Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 19

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perchè tutti i Franchi la parlavano, come lo mostra la lettura delle
leggi salica, ripuaria e bavara, ed anche i capitolari di Carlo Magno,
ove tutte le parole non latine derivano dal tedesco. E per tal modo due
lingue, una per la nobiltà, l'altra per il popolo, parevano dividere
questi due ordini, e rammentando ad ogni istante la loro differente
origine, rinnovare tra di loro l'avversione e la gelosia.
[410] La maggior parte de' conquistatori d'Italia uscirono da quella
parte della Germania ove parlasi il più grossolano tedesco, in cui
tutti i nomi sono indeclinabili. In Allemagna la conjugazione de'
verbi non ha che due tempi semplici, il presente ed il passato,
tutti gli altri in ogni modo sono indicati dai verbi ausiliarj. La
grammatica italiana tiene un di mezzo tra la tedesca e la latina.
[411] _Store Seite_, il soprannome di Grimoaldo II, deriva, o parmi
che derivi da _Store, grande_, in danese, o da _Störer_ in tedesco,
_perturbatore_, e da _Seite, costa_, cioè _la gran costa_, o il
_perturbatore delle coste, l'uomo inquieto_. Ma l'anonimo
Salernitano traduce questo soprannome con tal frase: _qui ante
obtutum principum et regum, milites hinc inde sedendo præordinat,
Paralip. t, II. p. II. c. 29. p. 195._ Ed un giornale tedesco me ne
diede la spiegazione, che io non aveva potuto ritrovare: _Störer
Sitzen, il disordinatore delle scranne_, era facilmente un maestro
delle ceremonie.
Richiedevasi veramente che i gentiluomini, i cherici, e sopra tutto i
legisti, intendessero il latino; ma il modo con cui lo scrivevano ci
somministra una poco vantaggiosa idea dello stile della loro
conversazione, se pure valevansi di questa lingua. Abbiamo infinite
carte scritte in questo preteso latino. Vedesi quanto poco scrupolosi
fossero i notaj nell'ammettere nei loro atti i più grossolani
barbarismi, e come a fronte di tanta licenziosità esprimevano a stento i
loro concetti. Soffresi, leggendoli, doppia fatica; ci stanchiamo
d'occuparci di così fastidiose cose, ma più ancora ci stanchiamo
sentendo la fatica che sostennero coloro che le scrissero[412].
[412] Ecco una carta del 782, che darà un'idea del latino dei secoli
più barbari; è una donazione della Chiesa di s. Damaso di Lucca
fatta ad un'abbadessa della città, figliuola d'un re degli Anglo
Sassoni. _Antiq. Ital. Diss. I. p. 19. — In Dei nomine, Regnante
Domno nostro Carulo Rex Francorum, et Langobardorum, et Domno nostro
Pipino idem Rex filio ejus, anno regni eorum nono et secundo, mense
augusto per indictione quinta. Promitto et manus meam facio, ego
Magniprand Clericus, filio quondam Magniperti, tivi Adeltruda Saxa,
Dei ancilla, filia Adelwaldi, qui fuit rex Saxonorum, Ottramarini,
de Ecclesia Monasterii Sancti Dalmati, vel casis et omnia res, et
hominibus ibidem pertinentibus, ubi te per alia cartula confirmavi,
excepto Magnulo, quem liverum dimisi, ut si quacumque homo (excepto
de qualibet pubblico) de ipsa et Clericis, et casi et hominibus
eidem Ecclesiæ perninente, et vel successores tuo, quem tu ibidem
ordinaveris, foris expellere potuerit, extra omnem meum conludio,
per jura legem et justitia (excepto ut dixi de quolivet publico) ut
ego redda vobis solidas septinientas Lucani et Pisani, quas mihi
dedisti . . . . etc. etc._
Durante il regno della casa Sassone una nuova mescolanza di gentiluomini
allemanni colla nobiltà italiana, rimise in vigore per la terza volta il
linguaggio teutonico, che era quello della corte e del governo; ma tale
linguaggio così difficile, ed affatto straniero agli organi italiani, si
manteneva vivo con difficoltà, ed alla seconda, o al più nella terza
generazione veniva trascurato. I fanciulli imparavano naturalmente il
linguaggio del popolo; e nelle scuole gli ecclesiastici non insegnavano
che il latino: nè sembra che un orgoglio nazionale si prendesse cura di
conservare nelle famiglie la lingua tedesca, perchè i Tedeschi conobbero
assai tardi il prezzo della propria lingua. Intanto in ragione
dell'importanza maggiore che andavano acquistando i borghesi, le città
crescevano pure in popolazione ed in ricchezze, e la _volgar_ lingua che
si era adottata s'avvantaggiava pure sul latino e sul tedesco, ed
approssimavasi ad essere la lingua nazionale. Di fatti nel secolo
dodicesimo si rese compiutamente dominante, ed in allora incominciò a
formarsi, ad ingentilirsi, ed a prendere regole generali, di modo che
nel secolo susseguente la vedremo finalmente adottata, e resa bella
dagli storici e dai poeti.
In quell'epoca in cui gl'Italiani, forniti di tre idiomi, non ne
possedevano un solo, ed in mezzo all'ignoranza del decimo secolo,
Luitprando compose una storia de' suoi tempi, che ancora al presente
leggesi con interesse e piacere. Quest'opera è quasi il solo documento
letterario dell'Italia settentrionale nel decimo secolo. Si ripassano
con estrema noja le cronache de' suoi coetanei per ritrovare qualche
fatto storico; ci alletta invece l'opera di Luitprando, e si lascia con
rincrescimento. Vero è che non devesene incominciar la lettura subito
dopo quella degli scrittori dell'età d'Augusto, perocchè allora ci
offenderebbe la durezza del suo stile; ma quando si paragona al suo
secolo, ci sorprende il suo stile conciso ed energico, e di quando in
quando qualche profondo pensiere, e più d'ogni altra cosa certa
aggradevole varietà che seppe dare alla sua narrazione. Egli manca di
ordine, e pecca di parzialità, ma pure alletta: provveduto di non
ispregevole erudizione cita a proposito gli autori romani, e
frequentemente fa pompa della sua conoscenza della lingua greca, e non
poche volte con ridicola vanità; si vede che gli era ugualmente
familiare la lingua allemanna; e per ultimo qualunque volta la sua
fantasia viene riscaldata dal soggetto, passa dalla prosa alla poesia,
ed i suoi versi non sono affatto privi di lepore.
Luitprando era canonico di Pavia, e segretario di Berengario II, dal
quale nel 946 fu mandato ambasciatore a Costantinopoli presso Costantino
Porfirogeneta. Ritornato in patria, ebbe qualche motivo di disgusto con
Berengario, e passò in Germania alla corte d'Ottone il grande, che
accompagnò in Italia quando venne a conquistarla. Ebbe dall'imperatore
il vescovado di Cremona, e fu suo ambasciatore a Roma ed a
Costantinopoli. Scrisse una curiosa relazione della sua andata in
quest'ultima città presso l'imperatore Niceforo Foca[413]. Alcuni troppo
liberi racconti che Luitprando innestò nelle sue scritture non ci
permettono di formarci una troppo favorevole idea della gentilezza dei
grandi di que' tempi, e di quella che allora chiamavasi buona compagnia;
soprattutto quando rammentiamo il rango che aveva alla corte e le
funzioni ecclesiastiche di questo storico.
[413] _Rer. Ital. Scrip. t. II, p. 479._
Alcuni scrittori dell'Italia meridionale che fiorirono nel decimo e
nell'undecimo secolo, meritano pure distinta ricordanza. L'anonimo di
Salerno, Gaufrido Malaterra, Alessandro di Telesa e Falco di Benevento
si fanno tutti leggere con interesse. Gli storici dell'attuale regno di
Napoli conservarono per lo spazio di più secoli una notabile superiorità
sul resto dell'Italia; la quale si fa pure sentire quando confrontasi il
poema di Guglielmo il Pugliese intorno alle conquiste de' Normanni cogli
altri poemi storici di cui abbonda quest'età più d'ogn'altra[414]. I
poemi storici d'un secolo barbaro sono i più nojosi e ributtanti
documenti che ci è forza di leggere per pescarvi i fatti storici. Lo
scrittore incapace di porre ne' suoi scritti vera poesia, pare che non
siasi presa la cura di dare un ordine simmetrico alle sue parole, che
per ispogliare d'ogni armonia il suo stile e togliere la libertà ai suoi
pensieri. Giammai dice quello che vorrebbe dire, nè mai soddisfa con
quello che dice: e siccome pare aver presa cura d'escludere i numeri ed
i nomi proprj da' suoi versi, o d'esprimere gli uni e gli altri in un
modo classico, non parla che con enigmi, e fa tanto penare per
intenderlo, quanto è il dispetto che si prova del pochissimo che
s'impara quando si è inteso.
[414] _I principali poemi storici dal X al XII secolo sono: Donizo:
Vita Comitis. Mathildis. t. V, p. 335. — Magister Moses, de Laudibus
Bergomi t. V, p. 521. — Laurent. Verniens. Rer. Pisanar. t. VI, p.
111. — Panegir, Berengarii Augus. apud Leibnitz. t. I. — Guilelmus
Appulus de Gestis Normann. t. V, p. 245. — Cumanus de excidio Novo
Comi t. V, p. 399. — Guntherus in Ligurino. Edit. Basileæ
1569. — Benzo Albensis, Panegyricus Henrici IV apud Menchenium
Scriptorum German. t. I._
Tutti i primi storici dell'Italia erano o prelati o monaci. Soltanto
nell'undecimo secolo alcuni laici cominciarono altresì a scrivere la
storia, quando i progressi dell'agiatezza nelle città diedero
opportunità d'applicarsi agli studj, quando l'influenza che i cittadini
andavano acquistando nel governo dello stato fece loro prendere maggiore
interessamento ai pubblici affari. I due primi storici delle città sono
Arnolfo e Landolfo il vecchio di Milano, che ambedue vissero verso la
metà del secolo XI, quando vi s'agitavano le dispute intorno al
matrimonio dei preti. O sia per conto dell'esattezza, o per l'interesse
della loro narrazione, non meritano troppo onorevole ricordanza; ma la
natura medesima della loro storia è una prova della crescente importanza
delle città, comprendendo i tempi delle prime contese tra la nobiltà ed
il popolo; contese che modificarono la costituzione delle nuove
repubbliche.
Abbiam già parlato nel secondo capitolo della lite de' valvassori, o
gentiluomini coll'arcivescovo Eriberto e la plebe milanese, ed abbiamo
detto che terminò del 1039 all'epoca della morte di Corrado, in forza
delle nuove leggi promulgate da questo imperatore intorno ai feudi. Le
città lombarde approfittarono assai di questa pace, perchè molti
gentiluomini, e specialmente i meno potenti, domandarono ed ottennero la
cittadinanza delle più vicine città, ponendosi essi ed i loro feudi
sotto la protezione di queste recenti comuni, le quali meglio d'ogni
altro membro dello stato sapevano far rispettare i loro amici. I
gentiluomini con tali adozioni acquistaronsi una patria, che il regno
lombardo, nella sua attuale dissoluzione, non poteva loro offrire; ed in
ricompensa le città ebbero distinti cittadini, ne' quali il valore
sembrava ereditario, e che collo splendore della loro nascita, e col
loro desiderio della gloria resero illustri gli altri cittadini divenuti
loro eguali.
Merita d'essere considerata la condotta delle nuove repubbliche verso i
conti _rurali_, ed i gentiluomini del loro territorio. Molti di questi
non avevano voluto seco allearsi, o ricevere il diritto di cittadinanza.
I poderi delle città erano chiusi entro queste piccole sovranità; e
siccome la loro popolazione andava crescendo, se non avessero potuto
liberamente commerciare in campagna coi vassalli del conti _rurali_
sarebbero ben tosto rimasti esposti alla fame. Conveniva perciò che si
guardassero d'indisporre con soverchia alterigia, o troppo alte pretese
i signori, perchè se questi si fossero collegati contro le città, le
avrebbero esposte ai più grandi pericoli, tanto più che per la loro
posizione potevano temporeggiare e tirar la guerra in lungo. Dai loro
castelli piombavano sui viaggiatori ed i mercanti per ispogliarli; o
pure guastavano le diocesi delle città fin presso alle porte, mentre i
borghesi, quantunque più forti, erano dal bisogno richiamati alle loro
giornaliere occupazioni, e non potevano tenersi lungo tempo in campagna.
Non era per anco abbastanza perfezionata l'arte degli assedj perchè
potessero forzare i gentiluomini ne' loro castelli; ed i signori, chiusi
nelle torri fabbricate sopra scoscese rupi e circondati soltanto dalla
loro famiglia, e da un piccolo numero di scudieri al loro soldo,
sfidavano tutta la ferocia delle più potenti armate.
Le repubbliche cercavano perciò di conciliarsi l'affetto dei conti
_rurali_ ammettendoli alla loro cittadinanza, ed affidando loro i
principali impieghi dello stato. Pure qualunque volta i signori
abusavano de' loro vantaggi, ed i cittadini avevano cagione di lagnarsi
delle loro esazioni, la repubblica abbracciava caldamente la causa
d'ogni suo membro, nè deponeva le armi finchè il gentiluomo, che l'aveva
offeso, non fosse umiliato.
Il popolo milanese dividevasi in sei tribù, ognuna delle quali prendeva
il nome da una delle porte della città; e poichè i nobili vennero
ammessi a partecipare dei diritti di cittadinanza, eransi posti
nell'esclusivo possesso dell'ufficio di capitani delle porte, di consoli
e di capi delle milizie. Quei medesimi che pure non erano rivestiti
d'alcun impiego, assicurati della protezione de' magistrati, che tutti
appartenevano alla loro casta, trattarono con insultante arroganza gli
artigiani e le inferiori classi del popolo. Nel 1041 un gentiluomo osò
di bel mezzogiorno bastonare in istrada un plebeo; e la causa di questo
oscuro plebeo diventò all'istante quella di tutto il popolo. Un altro
nobile, chiamato Lanzone, forse popolare per ambizione, s'offerse capo
ai cittadini irritati; e la sua offerta fu ricevuta a piene mani da
coloro che desideravano d'umiliare la nobiltà, orgogliosi d'avere un
nobile alla loro testa: tanta forza ha sullo spirito umano il
pregiudizio favorevole alla nascita! Lanzone fu fatto capo del consiglio
di credenza; nuovi consoli si elessero nella classe de' plebei, e le
milizie sotto i loro ordini attaccarono successivamente le torri e le
fortezze che i gentiluomini avevano alzate entro le mura della città, e
di dove ridevansi del potere de' tribunali: molte di queste fortezze
sostennero un regolare assedio prima d'essere spianate; furonvi nelle
strade molti sanguinosi incontri per difenderle; ma finalmente i nobili
troppo inferiori di forze, e sempre battuti, furono forzati a sortire
assieme dalla città colle loro famiglie, ed a lasciare in mano del
popolo le loro torri e case fortificate, che vennero distrutte lo stesso
giorno[415].
[415] _Arnulph Hist. Mediol. lib. II, c. 18, t., IV, p. 19._
I nobili, circondati dai campagnuoli loro vassalli, trovarono fuori
delle mura il vantaggio del numero, ed intrapresero il blocco della
città che continuarono pel corso di alcuni anni. Lanzone, sempre alla
testa del partito del popolo, risolvette alla fine di portarsi in
Germania per ottenere la protezione di Enrico III. Quel monarca che non
vedeva senza inquietudine rendersi le città indipendenti, accolse con
piacere quest'occasione per ristabilire la propria autorità in Milano.
Offerse perciò a Lanzone quattromila cavalli, e chiese caldamente che
fossero ricevuti in città. Lanzone, tornato a Milano, annunciò questo
soccorso al popolo onde rilevarne il coraggio abbattuto dalla fame; ma
il popolo s'accorse che la vendetta d'una fazione riduceva la sua patria
nell'antica dipendenza. Entrò in trattative coi capi della nobiltà, e
facendo loro sentire il comune pericolo, li ridusse finalmente a segnare
una pace che loro lasciava una parte del governo della città senza
escluderne affatto il popolo[416].
[416] _Landulph Sen. Hist. Med. l. II, c. 26, p. 86._
Dopo questa guerra fino a quella di Como, che formerà l'argomento del
susseguente capitolo, ci si presenta un vuoto nella storia delle
repubbliche lombarde e di tutte le città dell'alta Italia. È questo uno
spazio di settant'anni, ne' quali questa infelice contrada fu il teatro
delle più strane rivoluzioni e delle più accanite guerre; duranti le
quali tutti gli scrittori contemporanei non fanno verun cenno intorno
allo stato politico delle città. La guerra delle investiture e delle
vicende degl'imperatori e dei papi venne ampiamente descritta, ma da
autori quasi tutti tedeschi. Questi grandi avvenimenti fissavano soli la
loro attenzione, e mancando a quest'epoca le città di storici, ci è
forza di raccogliere con avidità la sterile e faticosa narrazione del
giovane Landolfo[417], scrittore milanese, gli è vero e contemporaneo,
ma che invece di scrivere la storia della sua patria, ne dà quelle delle
vessazioni da lui sofferte pel godimento d'un miserabile beneficio,
delle dispute cogli eretici nicolaiti e de' fastidiosi intrighi del
clero milanese. I nostri lettori ci sapranno buon grado d'aver
abbandonata così nojosa guida, per trasportarli d'un salto fino al
secolo XII, ad un tempo in cui gli autori contemporanei incominciando ad
essere meno sterili, potremo noi medesimi scrivere la storia, invece
d'essere costretti a scorrerla sommariamente.
[417] _Landulph. Jun. sive de Sancto Paulo Hist. Med. t. V. Rer.
Ital._
Ma prima di procedere più avanti fermiamoci un istante ad osservare lo
spazio già percorso. La rivoluzione creatrice di nuove nazioni e di
uomini nuovi era compiuta. Come la terra, riscaldata dopo il diluvio dai
raggi del sole, s'agitava per un ignoto principio di vita fino nelle
profonde sue viscere[418]: così gl'Italiani posti in movimento, ed
animati dai primi successi, sorgevano dall'inerzia; e l'intera nazione,
lasciata l'antica rozzezza, s'ingentiliva col commercio, colle arti,
colle liberali istituzioni d'ogni maniera e con una forma di governo più
conforme al presente suo stato. Perduti in mezzo ad un ammasso di fatti
troppo imperfettamente conosciuti, abbiam forse lasciato sfuggire quello
spirito intollerante d'ogni freno che animava la massa della
popolazione, quando ogni marchese, ogni prelato, facendosi giudice del
proprio principe, pesava al tribunale della propria coscienza i diritti
dell'Impero e della Chiesa, e si determinava per il partito de' papi o
de' Cesari; quando ogni gentiluomo, ogni cavaliere, disprezzando una
subalterna esistenza, cercava nelle sue fortezze, ne' suoi vassalli, nel
proprio coraggio una sicurezza di cui si sdegnava di andar debitore ai
superiori o alle leggi: quando ogni città, fidata alle sole sue forze,
al reciproco sussidio, bastava a sè medesima, e sfidava il rimanente
dell'universo. Pareva che una mano invisibile, una mano benefica avesse
sparsi nello stesso tempo in tutti i cuori i sentimenti della dignità
dell'uomo e della sua naturale indipendenza. Nè questi semi erano sparsi
sulla sola Italia, ma su tutta l'Europa: i principj liberali avanzavansi
lentamente bensì, ma con moto uniforme dal mezzogiorno al settentrione.
L'Italia e la Spagna ne diedero l'esempio, e le seguirono ben tosto la
Svizzera, la Germania, la Francia e l'Inghilterra.
[418]
_Cætera diversis tellus animalia formis_
_Sponte sua peperit, postquam vetus humor ab igne_
_Percaluit solis, cœnumque undæque paludes_
_Intumuere æstu, fœcundaque semina rerum_
_Vivaci nutrita solo, ceu matris in alvo_
_Creverunt, faciemque aliquam cepere morando._
Ovid. Metam. l. I. v. 416.
Le prime istituzioni liberali furono portate dal Nord ai tralignati
Romani. Questo movimento retrogrado dal Mezzogiorno al Nord nello
sviluppo del sistema repubblicano è un fenomeno costante ed assai
notabile. Abbiamo veduto in Italia, Napoli, Gaeta, Amalfi, e la stessa
Roma, precedere tutte le altre città; nella Spagna fino dal secolo nono,
i valorosi guerrieri, che fondarono il regno di Soprarbia, avevano
stabilito tra il re ed il popolo un giudice intermedio, il primo modello
del giustiziere degli Aragonesi[419]; e nel 1115 Alfonso I, il
conquistatore di Saragozza, aveva accordato ai borghesi della sua
capitale i diritti e la libertà dei gentiluomini, ossia
_infançone_[420]. Le città della Svizzera e della Germania non
incominciarono a conoscere la libertà che negli ultimi anni del
dodicesimo secolo; e quelle della Francia e dell'Inghilterra
acquistarono ancora più tardi i diritti di comunità.
[419] _Hieronym. Blancœ Aragon. Rer. t. III. Hisp. Illust. p. 588._
[420] _Ibid. Privilegium Reg. Alfonsi Bellatoris p. 640._
La forza individuale e la forza sociale devono precedere le altre
qualità necessarie all'acquisto della libertà. Queste due qualità hanno
una diversa origine, anzi sembrano derivare da opposti principj;
pochissime nazioni furono abbastanza fortunate per possederle
equilibrate. La forza individuale, quella confidenza nei proprj mezzi,
quella costanza che fa disprezzare i pericoli personali, e la forza
straniera quando è ingiusta; quella determinazione di non seguire che i
dettami della propria coscienza e de' proprj lumi, sono qualità e virtù
del selvaggio. Con questa gli abitanti della Germania e della
Scandinavia si stabilirono ne' paesi meridionali; recarono seco
l'indipendenza; e quando costituirono nazioni, non seppero mai ridursi a
dar loro legami abbastanza forti per tenerli uniti. I loro stessi
principj dovevano naturalmente produrre gli effetti che produssero, la
libera fierezza di tutti i cavalieri, ma in pari tempo la disunione
loro, e l'opinione de' conquistatori, che per essere liberi era d'uopo
essere principi.
Per l'opposto la forza sociale non poteva nascere che nelle città, e le
città che sono l'opera de' popoli civilizzati non esistevano che ne'
paesi meridionali. Credendo gli Scandinavi che non potessero gli uomini
vivere riuniti senza diventare schiavi, facevansi un dovere di
distruggere le città; e quelle che diedero in Italia l'esempio di quella
forza sociale, di cui i barbari non ne conoscevano l'esistenza, eransi
quasi prodigiosamente sottratte alle loro devastazioni, o s'erano
rialzate dalle proprie ruine.
La forza sociale è riposta nel totale sacrificio dell'individuo alla
società di cui è membro. Quest'abrogazione di sè medesimo, è fondata,
non v'ha dubbio, sul pieno convincimento che il bene comune è quello
degl'individui; ma il solo calcolo non condurrà mai il cittadino
all'intero sacrificio che da lui domanda la patria: invano gli si
dimostrerà che mille volte l'utile della patria è stato anco il suo;
nell'istante del suo pericolo personale l'utile patrio cessa d'influire
sulla sua prosperità. V'ebbe dunque nell'unione sociale alcun più nobile
motivo d'un contratto tra i privati interessi: è la virtù, non
l'egoismo, che riunisce l'uomo alla patria: è la riconoscenza de'
ricevuti beneficj che ci lega agli amici, ai fratelli; la filiale e
religiosa riverenza che ci lega alla patria, a quell'essere sovrumano
che la nostra imaginazione pone tra Dio e gli uomini; la tendenza
dell'anima all'immortalità che associa la nostra esistenza ai secoli
passati, ed ai secoli futuri, e ci costituisce depositarj della gloria
dei nostri antenati e dalla prosperità dei nostri discendenti.
I popoli settentrionali non conoscevano che una libertà senza patria;
mentre quelli del Mezzogiorno avevano una patria senza libertà. Gli uni
e gli altri dovevano rimanere stranieri alla più alta virtù umana, al
sacrificio di sè medesimo: i primi non dovevano tale sacrificio a veruna
persona: i secondi non possedevano tanta virtù per farlo. L'eroismo
degli Scandinavi e quello degli eroi di Ossian era di uno strano
carattere, perchè non aveva alcuno scopo: il guerriero affrontava la
morte, senza sacrificarsi nè alla patria, nè alla memoria de' suoi
padri, nè alla prosperità de' suoi figli[421]; la sua gloria era tutta
personale. Al Mezzodì per lo contrario si conobbe lo scopo dei sacrificj
prima che si avesse il coraggio di sacrificarsi: ogni cittadino sentiva
ciò che doveva alla città natale, alla città in cui riposavano le ceneri
de' suoi antenati, le di cui mura proteggerebbero la sua posterità. Così
nella grande mescolanza delle nazioni il Settentrione ed il Mezzodì
offrirono le virtù rispettive. I popoli conquistatori l'energia, i
conquistati la sociabilità. Dovevano gli ultimi, caduti nell'estrema
corruzione, essere rigenerati prima d'essere ammessi a dare alcun
esempio, ad insegnare alcuna virtù. Intanto l'affetto loro per i luoghi
che gli avevano veduti nascere, per il nome che portavano, per i
compagni, i di cui padri erano stati associati ai loro padri, coi di cui
figliuoli sarebbero associati i loro figliuoli, quest'affetto era
un'antica eredità di Roma; e non mancava loro che la libertà per
sentirne di nuovo tutto il prezzo. In mezzo alle calamità che
affliggevano i popoli d'Italia, tutti gli avvenimenti osservati a certa
distanza, parvero diretti allo stesso scopo, e preparar quel periodo di
gloria e di libertà che doveva aprirsi agl'Italiani nel dodicesimo
secolo.
[421] L'esistenza della repubblica d'Islanda dal IX al XIII secolo
s'oppone a quest'osservazione sull'origine dello spirito sociale
nelle sole città. Io non conosco abbastanza la storia delle
repubbliche d'Islanda per dare una sufficiente contezza della loro
esistenza. Si può non per tanto comprendere che sotto un cielo di
ferro, in un clima tanto nemico, gl'individui sono troppo deboli per
non unirsi subito in società; che quantunque sianvi state in Islanda
poche città, le calde sorgenti delle radici dell'Ecla ed i porti più
proprj alla navigazione ed alla pesca, dovevano essere punti di
riunione ove gli uomini imparavano tosto ad amarsi ed a trattarsi
come fratelli.
La conquista dei Lombardi, trinciando l'Italia, e formando d'una sola
provincia molte nuove nazioni, avvicinò la patria al cittadino; il
Romano s'unì al Romano, il Greco al Greco, e diversi stati indipendenti
da Napoli fino a Venezia acquistarono di quest'epoca la loro libertà.
Le conquiste di Carlo Magno, ed il regno de' suoi successori ritardarono
la civiltà; ma distruggendo la monarchia lombarda, ed accrescendone la
disorganizzazione, i Carlovingi resero più necessaria una nuova
organizzazione, e fecero le città lombarde partecipi dei vantaggi che le
buone istituzioni municipali procuravano da lungo tempo a Napoli, Amalfi
e Venezia.
I guasti degli Ungari e de' Saraceni, e la desolazione che sparsero in
tutte le province, resero necessaria l'istituzione delle milizie,
l'innalzamento delle mura, ed il popolo nuovamente depositario della
forza nazionale.
Prima che la distrutta monarchia facesse luogo ai governi municipali,
l'anarchia era generale. Il grande Ottone scese dall'Allemagna in Italia
per essere il legislatore d'una nazione, di cui avrebbe dovuto essere
soltanto il padrone; e le nuove istituzioni da lui proclamate attestano
la sua saggezza ed il suo perfetto disinteressamento.
Nè i disordini dei papi del X secolo, nè l'ambiziose mire di quelli
dell'XI riuscirono inutili agl'Italiani; i primi rallentarono le catene
della superstizione di que' tempi; i secondi colla sanguinosa lite
sostenuta contro l'impero, diedero opportunità al popolo di far valere i
suoi servigi, dichiarandosi per coloro che già furono suoi padroni, non
come suddito, ma come zelante alleato.
E per tal modo nel piano generale della provvidenza di cui non è
permesso all'uomo di comprendere l'economia, nasce spesse volte il bene
dal male, e le disgrazie pubbliche possono essere forriere d'una[422]
riforma universale. Non disperiamo dunque giammai dei principj e delle
virtù che formano la nobile eredità dell'umana specie; e quand'ancora le
vedessimo poste in dimenticanza, o furiosamente attaccate, confidiamo
nel lento lavoro de' secoli, persuasi che l'eterne verità sopravvivendo
ai loro nemici, rinasceranno nel cuore dell'uomo quand'anche non
restasse sulla faccia della terra verun monumento per attestare l'antica
loro esistenza, ed il culto che fu loro reso.
[422] Qui l'autore con molta dignità accenna quelle rivoluzioni dei
governi, che sono il necessario effetto dell'allontanamento loro
dalla rispettiva istituzione. Ammessi con Aristotele tre sole
qualità di governi, il monarchico, quello degli ottimati ed il
democratico, le nazioni non passano giammai dall'uno all'altro di
salto, ma bensì provando i mali che accompagnano il corrompimento
loro, o la rispettiva sconvenienza al paese ed ai costumi.
Perciocchè come una sterile e ristretta regione verrebbe esposta ad
insopportabili aggravj se dovesse provvedere allo splendore di regia
corte; così in ampio e fertile territorio e tra il lusso e la
disuguaglianza infinita delle ricchezze de' privati mal può provare
la frugalità repubblicana.

FINE DEL TOMO I.


TAVOLA CRONOLOGICA DEL TOMO I.

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