone un convoglio di munizioni che si avvicina, o un reparto di
truppa che si sposta, o un'automobile che corre, giù un po' di grossi
_shrapnells_ o di granate, che arrivano con quel loro rombo di motore
mal regolato e scoppiano fragorosamente sulla pianura quieta. Tirano
persino sulle motociclette col _side-car_, nella speranza di accoppare
qualche generale.
Ma hanno paura di essere scoperti. Non insistono mai, e non è facile
individuarli. Conoscono così bene la regione, che il loro tiro è
giusto, sebbene inefficace. Percorrendo la strada con dei carreggi si
ha la probabilità di assistere allo scoppio di una granata a sessanta
passi di distanza. I soldati non ci badano.
No, i nostri soldati sono meravigliosi. Appena una granata scoppia,
si vedono i soldati correre, ma verso lo scoppio. Vanno a vedere il
buco. Hanno una curiosità da ragazzi per i fuochi d'artificio. _Compà,
sente mò_ — grida allegramente un soldato di guardia al ponte ad un
compaesano mentre tuona una raffica — _pare 'a festa d'a Madonna!_
— Gli sembra di sentire i mortaretti delle solennità campagnole.
Ed il cratere slabbrato, nero, fumante, che le esplosioni scavano
al suolo, è per loro uno spettacolo curioso che li attira. Sono là
intorno, aggruppati allo scoperto, incuranti del nemico che li vede,
disputandosi le schegge che scottano ancora. Ogni soldato ne ha una in
tasca.
Sulla strada così esposta il movimento continua regolarmente. I
territoriali divenuti carrettieri e bovari, passano anche loro con i
birocci e le mandrie.
Nessuno esita, nessuno si ferma, nessuno devia.

Un distaccamento di bersaglieri ciclisti riposa all'ombra delle
casupole, all'entrata di un villaggio: Begliano. Appoggiate ai muri,
le biciclette intrecciano ruote e telai in una confusione sottile
e geometrica di circoli e di linee; qualche motociclista prova
attentamente il motore, che strepita sul cavalletto; i soldati,
accoccolati a gruppi sui macigni, conversano placidamente, fumano,
fischiettano, e sulle loro teste l'alito caldo e lieve del meriggio
fa correre un fremito di piume nere. Gli ufficiali, che hanno trovato
delle sedie in una osteria abbandonata, siedono fuori della porta,
sotto a degli alberi. Aspettano ordini. Vi è una serenità, una
tranquillità da riposo durante la manovra. Non si direbbe mai che
questi soldati si sono battuti di notte e di giorno, che hanno preso
delle trincee alla baionetta, sopraffacendo gli austriaci con le mani
alla gola.
Il centro della strada è deserto. Da lì si vedono le colline rocciose
di Doberdò così vicine che sembrano a portata di voce. «Tra poco
ricomincia la musica!» — osserva un ufficiale guardando l'orologio al
polso, e appoggiata la spalliera della sedia al muro incrocia le gambe,
beatamente, soggiungendo: «Ci fosse almeno un giornale da leggere!».
La musica lì si ripete ad intervalli regolari. Il villaggio è
bombardato a orario. Le ultime granate hanno ferito qualche soldato,
uno è morto. Da un giardinetto sbuca un bersagliere che ha composto
un mazzo di fiori, adorno di una foglia di palma di San Pietro, la
palma del nord. Lo mostra ai compagni, che approvano, e scompare in un
recinto. È per ornarne la croce sulla tomba nuova.
Ecco, un rimbombo, un urlo apocalittico che solca la serenità del
cielo, una esplosione potente, uno scrosciare di tegole e di macerie.
La musica.
I bersaglieri, senza scomporsi, guardano in aria. «Dev'essere cascata
sulla chiesa!» — dice uno. «Tireranno al campanile!» — osserva un
altro. «Questa è cascata qui dietro». — «Ha tremato il muro».... Ma un
comando interrompe i dialoghi. Un ordine è arrivato. Si parte.
In un batter d'occhio tutti sono pronti, appoggiati alle biciclette. Si
fa rapidamente l'appello. Manca uno. Era là adesso. Chiamatelo. Eccolo
che arriva, di corsa, tutto sporco di calcinaccio. «Signor tenente —
esclama — è morta la capretta!». C'era una capretta abbandonata nel
villaggio, alla quale i soldati avevano munto una bella gamella di
latte. «È stata l'ultima bomba — informa il soldato — ero lì vicino,
povera bestia! — e dopo un istante di riflessione: — Peccato che sia
troppo dura a mangiarsi!».
Via! Con un volteggio elegante ogni soldato inforca la sua macchina e
sospeso sul sottile scorcio delle ruote fila nel candore della strada
sollevando una bassa scìa di polvere. La compagnia scorre ordinata,
silenziosa, veloce, tutta grigia, nella direzione del nemico.
I fucili a bandoliera ergono sullo svolazzamento delle piume come un
tratteggio inclinato.

Una folta e confusa massa di gente si avvicina. Viene dalla fronte.
Nel polverone che solleva, s'intravvedono dei carri gremiti di persone,
tirati da buoi. È un formichìo oscuro, lento, taciturno, nel gran sole
ardente. L'emigrazione.
Sono abitanti che il bombardamento austriaco scaccia da ogni paese,
da ogni villaggio, da ogni casolare. L'esercito nostro li aiuta, li
protegge, li nutre, e disciplina l'esodo. Dei soldati marciano in testa
alle colonne e le fiancheggiano.
Il fuoco è cessato, e quando la carovana arriva nell'ombra delle
case si ferma e si riposa. «Avanti, coraggio brava gente — avvertono
i soldati — ancora un poco, poi vi ristorerete: qui può succedervi
qualche disgrazia!» Delle invettive contro gli austriaci si levano
dalla folla. Voci di donna gridano, nell'espressivo dialetto veneto:
«_Anca qua i ne copa!_» — «_No i vede che semo poareti?_» — «_Tuto i
n'ha tolto, anca i toseti, e adesso i ne buta zò le case!_».
«Calma, calma — ammoniscono bonariamente i soldati. — Tornerete
presto a casa!» — «_Che el Signor ve scolta!_» — rispondono le voci.
— «_Benedeti vualtri e le mare che v'ha fato!_» — E la moltitudine
riprende la marcia.
Sono donne, bambini e vecchi, tutto quello che è rimasto del popolo,
irredento. Carrette di ogni genere trasportano i loro umili bagagli, e
sui cumuli dei fagotti e dei sacchi, facendosi ombra con delle vecchie
ombrelle aperte, si accalcano i bimbi, gli stanchi, i deboli, in un
groviglio multicolore che oscilla alle scosse dei veicoli. Tutti gli
altri marciano, gli uomini a parte, due per due, muti, quasi ubbidendo
istintivamente alla disciplina militare che li circonda.
Qualche donna conduce dietro di sè la mucca, l'unica ricchezza rimasta
alla famiglia, e tira faticosamente sulla cavezza per indurre la povera
bestia, stupefatta ma placida, ad allungare il passo. Si vedono dei
bambini feriti, sui quali delle fasciature fresche e ben fatte indicano
la cura dei nostri posti sanitarî.
La carovana continua il cammino, lentamente, verso l'Isonzo. Un'altra
si avvicina, ma ben diversa. Questa è composta di uomini validi.

Dopo che l'Austria, con la leva in massa, ha portato via da questi
paesi tutti i maschi dai diciassette ai cinquant'anni, dopo la fuga
di tutte le persone notoriamente irredentiste, dopo l'arresto e
l'internamento di tutte quelle altre persone che erano semplicemente
sospette d'irredentismo, ogni uomo valido che s'incontra è un individuo
sospetto. Nove volte su dieci non è nemmeno italiano. Lo dice la sua
faccia, lo dice la sua maniera di mettersi sull'attenti per affermare:
_Son taliano!_
Nei primi momenti dell'occupazione non ci si è fatto caso. Ma non
abbiamo tardato ad accorgerci che eravamo circondati da spie. Le nostre
ricognizioni sorprendevano sventolamenti di bandierine nell'alto dei
villaggi. Il passaggio di truppe in alcuni nodi di strade combinava
stranamente con l'incendio di un mucchio di paglia o con la caduta
d'un alto albero. Alla notte, dietro certe nostre batterie, sul
dorso dei colli, palpitavano luci di lanterne cieche. Chi sventolava
le bandiere? chi bruciava la paglia? chi abbatteva gli alberi? chi
faceva brillare quelle luci? Si trattava di segnali, chiari, precisi,
seguìti infallibilmente da un fuoco austriaco che cadeva dritto sugli
esploratori, o sulla truppa in marcia, o sulle batterie. Ma non si
trovavano i colpevoli, che si mescolavano alla popolazione campestre,
troppo atterrita da loro per denunciarli.
Ho visto io stesso, alla notte, scintillare misteriose segnalazioni
sulle colline, e eliografi nemici, durante il giorno, parlare a
lampeggi con qualcuno che era dietro alle nostre file. Lo Stato
maggiore d'una nostra divisione arrivava in un villaggio, e un minuto
dopo delle granate piombavano sul suo quartiere generale. Accampamenti
ben celati, invisibili al nemico, erano bombardati appena formati.
Le nostre batterie si vedevano scoperte talvolta prima di far fuoco.
Prendevano posizione, spesso nel cuore della notte, e subito il tiro
nemico le cercava senza incertezze.
Noi abbiamo una lealtà militare, una cavalleria istintiva, una
schiettezza e una nobiltà di razza, che c'inducono sempre a supporre
nel nemico le stesse virtù, anche se il nemico è turco, anche se
il nemico è austriaco. I fatti ci hanno subito disilluso. Abbiamo
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