Al fronte (maggio-ottobre 1915) - 05

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molti colpi da sprecare. La loro vita è breve. Ogni ora, ogni due
ore, un rimbombo, che pare lo scoppio d'una polveriera. Non vediamo
nè il bersaglio nè il cannone. Forse è al di là delle colline che i
proiettili cadono, a nord di Podgora. Chi sa? Quello che si vede di una
battaglia moderna è così poco!
Essa si delinea vagamente, e ogni dettaglio sfugge. Non vorrei nutrire
nel lettore l'illusione che io sia testimonio oculare di tutti i
particolari che racconto. Tuoni e fumo, ecco quel che sento e quel che
scorgo, e la linea del combattimento invisibile si rivela lentamente
nell'immobilità solenne del paesaggio, da campanile a campanile,
da costa a costa. Ma da ogni parte, laconiche ed eloquenti, delle
notizie arrivano, parole che cadono al passaggio di staffette veloci,
informazioni sommarie che scaturiscono dall'allacciamento dei servizi,
voci che la battaglia propaga dalle trincee sui nervi delle retrovie:
«Il nostro battaglione è andato alla baionetta». — «Siamo ora sulle
seconde linee». — «La tale posizione è presa». — «Abbiamo fatto dei
prigionieri». — «Tutto va bene, evviva!»
Le località indicate sono in una bruma pallida, ma non sembrano più
impassibili al nostro sguardo dopo quello che sappiamo di loro;
esse assumono una espressione indicibile; ci pare di conoscerle
profondamente; le sentiamo amiche o nemiche, sottomesse o pugnaci, a
seconda che accolgono o trattengono la nostra avanzata.
Tutto si anima, tutto vive, tutto palpita, vi è una torva ostinazione
sul profilo di Podgora, e il Sabotino alto e fosco vigila come una
spia. Dietro alle sue spalle si sporge il Monte Santo, che solleva
ipocritamente sul vertice il puro biancore di un santuario e nasconde
artiglierie austriache in tutte le pieghe delle sue pendici. Il
Sabotino indica, il Monte Santo spara. E più in basso spara il colle
Santa Caterina, che non si lascia scorgere, in agguato, irto di cannoni
anche lui.
No, non si vedono più gli uomini nella guerra d'oggi, sono divenuti
troppo piccoli nella vastità, nella imponenza, nella possanza della
loro azione; ma entro la solitudine apparente della battaglia i luoghi
stessi, con le varie fisionomie del paesaggio, sembrano divenuti i veri
protagonisti della lotta, combattenti favolosi pieni di corruccio,
di sdegno, di forza; e da montagna a montagna, fra le vette ferite,
s'accanisce un duello titanico a colpi di fulmine.
Alle spalle della battaglia, le strade non sono tutte deserte. Una vita
strana vi serpeggia, appena visibile, che più lontano dal fronte di
combattimento si allarga sicura e viene ad innestarsi nella popolosa
e attiva normalità degli accampamenti e dei bivacchi, dei parchi di
rifornimento e dei depositi, delle ultime stazioni di carreggio, e
arriva fra gli affollamenti gai e vocianti delle riserve, incuranti del
cannone, dal quale salgono canti spensierati.
L'artiglieria austriaca batte ad intervalli le strade, senza vederle.
Vi mette delle barriere di fuoco anche quando non passa nessuno. Cerca
di indovinare le arterie di rifornimento. Si assiste palpitando alle
avventure di piccoli convogli che vanno lentamente verso il fuoco,
di batterie che si spostano al passo con una solennità sdegnosa
chiamate su altre parti del fronte, di squadroni, di staffette, mentre
percorrono le strade bombardate. «Si fermano? Sono colpiti?... No,
vanno avanti. Ma fate presto che Dio vi benedica!». — E attraverso
sinistri spiumacciamenti di fumo quel piccolo movimento di cavalli
e di uomini, ai quali s'afferra tutta la nostra passione, procede
impassibile, superbo.
Mossa è bombardato, San Lorenzo è bombardato, la strada che li
unisce è sotto al fuoco, si vedono gli scoppi indicarne col fumo il
tracciato. Della gente che viene di là arriva con una imperturbabilità
sbalorditiva. Un'unità di cavalleria ha un'aria di contentezza
emergendo dalla zona battuta, verso Medea. «Anche un colpo da 305
ci hanno tirato!» — annunziano i soldati per affermare fieramente
la loro importanza, e fanno piede a terra. Fra loro due soli
colpiti, leggermente, che sono rimasti in arcione ed hanno avuto le
congratulazioni dei compagni vicini.
I due privilegiati si fanno medicare e tornano al loro cavallo che
aspetta con la briglia attorta all'asta della lancia piantata nel
suolo. Da quando è cominciata la guerra, in tutta una divisione di
cavalleria avviene questo fenomeno: che non c'è più malati. I soldati
che non si sentono bene, si curano da loro per paura d'essere mandati
all'ospedale.
Sereni ma stanchi, quelli che arrivano da più lontano portano un'eco
di assalti. Sono descrizioni rozze, concise, vive, palpitanti. Esse
ci fanno vedere i nostri soldati furibondi degli ostacoli, appiattati
avanti agli inattaccabili baluardi di calcestruzzo, che soltanto
una valanga di esplosivi può schiacciare, gridando ingenuamente agli
austriaci: «Venite fuori dal buco, attaccateci se avete fegato!».

Sembra strano, ma sono quelli che vengono dal fuoco che sono più
avidi di notizie. Non hanno visto che un punto, un angolo, un episodio
della battaglia. Essi domandano a coloro che sono lontani, e questi si
precipitano sull'estraneo che arriva dal di là delle zone di guerra,
dalla quiete operosa della nazione. L'esercito, isolato, non conosce
nemmeno i bollettini ufficiali.
In Francia e nel Belgio è stato creato il Giornale degli eserciti, per
informare le truppe. Si sono riconosciuti i pericoli dell'oscurità.
Una volta, il soldato la battaglia la vedeva. Ora essa è per lui un
grande mistero, la decifrazione del quale non è prudente sia lasciata
ai «si dice», sempre eccessivi, che si trasformano propagandosi, e si
esagerano. Avvengono sul fronte fatti così meravigliosi di fulgido
eroismo, che la loro conoscenza fornirebbe alle truppe infiniti
argomenti di orgoglio.
Quando l'Italia dichiarò la guerra, l'annuncio fu dato istantaneamente
su tutto l'immenso fronte francese, inglese, belga, e l'entusiasmo
scoppiò in canti formidabili, per trasformarsi poco dopo in furibondi
e fortunati assalti. Vi sono notizie preziose per il morale delle
truppe. Le vittorie, gli ardimenti, le ragioni di ogni decorazione,
le citazioni all'ordine del giorno, le manifestazioni patriottiche del
paese, lo slancio nazionale per provvedere all'avvenire delle famiglie
dei soldati, sono cose che, potendolo, dovrebbero essere portate
formalmente a conoscenza dell'esercito. Il suo ardore non potrebbe
essere più grande, la sua fede non potrebbe essere più ferma, ma le
virtù che sono in lui avrebbero conforto ed alimento.
Tutti ricordano come, nei primi giorni della nostra guerra, in ogni
città d'Italia delle voci, la cui origine è chiaramente austriaca,
volevano far credere alla distruzione di un reggimento che variava da
città a città, che era romano a Roma, fiorentino a Firenze, milanese
a Milano. Ebbene, ho trovato degli ufficiali e dei soldati di un
reggimento meridionale angosciati perchè qualcuno ha detto loro che al
paese le loro famiglie li credono tutti morti e li ha assicurati che la
notizia del loro massacro era comparsa sui giornali.
«Non è vero! — ho protestato con indignazione — chi è venuto a
inventarvi queste indegnità?» «Un borghese che era da queste parti»
— mi hanno risposto. Il borghese che era da quelle parti lavorava
apparentemente, povero untorello, a spargere anche fra le truppe il suo
inutile veleno. Ma non abbandoniamole alle voci, noi non sappiamo fino
a dove l'agente nemico può penetrare, fissiamo il pensiero dei soldati
sui fatti, così belli, che avvengono in magnifica dovizia dove si
combatte e dove si aspetta, e che essi in tanta parte ignorano.

Sopra una delle alture da cui si domina la vallata dell'Isonzo, c'è
come una piccola terrazza naturale, ombreggiata di acacie. Durante le
fasi più attive dell'azione, dei generali sono saliti lassù. Il Re vi è
comparso due volte. Il suo arrivo è stato annunziato da un'acclamazione
clamorosa. Tutto un accampamento di riserve, che allinea fra i filari
di vite le sue tende grigie, ha salutato il Sovrano con un urlo, che
pareva la voce d'un assalto.
I soldati sono accorsi da ogni parte, è stata una confusione da alveare
negli attendamenti pavesati da biancherie che asciugano. «Viva il Re!»
— gridavano anche i soldati lontani, quelli che non vedevano niente, e
che correvano a perdifiato attraverso i campi. Arrivando sulla strada,
ansimanti, felici, i soldati si pigiavano in rango, rigidamente, duri
alle spinte della massa che sopraggiungeva dopo, e che faceva da popolo
dietro il cordone della prima fila.
Sceso dall'automobile, il Re passa avanti a quella siepe d'entusiasmo,
e saluta, la mano al berretto, un lieve sorriso sulle labbra, facendo
scorrere sui volti quel suo sguardo profondo e osservatore che lascia
in ognuno la sensazione di esser visto e notato. Lo sguardo del Re è
penetrante e valutatore.
Il Sovrano si ferma: «Bravo! — esclama rivolto ad un soldato. — Dove
hai guadagnato le tue medaglie?». L'interpellato ha il petto fregiato
da due nastri azzurri del valor militare e del nastro della campagna
libica. In un combattimento a Misurata strappò al nemico il corpo
del suo capitano caduto, e in Italia, in una camerata di caserma,
disarmò da solo un compagno impazzito che faceva fuoco su chiunque si
avvicinasse a lui. È un fiero caporale calabrese, biondo di baffi e
bruno di carne, un discendente di guerrieri normanni.
«Eccoti da fumare!» gli dice il Re porgendogli dei sigari dopo avere
ascoltato il suo conciso e imbarazzato racconto dialettale. Il soldato
li prende con profonda reverenza, come una cosa sacra, e quando il Re
è lontano la sua felicità esplode. Levando in alto il dono, egli danza
gridando: «_'U zigarru d'u Re! 'U zigarru d'u Re!_».

Qualche ora dopo, mentre il Sovrano ridiscende dal colle, lungo un
pittoresco sentiero tutto fresco di ombre verdi, tre fanciulle, tre
contadinelle del paese, dai piedi nudi negli zoccoletti, si fanno
avanti, timide, confuse, le mani piene di fiori colti allora nell'orto,
e li offrono inchinandosi con una grazia tutta campestre: «Maestà....
— mormora la più ardita divenendo rossa come le sue rose. — .... _I x'è
fiori d'Italia!_».
Quando il Re è tornato il giorno dopo, si è fermato allo sbocco del
sentiero, dove aveva incontrato le ragazze, e ha fatto chiedere di
loro. Una sola era là; essa è corsa a chiamare le amiche; un minuto
dopo arrivavano tutte e tre, trafelate e felici, e il Re, sorridendo
con una benevolenza paterna, ha porto ad ognuna una scatola di dolci,
adorna degli emblemi reali. Poi ha continuato la sua strada, seguìto
dal suo Stato Maggiore che riempiva l'angusto sentiero di un grigiore
d'uniformi e di un tintinnìo di sciabole.
Ma Vittorio Emanuele non può stare lungo tempo lontano dall'azione.
Sente il bisogno di esservi dentro. Quando ha avuto una visione
generale della situazione, sceglie il suo posto e parte. Ogni giorno
è in un punto ove si combatte. Dov'è andato oggi? Lasciata l'altura, è
risalito nella sua automobile, e qualche minuto dopo la vettura reale
filava laggiù, sulle strade battute dagli _shrapnells_ austriaci,
attraverso villaggi che il bombardamento sforacchia e demolisce,
diretta a qualche interessante settore del fronte.
Finchè si è potuta vedere, finchè la sua scìa polverosa ha indicato
il suo cammino sulla zona del fuoco, centinaia di sguardi l'hanno
seguìta in un silenzio commosso, pieno di una lieve angoscia, e mai
il motto solenne della lealtà britannica ha avuto una più intensa
significazione: Dio salvi il Re!

Alla notte la tempesta di artiglierie, durata due giorni, si è calmata.
La lotta si è sopita. Un temporale scendeva dal nord, con un tremolìo
di lampi, e pareva che il cielo a sua volta fosse in battaglia. Delle
vivide luci azzurre di segnale brillavano di tanto in tanto nel buio,
sulle posizioni austriache. In fondo alla pianura oscura, morta,
invisibile, l'incendio di Lucinico metteva un punteggiare di bragie.
I risultati di questi due giorni di combattimenti? Plava. Si lottava a
Gorizia per passare altrove. Bisognava impegnare tutto il fronte, per
forzare un punto. Il muro è così scavalcato in tre posti. Se la porta
resiste ancora, noi siamo già entrati. Abbiamo spezzato il baluardo;
però altri ed altri la montagna ne oppone al di là.
I nostri progressi, sicuri, solidi, non possono essere che lenti. Non
è osservando per qualche giorno il panorama della battaglia centrale
che può esser dato di scorgerli. Essi si rivelano all'improvviso, ora
in una zona, ora in un'altra, e spesso quello che si vede non è che
una preparazione, come il picchiare faticoso sopra una roccia è la
preparazione della mina che la farà crollare.


IN UN OSPEDALE.
_5 agosto._

Sono arrivati improvvisamente. È stato un succedersi affannoso di
_camions_ d'ambulanza sulla ghiaia fine dei viali, all'ingresso
dell'ospedale chiaro ed elegante come una grande villa; e a mano a
mano che venivano discesi dai veicoli, in un affaccendamento pieno di
delicatezza e di ordine i feriti erano accolti nel vestibolo, spogliati
delle loro uniformi lacere e sporche di sangue disseccato, trasportati
con cautela nei letti bianchi che si allineano nelle vaste sale
luminose e fresche, dalle cui ampie finestre spalancate giunge appena,
simile ad un lontano rombo di marea, il profondo respiro della città.
Poi la quiete si è ricomposta nel nitido edificio, e sui volti dei
nuovi ospiti si è diffusa a poco a poco una espressione di riposo e di
beatitudine.
Il primo sentimento del soldato che arriva in un ospedale è una specie
di dolce stupore per l'immobilità soffice e definitiva che lo accoglie.
Assapora il benessere della immobilità con aria trasognata. Non parla.
Gira intorno uno sguardo mobile, interrogatore, che studia, che cerca
di rendersi conto delle cose nuove che lo circondano e nel quale brilla
ancora di tanto in tanto l'esaltazione della lotta.
Il tumulto del combattimento, la foga ardente dell'assalto
fulmineamente interrotta da una palla, l'attesa angosciata, inerte
e solitaria sul campo, il trasporto all'ambulanza sotto il fuoco, la
medicazione, il viaggio, tutto questo si è succeduto così rapidamente
che si confonde nella sua mente febbricitante. Per qualche tempo egli
stenta a districarsi dal passato. Quello che avviene è troppo poco in
confronto a quello che è avvenuto. Il metallo non si raffredda subito
appena tolto dalla fornace. L'anima del ferito è ancora incandescente.
Un clamore di emozioni si prolunga in lui come un'eco e riempie il
silenzio profondo della nuova quiete improvvisa.
Ma questa eco presto si spegne, la calma si fa anche nel pensiero, le
impressioni si fissano, le idee si chiariscono, la curiosità incerta,
vaga e atona dei feriti non cerca più intorno. Fra letto e letto si
annodano dialoghi sommessi.

Nessuno parla della propria sofferenza o s'interessa a quella degli
altri. Si parla della battaglia. «Di che reggimento sei? — Del _tale_
fanteria, e tu? — Ah, eravate alla nostra destra. Io sono del _tal
altro_. — Noi attaccavamo sopra San Martino. — Sì, sì, alla nostra
destra. Io sono del San Michele». La battaglia li tiene tutti ancora.
Il loro spirito rivive incessantemente i momenti supremi e inebbrianti
della lotta, rifà il cammino dell'assalto con ostinazione, quasi
cercando di poter proseguire oltre la ferita, oltre la caduta, di
andare avanti con gli altri, con i sani, con gli arrivati, con la
moltitudine esultante dei vittoriosi.
Spesso, a vederli e ad ascoltarli si dimentica quasi che sono feriti.
Si varca la soglia dell'ospedale col cuore stretto, preparati ad uno
spettacolo di dolore, e la pietà per i corpi martoriati si attutisce
di fronte ad una gagliarda e piena salute delle anime, calda di
entusiasmo.
Non somigliano ai feriti delle altre guerre. Ordinariamente, il soldato
colpito durante l'azione conosce il duro sforzo della lotta, ma il
risultato è per lui vago, impreciso o ignoto, si perde in una rossa
nebbia. Il dolore riconduce il combattente nei limiti angusti della sua
individualità. Per lui la battaglia si culmina in uno strazio. Rimane
spezzata nella percezione del ferito; egli la ricorda come una fiamma
spentasi improvvisamente nel sangue. Perciò, generalmente, il ferito è
un pessimista. Ma i nostri no.
Non so, pare che non sappiano diventar malati, che si conservino
combattenti nell'immobilità penosa delle loro membra, che considerino
il colpo ricevuto come un incidente, come una _corvée_. Rimangono
soldati, è in loro l'anima dell'esercito. Distesi nei loro letti,
sovente sorridono e scherzano. Gli stessi uomini, se fossero rimasti
feriti nella vita privata, se fossero atterrati così dalle disgrazie
del lavoro, riempirebbero le corsìe di lamenti. Dimostrano una forza,
uno stoicismo, una serenità, un buonumore, che non erano in tutti, che
vengono dall'immensa fusione delle virtù nazionali fattasi nell'ardente
crogiuolo della guerra. Sono trasfigurati dalla fierezza e dalla
nobiltà d'uno spirito collettivo. Essi rimangono inconsapevolmente
eroi di fronte alla tortura fisica come di fronte al nemico. Non si
arrendono al male.
Interrogati, raccontano con semplicità rude le loro gesta senza
vederne il valore. Pare che parlino di cose di tutti i giorni. Si sente
dire: «Sono stato ferito mentre tagliavo un reticolato» nel tono di
chi dicesse: «Mi sono fatto male scendendo le scale di casa». Chi si
aspettasse delle narrazioni romanzesche rimarrebbe deluso.
L'assalto? Roba da niente. «Tutto sta ad arrivare a una cinquantina di
metri dagli austriaci — mi ha raccontato un calabrese ferito alla gamba
— perchè fino a cinquanta metri sparano. Poi, giù, Savoiaaa!, e quelli
alzano le mani. Ed è finito».
«E che impressione si prova quando si è a cinquanta metri dal nemico?
e gli si va addosso?» — gli ho chiesto. La sua faccia abbronzata
si è aperta in un largo sorriso mentre egli dava questa risposta
imprevedibile: «Eh,... si gode!».
Per tornare a simili godimenti egli è impaziente di guarire. La sua
ferita è un conto personale aperto con gli austriaci, un conto da
regolare al più presto. Quando i dottori lo medicano e gli passano
i ferri nella piaga, egli nel dolore rugge invettive: «Brutto boia,
aspetta, aspetta! Ci sarò anch'io quando t'acciufferemo! Aspetta,
assassino, brigante...».
«Ma con chi l'hai?» — gli chiesero i medici sorpresi, la prima volta. —
«Con chi l'ho?... Con Cecco Beppe!...».

Uno dei feriti, fasciato alla testa, alle braccia, alle gambe, coperto
di ecchimosi, è sfuggito miracolosamente dalle mani del nemico. Fu
durante la conquista del ciglione sopra....
«Ho avuto paura — dice candidamente — ma una paura! Mica delle fucilate
e delle cannonate — corregge subito. — Ah, no!... È andata così:
era notte fatta, la mia compagnia stava alla prima linea, fra rocce,
scogli, sassi, e buio pesto. Abbiamo sentito un rumore di gente che si
avvicinava alla nostra destra. «Fermi ragazzi» — ci fa il capitano.
La gente si avvicinava, e noi fermi. Poi tutto ad un botto, un fuoco
d'inferno a dieci passi. Erano gli austriaci. Non si distingueva
niente. La compagnia ripiegò subito per non essere presa, ma io cercavo
gli occhiali. Sì, signore, sono miope, m'erano caduti gli occhiali e li
cercavo. E mi sono trovato in mezzo a tre accidenti che mi acciuffavano
urlando certe parole difficili. È allora che ho avuto paura. Che paura!
Una paura che mi ha dato la forza d'un leone. Calci, pugni, morsi....
Ma fu un momento. Eravamo sull'orlo d'un precipizio, che io non vedevo.
Per non essere trascinati giù, m'hanno lasciato andare. Così sono
caduto fino in fondo, ma ero libero. E mi sono conciato così.»
— E poi? — gli hanno chiesto a questo punto.
«E poi, chi lo sa! Devo aver dormito. Quando mi sono svegliato era
giorno. Non capivo niente, non sapevo dove ero. Cannonate, fucilate,
e, ad un certo punto, su, in alto ho sentito urlare: Savoia! Savoia!
Allora ho pensato che dovevo risalire per ritrovare i nostri, e via,
piano piano, come una lumaca, tra le pietre. Ho girato così tutto il
giorno. Alla fine una voce mi ha gridato: Eh! torna indietro! Dove vai?
Da quella parte ci sono gli austriaci! — Ho riconosciuto il maggiore,
che mi avvertiva. Allora, naturalmente, sono tornato indietro. Basta,
per farla breve, alla mattina dopo ero arrivato sulla strada maestra
di Ronchi. Un po' mi fermavo a riposare e a mangiare l'uva acerba delle
vigne, un po' mi trascinavo. Passavano convogli di munizioni, passavano
riserve. Verso le nove m'hanno raccolto..... Cosa? Se ho sofferto
molto? No, ero così contento di essere scappato da quelle grinfie!»
Gli sfebbrati, i convalescenti, quelli che si possono già alzare,
vestiti di pijama smisurati, qualcuno zoppicando, qualche altro col
braccio al collo, passeggiano nelle corsìe, si aggruppano, conversano
a bassa voce, educati, disciplinati, con un'aria da bravi collegiali.
Basta un piccolo ordine di una dama infermiera, per vedere i soldati
ubbidire con una docilità spontanea e gentile.
Alcuni feriti alle gambe in via di guarigione deambulano sostenuti
alle ascelle da un apparecchio a ruote, e l'arto malato, informe
nell'ingessatura, inizia così, rigidamente, i primi passi: «Largo,
largo! — avverte il ferito sorridendo mentre sospinge la macchina col
piede sano — largo che passa l'automobile!». L'apparecchio è anche
chiamato velocipede. Lo scherzo fiorisce nella pena. La gaiezza spunta
come il bucaneve nel biancore triste dell'ospedale. Una giovialità
buona e composta è in tutti i discorsi, trova la sua espressione in
ogni dialetto d'Italia. I figli delle più lontane regioni si uniscono
qui nella più vera e sentita fratellanza del sangue. Hanno gli stessi
entusiasmi, la stessa passione, la stessa speranza di tornare al fuoco.

Sono senza rancore verso la guerra che li ha colpiti. Il loro pensiero
torna con compiacenza fra i compagni che si battono, anche nella
febbre, anche nel delirio. Un rude alpino gravemente ferito, supino e
immobile, ha voluto scrivere qualche cosa sul ventaglio che gli avevano
messo in mano per rinfrescarsi il volto febbricitante. Faticosamente
vi ha tracciato col lapis questa frase: «Sempre avanti i bravi alpini
per la grandezza della patria!». E, soddisfatto e assorto, egli agita
stancamente il ventaglio, come se ascoltasse nel soffio leggero della
carta il grido che le ha confidato.
Il suo letto è in fondo ad una grande sala. Ora l'alpino migliora, e
sulla lavagna fissata alla spalliera un numero indica che la febbre
scema. Quando le sue condizioni erano più gravi ed egli pareva
moribondo, arrivò dal suo paese, da Belluno, il padre chiamato di
urgenza. Era un grosso montanaro vestito a festa, dall'aria di fattore,
con una gran catena d'orologio attraverso il panciotto, la faccia
colorita tagliata da un paio di baffoni neri. Commosso, incapace di
parlare, le mascelle convulse, gli occhi pieni di lacrime, il padre si
fermò ai piedi del letto. E fu il figlio che, sorridendo con le labbra
bianche, gli fece coraggio: «Vieni avanti, animo, non temere, vedrai
che non è niente, diamine!...».
Questo soldato ritornerà alla vita e alla salute grazie al successo
di una difficile operazione che egli ha subìto. Come lui, innumerevoli
sono i feriti salvati dalla scienza e dall'abnegazione di chi li cura.
Un risultato così straordinario è dovuto prima di tutto alla perfezione
delle prime medicazioni, fatte spesso in difficili condizioni sul
campo, poi alla rapidità del trasporto dei feriti dalle ambulanze
agli ospedali — per la quale si sono potuti ricevere a Milano dei
feriti caduti il giorno prima sull'altipiano del Carso — e infine alla
perizia, all'amore, all'infaticabilità dei medici e degli infermieri ai
quali è affidata la cura vera e definitiva.
Se è meraviglioso l'organismo che abbiamo saputo creare nei servizi
sanitarî della guerra, più meraviglioso è lo spirito che li anima.
Nella lotta ostinata contro la morte, il personale ospedaliero di
dottori, di dame volontarie, di suore, non si concede riposo. Le
esistenze in pericolo sono difese con un accanimento silenzioso fatto
di sacrifici. Se il morale dei feriti è così alto, molto si deve
all'atmosfera di protezione affettuosa che li circonda, alla vigilanza
attiva e ininterrotta che ognuno sente intorno al proprio male. Il male
appare già guarito per il fatto che è così curato. Non ci si pensa più
tanto, e la mente vola alle speranze.
Perciò il ferito sorride.


TRA LO STELVIO E IL TONALE.
_18 agosto._

L'immenso saliente austriaco del Trentino che entra così dolorosamente
nella terra italiana e s'incunea nelle nostre valli fino al lago di
Garda, ha a nord-ovest un limite di vette smisurate. La frontiera, che
s'innesta allo Stelvio, scende al sud serpeggiando sopra un candore
di ghiacciai, finchè da sommità a sommità raggiunge i contrafforti
e finisce fra il Garda e l'Idro a divorare le verdi pendici della
Valle Toscolana, coperte di vigneti, dalle quali si domina la pianura
bresciana.
Le vie di penetrazione, le vie dell'invasione capaci di un ampio
movimento di masse corrono da nord a sud, lungo la Valle Giudicaria,
lungo la valle del Garda, lungo la valle dell'Adige, ma il fianco
occidentale è chiuso da un'immane barriera di alte cime che lasciano
pochi e difficili varchi. Il nostro fronte comincia quindi, a ponente,
sopra una tumultuosa distesa di creste, di ghiacciai, di nevai, in una
maestosa tempesta di rocce. Sono le vette dell'Ortler, le vette del
Cevedale, le vette dell'Adamello. Le zone di operazione si distendono
talvolta oltre i tremila metri di altitudine. La guerra che romba sulla
marina nel golfo di Trieste, fra le ardenti scogliere delle giogaie
carsiche, si svolge all'estremo fianco sinistro nel perenne e rigido
inverno delle nevi alpine.
È lassù una guerra di sentinelle. In quel labirinto fantastico
di vallette anguste, di gole profonde, di burroni, di precipizî
tenebrosi, due sole strade di qualche valore strategico riescono a
inerpicarsi, serpeggiando faticosamente sulle gigantesche pareti dei
monti, e a valicare la frontiera. La strada dello Stelvio, che tocca
l'estremo limite del confine, e che le nevi bloccano durante otto
mesi dell'anno, e più a sud la strada del Tonale. Non vi sono altri
valichi se non dei paurosi sentieri da cacciatori di camosci, minuscoli
passaggi mulattieri, viottoli che seguono il corso dei burroni,
nell'ombra gelida delle gole, e che scalano le selle al bordo sinuoso
dei ghiacciai. Pochi uomini vi si possono muovere. Da una parte e
dall'altra, l'azione che si svolge in quelle fantastiche zone è più che
altro di vigilanza.
Si fiancheggia l'azione più ampia che, salita dal sud, fronteggia ora i
formidabili sbarramenti di fortezze che gli austriaci hanno creato in
tutte le valli accessibili all'invasione italiana. Sui valichi dello
Stelvio e del Tonale, all'estremità sinistra italiana, si sorveglia e
si blocca.
Verso queste regioni, all'ultimo limite occidentale del nostro fronte,
abbiamo iniziato la nostra visita al fronte.
Si vigila e si blocca, ma non si creda che questa guerra di sentinelle
si svolga nell'immobilità. Per consolidare il possesso dei valichi
bisogna occupare le posizioni dominanti. Si porta la lotta sempre più
in alto. Sono scalate fantastiche verso il cielo, ascensioni notturne
di creste turrite, sorprese, attacchi, e le fucilate echeggiano per i
deserti glaciali delle vette. La guerra si assottiglia salendo: nelle
pianure sono le grandi masse che operano, nelle vallate sono nuclei,
nelle gole reparti, e sulle cime pattuglie. La battaglia diviene
scaramuccia, e in alto in alto la guerra finisce in una caccia, fatta
di sorprese e di agguati, al di sopra del mondo abitato, fra le nubi,
sul bordo di abissi, entro un silenzio spaventoso.
Ogni sentiero, ogni passo, è il teatro di minuscole operazioni di
guerra; ma sui due valichi principali, che permettono una maggiore
concentrazione di forze, e il cui possesso ha un'importanza che pesa
sullo svolgimento generale della guerra, l'azione si allarga. Sullo
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