Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 11

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montagne. Partirono muniti di seicento metri di corda, di ramponi, di
graffi, di strumenti per forare le rocce.
La preparazione della scalata durò sette giorni.
Per sette giorni si vide una catena di puntini grigi, una catena di
uomini che lavoravano come sospesi lungo l'immane muraglia. Piantavano
anelli nella pietra, attaccavano corde, configgevano punte di ferro
dove mancava una sporgenza per posare il piede. I lavoratori alpini si
davano il cambio. Dietro a loro i soldati salivano per impratichirsi
del cammino, per conoscerlo bene gradino per gradino. Ogni giorno la
scalata ricominciava e arrivava un poco più in su. Alla fine i primi
ciglioni furono raggiunti a mille metri sulla valle. Si usufruì dei
canaloni, delle fessure, delle cornici. La via dell'ascesa andava
a serpeggiamenti bruschi, girava negli angusti pianerottoli formati
dalle stratificazioni sull'abisso, superava dei tratti a strapiombo
senza altro appoggio che la corda e qualche rampone, e spariva fra due
speronate coronate di guglie.
Una sera la scalata definitiva fu data. I soldati avevano le scarpe
di corda, per non far rumore avvicinandosi al nemico e per aver più
sicura presa sulla pietra. Seguì un lungo inerpicamento sulle nevi
nelle anguste ascelle delle vette in un labirinto di pietra e di gelo.
Divisi in grosse pattuglie i nostri circondarono la Cresta Bianca.
Appena gli austriaci sorpresi aprirono il fuoco sopra i più vicini, la
fucileria crepitò tutto intorno. I nemici fuggirono precipitosamente,
nascondendosi nelle anfrattuosità, e lasciarono tutto il materiale che
avevano accumulato lassù.
Così il Cristallo fu preso, e il possesso delle sue cime ci permetteva
di dominare la valle del Felizon, al nord, lungo la quale ora il nostro
fronte si snoda.
Di tanto in tanto un lungo rombo scende dalla Cresta Bianca:
sono granate austriache che scoppiano fra le rocce. Cercano delle
artiglierie. Perchè in quella immane confusione di picchi, in qualche
piega introvabile, sui ghiacci, c'è dell'artiglieria, tirata su a forza
di braccia, con le corde, lungo le pareti....
Un'altra scalata fu dovuta dare a Col Rosa. Il Col Rosa è una specie
di prolungamento delle Tofane, al nord. È una guglia alta, isolata,
aguzza, che affaccia la sua punta rossastra in fondo alla valle di
Ampezzo e la vigila. Era un posto di osservazione austriaco dal quale i
tiri delle artiglierie venivano diretti. Di notte i nostri circondarono
il monte e lo ascesero, facendo prigionieri gli austriaci che vi si
trovavano e prendendo loro degli ottimi strumenti ottici. Si comprende
come il nemico ora non si fidi più dell'inaccessibile e pianti i suoi
reticolati anche sul bordo dei precipizî.

Mentre si combatteva nella valle di Cortina, una lotta analoga ma più
intensa si accendeva nella valle di Misurina, sul Monte Piana.
Questa montagna sbarra la valle, al nord, proprio come il Col di
Lana sbarra quella del Cordevole. Una somiglianza di posizioni ha
prodotto una somiglianza di situazioni. Il Monte Piana è tagliato
dalla frontiera. Tutte le strade che salgono su Misurina contornano
la sua base. Esso domina ogni passaggio. Gli austriaci tentarono di
impadronirsene all'inizio della guerra.
Poche forze nemiche vi si insediarono per breve tempo. Furono
sloggiate. Il 12 giugno gli austriaci tornarono più numerosi al
contrattacco: furono respinti. La lotta diveniva attiva. L'importanza
della posizione faceva concentrare su di essa gli sforzi dell'attacco
e della difesa. Il 13 giugno gli austriaci bombardarono il Monte
Piana dal forte di Platzwiese — nel quale, come abbiamo detto, meno
di un mese dopo le nostre granate dovevano portare la devastazione e
l'incendio. Nella notte delle masse nemiche tentarono un nuovo attacco.
Il 15 si combatteva ancora. La battaglia, cominciata con un'azione
di reparti, attirava nuovi rincalzi, si distendeva, si abbarbicava al
monte, diveniva lotta di posizioni, combattimento di trincee.
La linea del fronte, dopo avere oscillato lievemente ai colpi e ai
contraccolpi degli attacchi, si fissava, entrava nel solco profondo
di opere campali. Il 12 giugno il nemico tentava nella notte un altro
sforzo per sloggiarci: era respinto. Dodici giorni dopo sperava di
riuscire in un aggiramento, e attaccava a oriente del Monte Piana la
Forcella di Col di Mezzo sulle Cime di Lavaredo — occupata fin dal 26
maggio dagli alpini — la quale, se in loro possesso, avrebbe aperto
il varco al nemico sulla conca di Misurina: fu respinto. Il 23 luglio,
altri attacchi austriaci. L'11 agosto, il nemico ritorna all'offensiva.
Il giorno dopo siamo noi che attacchiamo e prendiamo delle piccole
posizioni sulle pendici occidentali del monte. Gli austriaci non
aspettano a lungo per tentare la riscossa, e la notte appresso, dopo
un vivo cannoneggiamento, assaltano quelle posizioni che gli avevamo
preso: sono respinti.
Così ogni otto, ogni dieci giorni, la battaglia si riaccende. La
singolarità è questa: che le trincee nostre e quelle austriache sono
separate dalla vetta. Stanno al di qua e stanno al di là, relativamente
vicine ma invisibili le une alle altre. E tutto intorno, appiattata
dietro dossi vicini, una quantità di artiglierie, italiane da una parte
e austriache dall'altra, domina la sommità del monte. Perciò la vetta
è intenibile. Di notte o di giorno, appena uno dei due avversarî vi
si affaccia, una pioggia di granate trasforma il Piana in una specie
di vulcano. Se nessuno si muove, così a ridosso dei due versanti, le
posizioni sono invulnerabili.
O vi è un furore inaudito di combattimento che spande i suoi echi
da temporale fino alla vallata del Piave, o è la pace profonda. Così
profonda che quando siamo arrivati a Misurina ci sentivamo soggiogati
dal silenzio prodigioso della valle melanconica, oscura sotto ad un
cielo basso e grigio tutto variato da un lento e tortuoso svolgersi
di nubi, che celavano le vette e scendevano a tratti ad annebbiare le
pendici più basse fino ad appannare lo specchio del lago.
Era tutta una pigra agitazione di vapori, che si addensava e si
schiariva, che si squarciava in diafane profondità bianche di luce
e ricopriva quegli sfondi con plumbee e molli masse sfumate. Per un
istante, in alto, le nubi si sono diradate, e abbiamo visto come un
nero di temporale fra le sfumature delle frange nebbiose: erano i
monti, le masse del Lavaredo. Poi una gran torre si è profilata cinerea
nella lontananza: lo Schwabenalpenkopf, la vedetta austriaca. Ma la
nebbia è ridiscesa, si è richiusa, e non abbiamo più visto che il fondo
della conca di Misurina, il lago grigio, le rive selvose, fosche di
pini. E tutto questo, così pallido, indefinito, in quella gran quiete,
aveva un'apparenza di sogno triste, uno di quei sogni lugubri che non
si dimenticano.
Il grande albergo, sulla riva, è sfondato da un colpo di grossa
granata. È stato quel 305 che viaggia da valle a valle, spara dove
crede sia uno stato maggiore o una batteria, e si rimette in viaggio.
Un grande demolitore di alberghi, quel cannone errante. Ha tirato sul
Grande Hôtel di Cortina, e sull'Ospizio delle Tre Croci. Gli austriaci
ci lasciano dei paesi intatti, ma degli alberghi, quando possono,
ci consegnano le rovine. A San Martino di Castrozza, sopra Fiera di
Primiero, un paese di villeggiature, hanno bruciato tutto, facendo un
danno di circa sedici milioni.
L'albergo di Misurina, tutto chiuso, con quella gran ferita nera,
si specchiava nel lago. Non si vedeva nessuno. Sulla strada deserta
un soldato solo passava lentamente. Una pioggia sottile cominciava a
cadere, gelata, e spandeva il suo fruscìo monotono e vasto. Un colpo di
cannone ci avrebbe fatto piacere come una voce.
Cortina invece ci è apparsa sorridente, incantevole, in un giorno
di sole, con le sue casette bianche posate sui prati folti con un
pittoresco disordine come fossero tolte allora da una scatola di
giuocattoli nuovi.
L'abbiamo vista come la vedevano i _touristes_. Dall'alto delle prime
giravolte della strada delle Dolomiti ammiravamo il paese sotto a
noi, e dimenticavamo quasi la guerra. Vi era una non so quale serenità
anche in basso, una serenità della terra, una contentezza tranquilla e
profonda. Si udiva appena, come un tuono remoto, lo scoppio di qualche
granata sul Cristallo. Dalle Tofane scendeva di tanto in tanto il
rumore sordo e lontano di un colpo di fucile. Ma una persona ignara non
avrebbe mai immaginato che a ponente, a nord, a nord-est si stendeva
un fronte di battaglia, e che tutte quelle fantastiche vette luminose
infarinate dalla nuova neve, striate di candori, alleggerite da quella
sottile variegazione di bianche evanescenze che disegnavano la sommità
d'ogni balza, d'ogni strato, d'ogni asperità, celassero appostamenti e
ricoverassero cannoni puntati.

Lassù da due giorni la temperatura è scesa a dieci gradi sotto zero. Il
Comando aveva provveduto al cambio delle truppe che occupano le vette.
Sono quasi tre mesi che vivono in quell'inverno, fra le tormente, in
mezzo a fatiche, pericoli e privazioni inenarrabili, ricoverate nei
crepacci della roccia. Ma quando l'ordine di prepararsi a scendere è
arrivato, quelle truppe hanno rispettosamente pregato il Comando, per
la voce dei loro ufficiali, di lasciarle sulla montagna.
«Noi, oramai siamo abituati al freddo e alla vita delle vette — dicono
— noi abbiamo imparato a combattere questa guerra, abbiamo scoperto
i sentieri o li abbiamo creati, sappiamo da dove si può salire, da
dove si può passare, conosciamo il nemico, e a truppe nuove non è
facile imparare presto tutte queste cose». E per paura di non essere
ascoltati, qualche reparto si è rivolto per lettera al Comando Supremo.
Ecco degli uomini che da tre mesi vivono in un inferno di sofferenze,
che rischiano la vita niente altro che per camminare, che quando
riposano si tengono ammassati a gruppi su sporgenze larghe tre passi
fra una parete e un abisso, senza vedere altro che rocce e neve, senza
udire altro che l'urlo della bufera e il sibilo dei proiettili nemici,
degli uomini che quando sono feriti debbono essere impaccati in sacelli
e calati con le corde dall'orlo di precipizî, e che quando si offre
loro il riposo nella vita, rispondono: «No, noi possiamo servire quassù
meglio la Patria, il nostro posto è qui!»
La Patria deve conoscere e riconoscere questi eroismi oscuri,
calmi, magnifici, compiuti per la coscienza profonda del dovere, per
un'adorazione ineffabile verso la Madre Italia sulla quale si vigila.
Non vogliono scendere le truppe dalle altitudini, anche perchè hanno
finito per amare questa montagna conquistata che ora conoscono e che
ora le conosce. La montagna si allea a chi la vince, serve chi la doma,
offre in difesa quelle stesse difficoltà che si sono dovute superare
per espugnarla, svela i suoi tranelli, suggerisce i suoi agguati,
combatte anche essa, come un favoloso gigante, per i piccoli uomini che
hanno saputo scalarla e comandarla dalla vetta.
Arrivano a Cortina dei soldati dalle altezze a fare provviste.
Hanno l'apparenza grave e un po' stupita di chi giunge dalle lunghe
solitudini. Vanno fieramente, raccolti, a passo lento, perplessi
talvolta sulla strada da prendere, indecisi, come storditi di rivedere
delle automobili, di trovarsi fra le case, nel movimento e nel vocìo.
Portano in loro una non so quale atmosfera di silenzio come si porta
l'aria fredda entrando dall'aperto in inverno.
Passano settimane lassù senza udir nulla, nella quiete morta delle
cime. Soltanto alla sera, le truppe che stanno verso il passo di
Falzarego e che hanno di fronte delle forze trincerate, nell'ora
del tramonto sentono squillare le trombe del nemico. Il suono ha una
ripercussione prodigiosa nell'aria cristallina. Le trombe suonano una
musica solenne, sempre quella, come se fosse la preghiera dell'Ave
Maria. È il _Deutschland über alles_.
I nostri lasciano finire il suono delle trombe, e poi cantano in un
coro tremendo l'inno di Garibaldi. In quel momento i soldati, che sono
stati rintanati fino allora, non si tengono più, balzano in piedi,
allo scoperto, urlando: «Va fuori d'Italia, va fuori straniero!» Gli
ufficiali redarguiscono: — Giù perdio, coperti, giù!
Lo straniero manda invariabilmente una scarica di fucilate che
lampeggiano sul bordo d'un ciglione. Poi l'oscurità e il silenzio si
richiudono, e la lunga profonda notte comincia.


NELLA VALLE DI SEXTEN.
_10 settembre._

Dalla valle dell'Ansiei, lungo la quale serpeggia la strada che
per Misurina sale al nord fino a Toblach sulla Drava, ascendendo le
pendici boscose del Col Caradies, verso l'oriente, si arriva a dominare
dal passo il panorama della valle Pàdola, la quale va pure verso la
Drava, e, prolungandosi nella valle di Sexten, oltre la vicina antica
frontiera, conduce direttamente a Innichen.
La valle di Cortina, la valle di Misurina, la valle del Pàdola sono
tutti passaggi che dall'Italia tendono al corso della Drava, la quale,
dirigendosi da oriente ad occidente, porta nella sua ampia vallata i
nervi massimi delle comunicazioni austriache col Trentino. Ogni valle
nostra è dunque una minaccia sul fianco nemico, una minaccia tanto più
grave quanto più la frontiera si avvicina ai punti vitali. Il confine
sulla valle Pàdola non è che ad una quindicina di chilometri in linea
retta da Innichen sulla Drava: poco più di un tiro di cannone pesante.
Come avevano eretto i forti di Sompauses, di Platzwiese e di Landro a
difesa degli sbocchi da Cortina e da Misurina, gli austriaci avevano
sbarrato la valle di Sexten con due forti principali e infinite opere
minori: un forte ad oriente della valle, sulle pendici del monte Helm,
il forte di Mitterberg, ed uno ad occidente, il forte di Heidick.
Contro queste due opere maggiori verso la metà di luglio la nostra
artiglieria da posizione aprì il fuoco, sistematicamente, devastandole.
Ma anche qui gli austriaci hanno ricorso alla tattica di disarmare i
forti che vedevano condannati e di trasportarne i cannoni su posizioni
campali, da lungo tempo preparate con solide piattaforme riunite da
strade coperte.
È meraviglioso come si sia potuto avanzare su territorio di conquista
in mezzo a difficoltà che appaiono quasi insuperabili, opposte dal
terreno e dal nemico, il quale ha fatto dell'intera valle di Sexten
tutto un sistema di trinceramenti in calcestruzzo. Non vi è una linea
di difesa, ve ne sono cento. Le trincee, precedute da reticolati, da
fossati, da mine, percorrono i declivi in tutti i sensi. Le artiglierie
si sono accumulate in agguato dietro ad ogni dosso, e battono le
creste.

La lotta, qui pure, cominciò con una conquista di vette. Dopo aver
visto le gole dolomitiche, dominate dalle rocche mostruose delle nude
montagne turrite, la valle Pàdola ci è sembrata ampia e dolce, fra quei
suoi monti che, sebbene scoscesi, hanno le forme che abbiamo sempre
visto ai monti. Vi sono cime rocciose, dalle pareti a picco, coronate
di guglie, spaccate da canaloni, ma sono lontane, esse non serrano
la valle, non vi precipitano le linee vertiginose dei loro speroni.
I massicci più aspri si discostano fra loro e lasciano respirare la
vallata fra verdi ondulazioni di propaggini.
A settentrione e ad occidente il vecchio confine passa sopra il
dorso di quei massicci, corre sopra la seghettatura delle loro creste
biancheggianti di nevi, alle quali arrivano, in cerca di forcelle e di
selle, i sentieri che costituiscono i valichi secondarî. In fondo alla
valle fugge il nastro bianco della strada maestra. La prima azione si
diresse alla conquista dei valichi. Per avere i valichi bisognava avere
le vette che li dominano. Fu una corsa alle rocce.
Noi, puntando verso Sexten, prendemmo il Monte Croce di Comelico, e
poi la Croda Rossa, e poi la Cima Undici, preparando l'avanzata nella
valle nemica, mentre gli austriaci, più ad occidente, si aggrampano
al confine, sulla cresta del Monte Cavallin, come l'abbiamo visto
aggrampato sul Monte Piana sopra a Misurina. Lentamente la nostra
conquista è penetrata nella valle di Sexten.
Al di là della frontiera vi è una di quelle alture che le sinuosità
della valle pongono come a sbarramento e che chiudono la prospettiva.
È il Seikofel. Si prestava ad una forte difesa. La resistenza austriaca
vi si è accanita.
Il primo luglio, per studiare le opere che il nemico vi aveva
costruito, si spinsero avanti, arditamente, delle pattuglie di
ufficiali. Vi accertarono l'esistenza di trincee permanenti di
cemento armato, con larghi reticolati. L'artiglieria nostra cominciò
a tempestare le opere invisibili, che le esplorazioni degli ufficiali
avevano delineato. Il 14 luglio, la fanteria cominciò ad avanzare dei
tentacoli, a tastare con ricognizioni le posizioni nemiche. I nemici
furono respinti dalle prime linee. Il nostro fronte si portò più avanti
e si radicò alle pendici del Seikofel.
Gli austriaci tentarono una offensiva violenta, preparata con lunga
cura. Il 28 luglio essi attaccarono nella valle con forze rilevanti.
Furono respinti e lasciarono nelle nostre mani alcuni prigionieri. Il
7 agosto noi attaccammo alla nostra volta. Dopo un'intensa preparazione
di artiglierie, che per varî giorni tempestarono le posizioni nemiche,
la fanteria avanzò respingendo passo passo l'avversario fino a
raggiungere le pendici meridionali del Burgstall, una montagna che sta
quasi simmetricamente di fronte al Seikofel, dal lato opposto della
valle. Il Seikofel è ad oriente, il Burgstall è ad occidente. Avanzati
a destra fino alle pendici dell'uno, si era avanzati a sinistra fino
alle pendici dell'altro.
Due giorni dopo il nemico tentava di sloggiarci. Dal Seikofel scese
con forze relativamente rilevanti. Fu respinto. Il 13 agosto noi
rafforzavamo la nostra linea con l'occupazione dell'Oberbacher, le cui
vette furono scalate dalla fanteria. L'Oberbacher è un nodo montuoso
a sud-ovest del Burgstall. Costituisce una posizione fiancheggiante
importantissima. Nello stesso giorno occupavamo la forcella Cengia,
un altro passo ad occidente della valle di Sexten, e il giorno dopo,
sopraffatte le artiglierie nemiche con un fuoco intenso, la fanteria
italiana poteva salire sulla spalla del Seikofel e radicarvisi, ed
occupare definitivamente delle cime della Croda Rossa.

Combattimenti accaniti succedono a lunghe calme. Da una parte
e dall'altra non si può agire con continuità; occorrono lente e
studiate preparazioni, e l'azione si scatena all'improvviso, violenta,
disegnando talvolta un attacco sopra un punto e lanciandolo sopra un
altro, tentando i lati deboli, complessa e breve. Se fossimo giunti
un giorno prima sul Col Caradies avremmo visto il fumo delle granate e
degli _shrapnells_ velare le creste e avremmo udito salire da tutta la
valle il tuono incessante delle artiglierie, ma ieri la zona del Pàdola
era immersa in una tranquillità profonda, appena turbata di tanto in
tanto dall'eco di qualche colpo lontano.
Eravamo in osservazione nella radura erbosa di un bosco di abeti, e lo
sfondo della vallata si apriva luminoso entro una oscura cornice di
tronchi e di fronde. Non potevamo scorgere Sexten, nascosta dal giro
della valle. Il bombardamento che ha demolito i forti ha danneggiato
anche la cittadina pittoresca, che rimane sempre un centro importante
per le operazioni austriache. Gli abitanti si sono ritirati a Innichen,
e i militari si sono sepolti in profonde casematte. A Sexten si
allacciano le comunicazioni telefoniche degli osservatorî del nemico
e quelle delle batterie. La centrale telefonica è un sotterraneo,
invulnerabile, scavato in un prato, coperto di zolle, una specie di
cantina alla quale giungono i fili entro cavi sotterrati.
Il Seikofel sollevava fra le pendici la sua larga groppa tondeggiante
e fosca. È una collina formidabile chiomata di boschi. Soltanto sulla
vetta, il bombardamento e i lavori di fortificazione hanno diradato la
selva. C'è una specie di calvizie incipiente sulla sommità dell'altura,
e si intravvede il fulvo colore della terra scavata fra le grame
alberaglie rimaste. Gli austriaci vi avevano già abbattuto alberi
per adoperare il legname nelle opere di rafforzamento; il cannone
ha falciato il resto. Si scorgono dei sottili intrecci di tronchi
inclinati o caduti.
Come sul Monte Piana, la cima non appartiene a nessuno; è una breve
zona neutra, che da una parte o dall'altra si scala per assalirsi. Le
trincee italiane e quelle austriache non sono lontane fra loro che
una settantina di metri. Ogni tanto qualche esploratore striscia ad
affacciarsi cautamente sulla vetta per vedere quello che il nemico,
pochi passi più in giù, stia facendo. Se è scorto, si ode una salva di
fucilate; la vedetta urla un'ingiuria e si lascia scivolare indietro,
fra i suoi. Alla notte, il vivido raggio dei proiettori contorna
l'altura, che si disegna nera e netta sul chiarore bianco come in un
crepuscolo lunare.
La più attenta osservazione attraverso i binocoli non ci lasciava
sorprendere alcun movimento sul Seikofel. Nessuna vita sulla terra
sconvolta e sterilita di quella vetta, verso la quale sfuma il nero
della foresta. Gli alberi hanno protetto il nostro assalto, come sul
Salubio. I nostri sono saliti nella loro ombra, da tronco a tronco,
ricacciando il nemico a passo a passo.
Non potendo abbattere la selva, nella quale i nostri movimenti si
celano, gli austriaci tentano ora d'incendiaria. Aspettano che il
vento spiri dal nord, e mettono il fuoco ai roveti. Le fiamme salgono,
gli alberi resinosi ardono, colonne di fumo denso si abbattono sulla
vallata. Ma l'incendio non si propaga mai. Divampa, poi langue,
s'estingue, e per giorni e giorni dei diafani nembi azzurrastri si
levano a volute filamentose dalle plaghe carbonizzate. Dei riflessi
sanguigni palpitano nelle tenebre della notte. L'ultimo incendio si è
spento l'altro ieri.

In fondo alla valle, sotto a noi, sporgendoci sulla balza, vedevamo il
villaggio di Pàdola, deserto. Le strade stendevano lungo il torrente
il loro bianco serpeggiamento senza una macchia. Non un carro, non
un uomo. Forse qui, come nelle Fiandre, è alla notte che il movimento
delle retrovie si desta. Nell'oscurità romberanno i convogli in marcia,
mentre in margine al gran traffico dei veicoli sfileranno silenziose le
truppe in nere schiere lente. La valle appariva vuota, solitaria e come
addormentata.
Essa è ancora sotto alla vigilanza di un lontano osservatorio
austriaco, e si sente guardata. Si finge vuota. Niente può dare
pretesto ad un colpo di cannone. Questo osservatorio, per una stranezza
della guerra di montagna, s'incunea nelle nostre posizioni. È al Passo
della Sentinella, una località che merita il suo nome. Vi si erge,
isolata, una guglia dolomitica, sottile, aguzza, che sembra un gigante
in vedetta.
Tutti questi monti, come abbiamo già osservato nella valle di Ampezzo,
sono fatti, per dir così, a trampolino. Verso l'Austria un piano
inclinato, verso l'Italia un salto. Da una parte una comoda via di
accesso, dall'altra una parete che bisogna scalare. Così il passo della
Sentinella. È stato preso e ripreso varie volte. L'attacco è facile per
gli austriaci e difficile per noi. Essi possono difendere la vetta con
qualche uomo e assalirla con molti. Lassù, sull'estrema punta, come
sulla cima della Prima Tofana, non vi è che un minuscolo plotone e
una mitragliatrice, alla quale hanno fatto con del cemento una cupola
blindata. Tutte le cime vicine sono nostre. Noi li avremo assediandoli.
Ma intanto guardano, ed essi sono l'occhio di batterie rincantucciate
fra le pendici dell'Inner Gsell, nelle vicinanze di Sexten.
A destra del Seikofel boscoso, poco più lontano, un'altura nuda,
rossastra, dalla vetta lacerata dalle granate; è il Rotheck. Nel nome
di Rotheck c'è la parola «rosso». La montagna brulla si distingue
infatti per quel suo colore ardente, per quella sua strana vetta
sanguinante sulla quale il nemico si trincera. Di fronte a lei, assai
più vicino, il Quaternà nostro, alto, scosceso, fulvo, dominante, che
a sinistra porta le nostre posizioni a congiungersi per ondulazioni di
declivî al Seikofel, e a destra le conduce verso le cime del Palombino,
altra vetta di frontiera che ci dà il comando di valichi minori.
Sul Quaternà si profilavano gli uomini, che andavano e venivano
lentamente sulla cresta in quell'ora silenziosa di tregua, simili a
strani insetti, diafani e tremuli nelle rifrazioni della distanza.
Vedevamo il rovescio delle nostre posizioni, il formicaio bizzarro
degli accampamenti attaccati alla spalla del monte come dei nidi.
Verso le cime, da ogni parte, si vedevano arrampicati i villaggi dei
rifugi, color della terra, con le loro piccole baracche che sembrano
sovrapposte, minuscole cittadine a ripiani verso le quali sale un
saettamento di sentieri a zigzag. Ricordano quei fantastici conventi
buddhisti che si aggrampano alle rocce sacre della gola di Kalgan. Su
certe vette si sono dovute infiggere delle travi a guisa di mensole,
ed erigere i baraccamenti sopra dei pianerottoli di legno sospesi sul
precipizio. Si passa da un pianerottolo all'altro per delle scale. Dei
gradini tagliati nella roccia portano alle trincee.
Spesso, camminando sulla cresta, un sasso si distacca, rotola giù
dal ciglio e frulla nel vuoto rimbalzando più in basso sonoramente
sul legno delle costruzioni, percuotendo le travature di sostegno con
una violenza da proiettile. Chi si accorge che un sasso sfugge sotto
al suo piede, manda giù un grido di avviso. Si sporge e, le mani a
imbuto intorno alla bocca, urla: «Sassooo!» — e gli uomini nei ripiani
inferiori si gettano contro la parete di roccia aspettando che la
pietra sia passata.

Oltre il Quaternà, ad oriente, una vetta precipitosa e immane: il
Cavallin. È precisamente una di quelle montagne a trampolino che
offrono all'Italia il corrusco aspetto di una rocca ed hanno dall'altra
parte un dorso accessibile. Il Cavallin, una delle gigantesche pietre
miliari della frontiera, non ha grande importanza perchè non domina
alcun valico di qualche entità e non può molestare direttamente le
nostre operazioni. Ma fissa, abbarbica su quel punto del confine
l'occupazione austriaca, ed è sul fianco destro della nostra direttiva
nella valle di Sexten. Non ci nuoce, ma ci minaccia.
Ha una forma quasi simmetrica: due cime, due torrioni, e fra loro una
profonda insellatura nel mezzo della quale bruscamente irrompe una
guglia. Le pareti sono a picco; non si scorge da lontano alcuna via di
accesso. Soltanto delle ricognizioni, in forze più o meno importanti,
partite dai costoni del Quaternà, si sono avvicinate alle posizioni
austriache del Cavallin per studiarne gli approcci. Ardite e magnifiche
spedizioni! Talvolta sono arrivate fin sulle trincee del nemico. Come?
Il racconto delle loro gesta sembra una leggenda.
Scalare la parete è impossibile. Le ricognizioni salgono per i
canaloni, s'inerpicano sui macigni crollati nelle fenditure, vanno
su per veri corridoi fra pareti di roccia che numerose mitragliatrici
austriache spazzano al minimo allarme. Nel cuore della notte gli eroici
reparti esploratori avanzano. Le trincee nemiche si distendono sui
ciglioni, sono annidate in sporgenze della roccia agli accessi dei
canaloni. Ogni approccio è barrato da larghi reticolati. È avvenuto
che si sia riuscito ad aprire un varco nel primo reticolato, poi nel
secondo. Nella luce dei proiettori, strisciando sotto al fuoco intenso,
inerpicandosi da masso a masso, i nostri sono arrivati alla trincea
principale. Ma sul parapetto stesso c'è un ultimo reticolato che
bisognerebbe distruggere, a due metri dalle canne dei fucili nemici.
Quando la ricognizione arriva alla mèta, è già l'alba. Nessuno può
più ritirarsi allo scoperto. E i nostri rimangono là, fra le pietre, a
qualche passo dai nemici, che li sentono ma non osano uscire. Sparano e
sparano, gli austriaci, con quel fuoco a scatti che ridice l'agitazione
e l'ansia. Le mitragliatrici martellano l'invisibile. I nostri si
aggrampano immobili, lambiti da una rete di sibili. È un inferno. Le
palle di rimbalzo sono le più terribili perchè arrivano non si sa da
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