Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 10

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ufficiale ha annunziato, vi fanno arrivare qualche grossa granata
dalle vicinanze di Cherz, cioè da una dozzina di chilometri, senza
una ragione evidente. I colpi passano su delle vette boscose, infilano
una gola, e vengono a cadere nelle vicinanze di Caprile, un paesello
sull'antica frontiera, alla confluenza del Fiorentina col Cordevole.
Vengono a cadere a piombo, con un gran frastuono di echi nella piccola
conca che si apre intorno al paese. In una balza, a mezza costa, in
alto sopra al villaggio, c'è un edificio bianco, che era un modesto
albergo «Belvedere», e che ora contiene un ospedale. Sono salito lassù
iersera per cercarvi un ufficiale amico che credevo ferito, ed ho
trovato tutto il personale medico fuori, sulla spianata, intento ad
osservare curiosamente in terra una gran buca profonda e slabbrata. Una
granata austriaca era arrivata poco prima; s'era affondata scoppiando
nel terriccio bagnato, e aveva lanciato zolle di fanghiglia a
butterare tutto il fianco destro dell'ospedale. I vetri delle finestre
erano infranti, una persiana pendeva. Due dame della Croce Rossa
tranquillamente s'affacciavano a guardare.
Il passo duro e robusto dei muli ci porta verso le pendici dell'Uomo,
sulle alture di San Pellegrino. Siamo sopra le ultime balze meridionali
del Marmolada, i cui ghiacciai vedevamo ieri dalla vetta dell'Averau
scintillare a ponente. Questa esclusione ci conduce a sudovest della
zona già vista; percorrendo il fronte facciamo un passo indietro per
vedere un altro aspetto della lotta sulla valle del San Pellegrino.

È una valle che corre da occidente ad oriente e offre un passaggio
che congiunge la valle italiana del Cordevole con la valle austriaca
di Fassa, presso a poco come il taglio di un A congiunge le due
gambe della maiuscola. Verso il vertice dell'A c'è il Marmolada, e la
frontiera scende serpeggiando dal vertice.
Si tratta di un passo secondario, di transito difficile perchè qui,
come in tante altre valli, per ragioni di difesa noi non avevamo
fatto giungere le nostre strade carrozzabili fino alla frontiera.
L'Austria ha spinto su tutti i confini ottime strade militari, e a noi,
in condizioni d'inferiorità, non conveniva allacciarle alle nostre
vie. Avremmo favorito l'invasione che vedevamo preparare. Così, su
moltissimi valichi le strade austriache e quelle italiane sono separate
da chilometri di montagna selvaggia. Ma la valle di San Pellegrino ha
qualche importanza strategica, perchè comunicando con la valle italiana
del Cordevole essa forma uno sbocco sulle nostre retrovie.
Noi la sbarriamo. Nel fondo, pieno di un'ombra verde e melanconica,
verdeggiano dei prati folti; si distendono, limitati da fossi e da
muricciuoli, piccoli campi da pascolo, disseminati di _tabià_ e di
casette, e ciuffi di alberi mettono qua e là la macchia scura delle
loro chiome. Ma poco lontano dal torrente, sui fianchi, i prati
ascendono subito, come tappeti distesi sopra una scala, e, precipitose,
le balze dei monti si levano, coperte di abeti e coronate di rocce.
Nel mezzo della valletta, sotto a noi, vediamo delle rovine calcinate.
Sono i resti del villaggio di San Pellegrino. C'era un albergo, c'era
una chiesuola, un gruppo di casupole intorno. Gli austriaci hanno
bruciato tutto ritirandosi, ed ora bombardano le macerie. Rimangono
dei muricciuoli bianchi a disegnare il basamento degli edifici, e uno
sgretolamento di pietre. Le fondamenta delle _tabià_ bruciate disegnano
sul velluto dell'erba tanti quadratini chiari, come dei minuscoli
recinti. Poco più lontano in un laghetto calmo dorme il riflesso verde
e profondo delle pendici.
A perdita d'occhio, nessuno. La valle abbandonata, solitaria, è di una
tristezza indicibile. È piena di una cupa desolazione. Osservandola
bene, si scoprono dei solchi sottili che la percorrono e la traversano,
serpeggiando neri fino alle pendici. La vita che resta nella valle
passa in quei solchi, invisibile. Sono sentieri affossati, passaggi
coperti, trincee d'incamminamento, labirinti scavati dalla guerra e che
fanno pensare all'opera di strani animali da tana. Di tanto in tanto,
due, tre colpi di cannone. Vengono dal basso, vengono dall'alto, da
artiglierie in agguato che si cercano. Qualche nuvoletta si forma, e il
rimbombo lungamente percorre la valle.

È anche qui il tiro a granata sull'uomo isolato, tiro inutile ma
perseverante. Al mattino gli austriaci hanno la luce in faccia, non
vedono niente e stanno zitti; ma verso mezzogiorno i loro osservatorî,
alti sui picchi, cominciano a cercare, e per un mulo bombardano. Quando
la nebbia benda le cime, si fa riposo.
Dal fondo della valle, per scoscesi costoni, la lotta sale subito
verso il Marmolada, e balza a tremila metri sulla Punta Tasca, che noi
vediamo vicina, affondata nelle nubi, dalle quali emergono magicamente
e scendono a picco, vertiginose, le prodigiose pareti grigiastre e
fosche, senza fine visibile, come favolosi pilastri del firmamento.
Lassù è la caccia delle pattuglie. Più in basso, lungo la cresta
rocciosa di Costabella, vediamo i posti avanzati del nemico, così
vicini che parrebbe di potersi fare udire da loro gridando. Ogni punta
della roccia ha il suo piccolo appostamento. L'ultimo nostro e il primo
loro si guardano da poche centinaia di metri come due torri di uno
stesso castello.
Si scorgono le difese ausiliarie del nemico. Avanti ad una minuscola
barricata di sassi, fra gl'interstizi della quale le vedette spiano,
si disegna contro al cielo, sul costone, la ragnatela dei reticolati,
e più avanti i così detti «cavalli di Frisia», che furono una difesa
romana, incrociano le loro sagome a cavalletto.
Più volte il nemico ha tentato di sloggiarci. Una notte un pattuglione
di trenta uomini, arrivando per il Passo Le Selle, assalì una nostra
posizione avanzata, sulla cima dell'Uomo, sotto alla Punta Tasca. La
posizione non aveva che nove difensori: un sottotenente, un caporale,
sette soldati. Arrivati di sorpresa, gli austriaci con la prima scarica
ferirono un soldato e ammazzarono l'ufficiale. Il plotone non pensò
a ritirarsi. Si difese con rabbioso accanimento, e quando sentì gli
austriaci vicini, balzò fuori alla baionetta. Non si resero conto
del numero dei nostri, i nemici; la resistenza li aveva ingannati.
Al contrassalto fuggirono; lasciando anche alcuni prigionieri. Questo
avvenne nella notte del 28 luglio.
Due giorni dopo tornarono in forze. Avevano persino appostate delle
artiglierie al Colle Ombert, i cui colpi passavano sulla cresta di
Costabella. Ma furono respinti.
Alle volte sono i nostri che immaginano qualche spedizione, che
architettano un colpo; tre o quattro soldati studiano il loro piano,
vanno ad esporlo all'ufficiale per l'approvazione, e felici se
ottengono il permesso di attuarlo partono al cadere del giorno.
Profittando della inaccessibilità di un punto, sotto alla Costabella,
al quale soltanto dal lato austriaco si poteva arrivare, una pattuglia
nemica vi si era appostata. Tre soldati nostri pensarono di andarvisi
a calare con delle corde da un ciglione soprastante. E alla notte
gli austriaci sbalorditi si videro comparire addosso un luccicore di
baionette, al quale ritennero prudente di presentare le mani levate e
inermi, col gesto tradizionale della resa.

Sono valorosi gli austriaci, ma non insistono. Hanno l'eroismo sobrio,
e qualche volta si prendono dei prigionieri che, poco pratici della
lingua italiana, hanno previdentemente preparato un biglietto sul
quale è scritto: «Mi rendo prigione, prego non uccidermi». Nell'istante
critico lasciano il fucile e porgono il documento. È una trovata che ha
un fondamento psicologico; la carta impone rispetto alla massa; anche
in un momento di furore, chi si vede presentare uno scritto, si calma e
lo legge.
L'azione delle pattuglie esploratrici è tutta fatta di trovate
personali. Anche ieri, quattro soldati si sono presentati al loro
capitano: «Abbiamo visto una vedetta austriaca — gli hanno detto —
e vorremmo andare a prenderla». — «Bene, accordato». E sono partiti
iersera, verso mète ignote, per passaggi che loro soli conoscono.
Non sono ancora tornati, ma non si è udita fucileria sulla montagna,
e forse in questo momento essi stanno alla posta rannicchiati in un
crepaccio o strisciano carponi lungo una cornice di roccia, sospesi su
mille metri di abisso.
Scrivendo, si prova un non so quale ritegno a insistere sull'ardore,
sull'entusiasmo, e sopra tutto sul buon umore dei nostri soldati, su
questa contentezza gagliarda che si espande in canti e in risa nei più
sinistri e mortali centri della lotta, sulla volontà di fare e di dare
con generosità smisurata di sè stessi, su questa freschezza d'animo che
non ha sospiri se non per la vittoria, sulla disciplina meravigliosa
che è fatta dall'unità del pensiero, dal tacito accordo delle volontà,
da una solidarietà fraterna. Si prova ritegno a dirne, perchè si ha
come un vago timore di essere accusati di esagerazione. La verità pura
può sembrare inverosimile nella sua bellezza a chi è lontano. Tutta
l'Italia palpita di entusiasmo e di fede, ma il fuoco più ardente è nel
cuore dell'esercito.
Avviene spesso che i soldati malati rifiutino di darsi malati. Debbono
gli ufficiali vigilare, informarsi, riconoscerli, andarli a togliere
da lavori faticosi: «Tu hai la febbre, ritirati, vai all'infermeria».
— «Signor no, non è niente, passerà!». Così i miracoli si compiono.
Non vi è sacrificio, non vi è difficoltà, non vi è ostacolo, avanti al
quale il nostro soldato si fermi.

Le più grandi difficoltà erano opposte dalla montagna, e in qualche
zona sono le fanterie che le superano. S'incontrano bersaglieri
romani e fucilieri fiorentini, che non avevano mai salito un
monte, operare alle altitudini del camoscio, lietamente, senza una
indecisione, facendo comparire strade e sentieri dietro ai loro passi,
verso l'inaccessibile. E sull'inaccessibile, l'alpino. Tutto ciò è
straordinario, ma è impossibile ridire invece l'aria di naturalezza e
di consuetudine che queste cose assumono quassù. Si compiono come se si
fossero fatte sempre.
Si incontra un professore soldato che conduce il carretto con la
perizia di un vetturino, s'incontra un avvocato richiamato che taglia
alberi nella selva, e appaiono pienamente soddisfatti delle loro nuove
occupazioni. La guerra che ai lontani sembra piena soltanto di immagini
di morte, è invece una vita più intensa, una vita violenta, semplice,
antica.
Sulle pendici più verdi noi vediamo nelle vicinanze di San Pellegrino
dei soldati che falciano l'erba. Qualche volta una granata urla,
scoppia, e loro falciano l'erba. Poi tornano al campo, dietro agli
asinelli carichi di bel fieno fresco e olezzante portando la falce
sulla spalla, e canticchiando, il cappello di traverso, la pipa fra i
denti. Si accumulano foraggi per le mucche, che pascolano più in basso,
più al sicuro, guardate da un guerriero mandriano, e sembrano insetti
chiari e immobili sul velluto dell'erba.
Quando verrà l'inverno, che già si annunzia con le sue brezze gelate,
la neve si adagerà per uno spessore di sei, di sette metri, su tutte
queste balze, e gli accampamenti sepolti non avranno più per lunghi
mesi alcuna comunicazione col mondo. A questo sverno polare ci si
prepara; si abbattono alberi, delle segherie si impiantano al salto
dei burroni, delle _tabià_ ingegnose sorgono. Muratori, carpentieri,
falegnami, meccanici, lavorano intorno a grandi edifici, primitivi e
rozzi, odoranti di resina, ai quali si dànno nomi pittoreschi: la Nave,
il Palazzone....

Tutto ciò sparirà nella neve. Fra rifugio e rifugio si comunicherà
attraverso gallerie scavate nel candore azzurrastro del ghiaccio. Si
uscirà alla superficie gelata del monte come si esce da un pozzo, e
via sugli _sky_ leggeri che mandano scivolando uno stridore sommesso di
seta lacerata, via sul bianco vestiti di bianco.
Per allora si falcia l'erba, che nutrirà il bestiame nelle stalle
chiuse e piene di un caldo profumo di muschio. Per allora si ammassano
munizioni e viveri nelle capanne e nei ricoveri. E bisogna che per
allora le donne italiane si affrettino a far calze di lana, delle quali
più di ogni altra cosa c'è bisogno.
Dopo essere saliti per chilometri e chilometri nella solitudine della
montagna, sorprende e rallegra l'attività di questi campi, che lambono
le nevi eterne, e che si trasformano in bei paeselli popolosi. Saranno
le cittadine d'Italia più vicine al cielo.
I soldati vi hanno già creato una industria nuova. Con l'alluminio
delle spolette austriache fabbricano dei graziosi e singolari anelli
da dito, sui quali intagliano, con una perfezione proporzionata
alla perizia, date, sigle, fiori, aquile. Ed è interessante vedere
un atletico alpino, con delle dita da gigante, intento gravemente a
scolpire scintillanti minuzie.
L'imitazione ha allargato l'industria. Il campo dei paraggi di San
Pellegrino ha già una «Via degli Orefici». Ma i fabbricatori di anelli
sono tanti che la materia prima qualche volta fa difetto. Allora se la
fanno venire dall'Austria. Pigliano il fucile, vanno alla trincea, e
sparano otto o dieci colpi.
L'effetto è immediato. L'artiglieria austriaca allarmata apre il fuoco.
Gli _shrapnells_ arrivano fragorosamente. Gli orefici tengono d'occhio
i punti di scoppio, per potere andar poi a ritirare la merce in arrivo,
e contano le esplosioni: una, due, tre.... cinque, sei.... Se arrivano
ad otto la giornata è eccellente.
Così si occupano i momenti d'ozio. Intanto, dietro al suo riparo di
sassi, la vedetta austriaca che esplora, segna l'ora dell'avvenimento e
scrive nel suo rapporto: «L'attacco italiano è stato respinto».


NELLA CONCA D'AMPEZZO E INTORNO AL LAGO DI MISURINA.
_8 settembre._

In mezzo alla smisurata violenza di forme rocciose delle Alpi
Dolomitiche, nel cuore di quella convulsa moltitudine di vette e di
balze nude, si adagiano due meravigliosi angoli di calma, pieni di
una molle e riposante bellezza: sono la conca di Cortina d'Ampezzo
e la valle di Misurina — nella quale s'incastra il lago famoso,
freddo, verde e puro come uno smeraldo. Nel cavo delle sue ondate
più eccelse, la grande tempesta dei monti cela e protegge questi
due rifugi di tranquillità, così diversi fra loro, ridente l'uno,
melanconico l'altro, ma pieni tutti e due di una non so quale dolcezza
d'immobilità.
La valle del Boite, nella quale — proprio ai piedi delle terribili
Tofane — s'apre la conca di Cortina, e la valle dell'Ansiei, che al
sommo di un'aspra salita riserba al viaggiatore la sorpresa del piccolo
lago pittoresco di Misurina, queste due vallate profonde, dopo un corso
capriccioso, finiscono per risalire al nord quasi parallele e vicine,
incanalando strade che conducono alla grande arteria austriaca: la
vallata della Drava. Sono le strade per Toblach e per Welsberg, lungo
le quali la nostra azione punta.

Il nemico accumula qui tutte le difese possibili, con una concitazione
che somiglia all'allarme. Esso protegge energicamente gli approcci
della Drava, che costituisce la sua comunicazione unica e vitale
col Trentino e sul cui fianco sente gravare la minaccia delle nostre
armi. In questo momento anche le lontane montagne di Toblach si stanno
fortificando, secondo le voci che circolano fra gli abitanti, e tale
eccesso di previsione rappresenta un riconoscimento inconfessato ma
convinto del valore del nostro esercito.
La natura favorisce le opere della difesa. Ad una decina di chilometri
al nord di Cortina e di Misurina, le due valli parallele sono
traversate da occidente ad oriente da una vallata profonda, oltre la
quale si ergono montagne immani e dirupate, che dopo un breve declivio,
salgono fino ai tremila metri con pareti quasi a picco. Noi teniamo
quasi tutti i massicci al di qua della vallata, il nemico tiene
quelli al di là. I ciglioni sono fortificati. Gli austriaci non si
sono contentati di erigervi delle trincee in cemento, preparate chi
sa da quanto tempo, ma hanno disteso sul bordo degli abissi larghi
reticolati, aspettandosi l'attacco anche dall'inaccessibile.
Tutti gli approcci erano difesi da fortezze: il forte di Landro allo
sbocco del vallone di Rienz, sopra Misurina, risalito dalla strada per
Toblach; e pure sopra a Misurina, il forte di Platzwiese, allo sbocco
del vallone del Seeland, risalito dalla strada per Welsberg, il forte
di Sompauses sopra Cortina, allo sbocco del vallone di Campo Croce. Una
delle nostre operazioni più importanti fu il bombardamento sistematico
dei forti.
Cominciarono gli austriaci a bombardare. Al secondo giorno della guerra
tirarono dai forti nella conca di Misurina dove avevano avvistato forse
qualche movimento di truppe. Era al momento in cui le nostre fanterie,
a piccoli reparti, s'irradiavano sui valichi della frontiera. Il giorno
dopo, infatti, occupavano dopo un vivo combattimento il Passo delle
Tre Cime di Lavaredo, un'asprissima giogaia a nord-est di Misurina,
una lunga cresta alla quale non manca che un metro per raggiungere
l'altezza precisa di tre chilometri. Due compagnie austriache furono
poste in fuga.
La lotta di scaramucce si propagava tutto intorno. Il 29 maggio
l'occupazione da Misurina, per il passo delle Tre Croci che congiunge
le due valli dell'Ansiei e del Boite come le due aste di un H sono
congiunte dal taglio, arrivava a Cortina d'Ampezzo. Da Cortina si
diramava e si spingeva, fiancheggiata dagli scalatori di vette, verso
il passo di Falzarego a ponente, verso Podestagno a settentrione.
Abbiamo parlato dell'azione sul passo di Falzarego, ai piedi delle
Tofane e dell'Averau, dove ancora si combatte, nel caos delle rocce,
intorno alle rovine dell'albergo di Falzarego, scoronato e bruciato
dalle granate. Seguiamo la grande linea delle azioni che a quella si
allacciano.

L'8 giugno l'avanzata al nord di Cortina respingeva il nemico verso
Podestagno, proseguendo sotto al tiro del forte di Sompauses. Gli
speroni laterali delle montagne, intorno ai quali la valle leggermente
serpeggia, servivano da riparo; si balzava da canalone a canalone,
da cresta a cresta, da costa a costa. La strada, bianca e dritta nel
fondo della valle, era tempestata di colpi, infilata dal fuoco del
forte, sbocconcellata ai bordi dalle granate. Bisognava che la nostra
artiglieria avanzasse in appoggio della fanteria, e non vi erano altre
vie che quella. L'artiglieria passò.
Una delle nostre batterie, reclamata dall'azione, si slanciò in pieno
giorno su quella strada fumigante di esplosioni. La batteria era
a Cortina; un ammassamento di cannoni, di cassoni, di cavalli, di
soldati, ingombrava le linde vie della cittadina bianca. Il capitano
comandante la batteria destinata ad avanzare era andato a scegliere la
posizione. Alle due del pomeriggio arrivò un sergente al gran galoppo
portando l'ordine: batteria avanti! «Soldati! — gridò l'ufficiale in
comando. — Abbiamo la fortuna di essere prescelti per un posto d'onore
nella battaglia, e voi mostrerete di esserne degni! Primo mezzo, al
trotto allungato, avanti!» I cannoni partirono ad un minuto l'uno
dall'altro. Al frastuono del loro passaggio, le finestre si aprivano e
delle teste curiose e spaurite si mostravano.
Appena fuori dalle ultime case, la batteria fu avvistata dagli
osservatori austriaci. Le granate scoppiavano intorno ai pezzi, che
apparivano velati dal polverone e dal fumo. Non un arresto, non una
esitazione: la corsa procedeva regolare come in manovra, finchè
il folto di un bosco la nascose al nemico. Dalla strada, a forza
di braccia, la batteria fu portata sopra una posizione scoperta, a
soli 2200 metri dal forte, così ardita che il nemico non riuscì a
identificarla. Con i suoi colpi esso cercava i nostri cannoni più
indietro, non potendo mai immaginare che essi fossero là, in un
boschetto vicino.
Il 9 giugno, Podestagno era occupata. Ma per qualche tempo la posizione
appariva talmente esposta da essere intenibile. La linea quindi è stata
corretta: avanzandola. Le nostre trincee si sono portate così vicine al
forte di Sompauses da non poterne ricevere i colpi. Noi siamo arrivati
nell'angolo morto del forte. È una situazione inverosimile; i cannoni
nemici che tirano di tanto in tanto su Cortina, che cercano di sfogare
la loro tonante ostilità sopra un raggio di dieci o dodici chilometri,
non possono niente contro le truppe che vivono appostate a poche
centinaia di metri da loro. L'artiglieria è impotente contro di esse.

Il Sompauses da lontano ricorda il forte Porr, che vedevamo in Val
Giudicaria. Uno sperone di montagna sporge alla sinistra del torrente,
e a mezza costa, sopra un ripiano, in una boscaglia di abeti una
linea giallastra di terre smosse, una confusione di spalti freschi, di
parapetti, di ripari, si avanza sotto ad un zig-zag di strade militari,
che rigano il bosco e le rocce più in alto come venature rossastre.
Sotto al forte il pendio è ripidissimo, scoperto, brullo, difficile
all'assalto, e percorso da fasci di reticolati.
Il Sompauses è come una belva che non può più mordere, ma che non
si può ancora prendere. È stretta dalla grande battuta, ridotta
quasi all'impotenza, ma vive, rintanata e torva. Se spara un colpo,
il Sompauses è coperto di granate; decine di cannoni gli impongono
silenzio; le nostre artiglierie lo tengono sotto ai loro tiri; il
terreno intorno alle opere appare sgretolato delle esplosioni. Perciò
il Sompauses spara raramente. Tutti i suoi difensori si tengono sepolti
entro i cunicoli e le gallerie scavati nel monte, e dentro alle trincee
di cemento, le quali non sono che sterminati corridoi dalle spesse
pareti, illuminati da sottili feritoie.
Anche gli altri forti sono ormai silenziosi. Ai primi di luglio
le nostre batterie aprirono il fuoco contro i forti di Landro e
di Platzwiese. L'8 luglio in quest'ultimo si scorsero le fiamme e
il fumo di un grande incendio, che durò tutto il giorno. Il 14 una
batteria austriaca annidata più indietro di Landro, sul Rautkofel,
fu parzialmente smontata. I forti sono ora demoliti o quasi. Però la
Grande Guerra aveva già svalutato l'importanza delle fortificazioni
permanenti, e gli austriaci non si sono lasciati prendere alla
sprovvista. Hanno ritirato in tempo le artiglierie dai forti battuti
e, per vie di arrocco nascoste, preparate da lunga mano, probabilmente
munite di rotaie, trasportano i pezzi da un punto all'altro,
spostandoli appena una posizione comincia ad essere individuata.
Questo non li salva sempre; i nostri tiri li rintracciano e li
seguono da appostamento ad appostamento; le batterie italiane anche
esse si muovono; è un lento duello di mostri. Ma è difficile ad un
profano rendersi conto dei problemi complicati che questi spostamenti
impongono. È tutta una geometria di traiettorie e di parabole che
traccia le sue linee immaginarie sulle vette dei monti. Sono calcoli
di angoli, misurazioni infinitesimali, e ogni colpo di cannone è la
soluzione di un quesito matematico irto di cifre.
Non abbiamo tardato ad accorgerci, operando sul territorio conquistato,
che le carte topografiche austriache messe in commercio differivano
da quelle riservate dello Stato Maggiore nemico per una alterazione
di punti trigonometrici, appena percettibile ma sufficiente a turbare
l'orientazione dei tiri. Abbiamo dovuto scoprire le alterazioni e
calcolarle.
Inoltre gli austriaci spostano, quando possono, i segni visibili messi
sul terreno ad indicare i punti trigonometrici. Da noi questi segni
sono delle piccole piramidi di pietra, in Austria sono degli alti
cavalletti di legno che si scorgono da lontano. È avvenuto qualche
volta che i tiri, precisi alla sera, deviassero alla mattina. Nella
notte il nemico aveva portato un centinaio di metri più a oriente o ad
occidente qualche cavalletto sul quale s'era calcolata l'angolazione.
È veramente singolare questa schiavitù dei cannoni più possenti ai
tracciati fantastici di un teorema, a delle esattezze logaritmiche,
senza le quali essi divengono ciechi.
Questa parte della guerra, che si svolge dietro al furore delle
battaglie, lontano dalle masse per chilometri e chilometri, in una
calma, in una solitudine di pendici e di valli, ha qualche cosa di
affascinante e di terribile. Gli artiglieri che s'intravvedono talvolta
in un'ombra di selve, taciturni, raccolti intorno ad una massa grigia,
tranquilli, isolati da ogni movimento e da ogni agitazione, intenti
ad un lavoro misterioso, si direbbe che non abbiano a che fare nulla
col combattimento, del quale non arriva fino a loro neppure l'eco. Non
vedono niente, non sentono niente, non sanno niente della lotta alla
quale partecipano. Sono i guerrieri dello spazio, i combattenti della
immensità, i colpi dei quali passano al di sopra dei nevai per piombare
in vallate remote.
Lembi di foresta sono stati denudati, e le centinaia di alberi
sfrondati che l'ascia ha abbattuto formano rafforzamenti ciclopici
sui declivî che portano i più grossi pezzi. Consolidano e sorreggono
pendici boscose, e i poderosi cannoni, la larga gola in aria, sembrano
accovacciati sull'ultimo gradino d'una scalea da giganti, sorretta
da massicci tronchi di abete. Più lontano, indietro, nelle radure si
allargano strani parchi di carrocci ferrati, di automobili larghe e
pesanti come locomotive, di veicoli strani che portano argani, tutti
mascherati di fronde: sono i trasportatori delle moderne artiglierie da
assedio, le quali vanno alle posizioni trascinate da lenti e poderosi
motori.
Gli austriaci cercano le nostre grosse batterie come noi cerchiamo
le loro. Studiano per settimane, poi, quando credono d'aver trovato,
una mattina, da qualche posizione nuova aprono il fuoco con un 305,
che lancia dieci, quindici granate in fila, e poi tace per non essere
scoperto. Dove arrivano, i mostruosi proiettili aprono cavità enormi,
sconvolgono terra, pietre, alberi, e lasciano squarci così grandi sul
suolo che sembrano inizî di un lavoro di sterro.

Per arrivare da Cortina a Podestagno, la nostra azione ha dovuto
dominare il massiccio della Tofana a sinistra e quello del monte
Cristallo a destra. La Tofana e il Cristallo hanno da una parte e
dall'altra della vallata di Ampezzo una posizione quasi simmetrica
all'occhio. Hanno anche quella somiglianza di forme di tutte le
Dolomiti, quell'apparenza turrita e fantastica, con pareti precipitose
che dai tremila metri scendono quasi a picco ad immergersi nelle
verdure della valle, piombando per un chilometro e mezzo in una
vertigine di asperità, di fessure, di canaloni, di speronate.
Abbiamo parlato della lotta sulla Tofana, della stupenda guerriglia
di pattuglie in quel caos di rocce e di gelo la quale ci ha dato il
possesso incontrastato del monte. Nel monte Cristallo gli austriaci,
salendo dal nord, erano riusciti ad insediare un posto sulla Cresta
Bianca, che domina Cortina.
Questi monti sono tutti fatti a stratificazioni, sembrano formati
da immani tavoloni di pietra sovrapposti a piano inclinato. Salendo
lungo l'inclinazione degli strati la via è più facile, ed è la via dal
nord. Dalla nostra parte i monti invece sono spezzati a piombo. Dal
lato austriaco essi presentano una groppa scoscesa ma praticabile, dal
lato nostro una parete. Dunque gli austriaci erano saliti sulla Cresta
Bianca, detta così perchè è coperta di nevi eterne. Essa finisce in una
specie di piramide candida e puntuta.
Arrivati lassù, sicuri di non essere sloggiati, avevano trasportato
sulle vette abbondanti provviste di viveri e munizioni, anche per
artiglierie, si erano rinforzati, e si preparavano a portar su i
cannoni. Bisognava scacciarli. Per scacciarli bisognava salire le
pareti del monte.
Quando si osserva la montagna non si capisce come un reparto di
truppe, composto in gran parte di fanterie, sia potuto arrivare lassù.
Ma questa guerra di vette ci abitua ai miracoli. La spedizione era
guidata da un ufficiale che è uno degli alpinisti più noti, uno di quei
dominatori di cime che sfidano l'inarrivabile. Si erano scelti in tutti
i reggimenti gli uomini più adatti a quella fatica e i conoscitori di
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