Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 10

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pontefici. Questo partito era quasi sempre dominante a Milano ed in
Lombardia; ed era potente anche in Roma, ove un uomo assai ricco ne
aveva presa la difesa. Questo capo era Pietro Leone, il quale,
quantunque giudeo d'origine, erasi acquistato un immenso credito nella
capitale del cristianesimo[207]. Egli ottenne di far entrare in Roma
l'antipapa Cadolao, che prese il nome d'Onorio II. Cadolao riportò una
vittoria sulle truppe del legittimo papa, e si stabilì nel vaticano; ma
ne fu presto scacciato dalle forze del duca di Toscana[208].
[207] Pietro Leone non ottenne per altro nè la confidenza
dell'imperatore, nè quella d'Onorio II. Il vescovo scismatico Benzo
lo aveva dipinto come un furbo. _Benzoni Episc. Albensis Panegir.
Hen. III. Im. lib. II. c. 4. et 8. p. 985. 987 apud Menchen. Scrip.
Germ. t. I._
[208] _Benzo Paneg. lib. II. p. 982 ec. — Vita Alexandri II ex Card.
Arrag. t. III. p. I. p. 302. — Vita ejusdem pont. ex Amalrico Augerio
p. II. p. 356._
Quando Ildebrando, che prese il nome di Gregorio VII, fu l'anno 1073
elevato sulla cattedra di s. Pietro, terminava appunto la minorità
d'Enrico. Questo principe, giunto oltre i vent'anni, aveva un'anima
troppo altiera, ed era troppo valoroso per piegarsi sotto vergognose
condizioni; onde posto da banda ogni riguardo per i pontefici che lo
esacerbavano con reiterati insulti e soverchierie, prese fin d'allora la
risoluzione di esporsi alle usurpazioni colla forza. Facevano alquanto
torto al nobile e generoso suo carattere l'essersi senza alcun ritegno
abbandonato alle giovanili passioni, ed il disprezzo per tutte le cose
religiose che gli aveva inspirato l'ambiziosa furberia del clero. I papi
ed i loro partigiani approfittarono di tali difetti per rappresentarlo
come un empio; pure vedremo, non già Enrico, ma papa Gregorio deturpare
la propria causa colla più ributtante durezza.
La superstizione suole ingrandire i lontani oggetti. Il cieco
attaccamento dei fedeli verso la Chiesa romana era in ragione contraria
della loro lontananza da Roma: i fulmini del Vaticano facevano tremare i
Tedeschi, ai quali pareva meritevole d'eterna censura qualunque veniva
condannato dal papa[209]: ed era precisamente tra la nazione
dell'imperatore, ed in seno alla sua famiglia, che i preti ottenevano
facilmente di abbatter il potere imperiale. Ma mentre i papi trovavano
nella corte imperiale ambiziosi seguaci e creduli fanatici, gl'Italiani,
mal sofferendo di vedere il capo dello stato sottoposto a vergognoso
giogo, abbracciavano le sue parti con tanto ardore, che lo avrebbero
fatto trionfare de' suoi rivali, se fossero loro mancati gli ajuti della
contessa Matilde, eroina de' mezzi tempi, che alla cieca superstizione
del suo sesso univa il coraggio, il vigore e la costanza del nostro; ed
appunto allora aggiungeva all'immensa eredità de' marchesi di Toscana
quella della famiglia di Canossa. Goffredo di Lorena marchese di Toscana
moriva del 1070, e sei anni dopo lo seguiva la consorte Beatrice, che
lasciava questa sola figlia del primo letto signora del più vasto e
potente feudo, che fino a tale epoca esistesse in Italia[210].
[209] Al nostro segretario Fiorentino dobbiamo questa verissima
osservazione energicamente sviluppata nelle sue storie. Accadeva ai
papi ciò che vediamo accadere a chiunque per dignità o per merito
trovasi elevato a somma riputazione; i lontani ne conoscono soltanto
le virtù, i vicini le virtù ed i vizj. N. d. T.
[210] Il sig. Fiorentini detto Lucchese scrisse con prodigiosa
erudizione la vita della contessa Matilde. Abbiamo pure una vita in
prosa di un anonimo, ed un'altra in versi di Donizzone suo suddito e
cappellano di Canossa, ambedue suoi contemporanei, le quali trovansi
nel tomo V. _Scrip. Rer. Ital._, e nel tomo I. _Script. Brunsvic.
Leibnitrii._
Unico scopo di tutte le azioni di Matilde fu l'elevazione della santa
sede, cui consacrò tutte le sue forze finchè visse, e lasciò morendo
tutto quanto possedeva. Ebbe due mariti, il giovane Goffredo di Lorena,
e Guelfo di Baviera; ma l'ambizione, o il fanatismo occupando
interamente il suo cuore, abbandonò due sposi che non credeva abbastanza
attaccati alla santa sede, e si consacrò interamente alla difesa dei
papi[211].
[211] Matilde era nata da Bonifacio e Beatrice l'anno 1046 e morì
nel 1115.
(1076) Enrico IV irritato dalla durezza di Gregorio VII tentò di deporlo
nella dieta di Worms, mentre Gregorio deponeva Enrico nel concilio di
Roma: ma questi, abbandonato da suoi vassalli di Germania, che volevano
dare la sua corona a Rodolfo di Svevia, e che gli facevano un'arrabbiata
guerra[212], fu costretto di venire in Italia a chiedere perdono a
quello stesso orgoglioso pontefice che aveva di fresco offeso. La
sentenza di scomunica restava sospesa sul di lui capo fino alla seconda
festa di quaresima del 1077, prima della quale eragli ingiunto di
recarsi a Roma. Nel cuore dell'inverno traversò Enrico le pericolose
foci delle Alpi le meno praticate, perchè le strade più agevoli erano
occupate dai suoi nemici; e giunto in Italia, era costretto d'implorare
presso il pontefice il favore di Matilde. Trovavasi allora Gregorio con
questa principessa nel forte castello di Canossa, posto in vicinanza di
Reggio, di dove preparavasi a passare in Germania. Oltre quello della
principessa Matilde, erasi l'imperatore procurato l'appoggio del
marchese d'Este, dell'abbate di Clugnì, e de' più principali signori e
prelati d'Italia. «Il papa resistette lungo tempo, dice Lamberto
d'Aschaffemburgo storico contemporaneo, ma vinto alfine dalle
importunità e dal rango di coloro che gliene facevano istanza: _E bene,
diss'egli, se veramente è pentito di quanto ha fatto, deponga nelle mie
mani la sua corona, e le insegne della dignità reale, onde darmi così
una prova del suo vero pentimento; e dichiari poi, che in conseguenza
della contumacia di cui si è reso colpevole, si conosce indegno della
dignità e del titolo di re_. I deputati trovando tali condizioni troppo
dure, insistevano presso al papa perchè le addolcisse, e non spezzasse
la canna. Cedeva a stento Gregorio alle loro istanze, acconsentendo che
Enrico s'avvicinasse a lui, e facesse penitenza per riparazione
dell'affronto fatto alla santa sede col disubbidire ai suoi decreti.
Venne Enrico, secondo gli era dal papa ordinato, e come il castello era
circondato da triplici mura, fu ammesso nel secondo recinto, rimanendo
tutto il suo seguito fuori del primo. Enrico, deposti gli abiti reali,
non aveva più nulla che lo mostrasse principe, verun indizio del
consueto fasto: colà rimanevasi coi piedi ignudi, e senza cibo dal
mattino fino a sera, aspettando invano la sentenza del pontefice. Così
fece il secondo ed il terzo giorno, e finalmente fu introdotto il quarto
in presenza di tutti, e dopo lunghe discussioni fu assoluto dalla
scomunica a condizione per altro di presentarsi ad ogni richiesta del
papa innanzi ad un'assemblea dei principi di Germania per giustificarsi
intorno alle accuse fattegli: che il papa sarebbe giudice, per lasciare
ad Enrico il regno, ove provasse la sua innocenza, o per ispogliarnelo
in caso contrario, e punirlo secondo il rigore delle leggi
ecclesiastiche..... Che fino a tale epoca non gli erano vietate
l'insegne della reale dignità e l'amministrazione de' pubblici
affari[213].»
[212] _Lambertus Schafnaburgensis de rebus gestis a German. p. 403.
apud Struvium Scriptorum Germanicorum, t. I._
[213] _Lambertus Schafnab. de Rebus German. p. 420._
Per tal modo con un insigne tradimento, dopo averlo assoggettato ad una
durissima penitenza, solo, mezzo ignudo, esposto all'eccessivo freddo
sopra un terreno coperto di nevi nel cuore dell'inverno[214]; invece di
assolverlo dopo così umiliante sommissione, lo sottoponeva ad un altro
tribunale, di cui Enrico non aveva ammessa la competenza, onde venisse
rigorosamente giudicato.
[214] Riporterò intorno a questo avvenimento i versi di Donizzone,
cappellano di Canossa, il quale fu probabilmente testimonio
dell'avvilimento d'Enrico. Sarà questo in pari tempo un saggio della
sua barbara poesia. _Vita Com. Mathil. l. II. c. I. p. 366._
_. . . . . . . . . . . . Frigus_
_Per nimium magnum Janus dabat hoc in anno._
_Ante dies septem quam finem Janus haberet,_
_Ante suam faciem concessit papa venire_
_Regem, cum plantis nudis a frigore captis_
_In cruce se jactans, saepissime clamans_
_Parce beate pater, pie parce mihi peto plane._
Tanto Lamberto, che Donizzone erano partigiani del papa, e nemici
d'Enrico, onde chiudono tale racconto con invettive contro l'ultimo
per avere violate le condizioni che gli erano state imposte.
I popoli lombardi ed i vescovi italiani, quasi tutti in guerra col papa,
non dissimularono il concepito sdegno sia per l'inumano proceder di
Gregorio, sia per la vile sommissione d'Enrico. Ma questi, uscito appena
di Canossa, si disponeva con tutti i mezzi a vendicare l'avvilito onor
suo. La sorte delle armi si dichiarò a suo favore. Tornato in Germania
attaccò Rodolfo di Svevia, e lo sconfisse più volte. Perdeva questi la
vita in una battaglia datagli nel 1080[215], nel giorno medesimo in cui
i Lombardi che stavano per Enrico, trionfano della contessa Matilde alla
Volta nel Mantovano.
[215] _Sigeberti Gemblacensis Cronog. p. 843._
Gregorio aveva formato il piano del dispotismo ecclesiastico, e ne aveva
proclamati i principj. Gli annali ecclesiastici conservarono la raccolta
di queste massime intitolata _dictatus papae_. Fa sorpresa il vedere con
quale audacia la tirannia teocratica ardisce levarsi la maschera. «Non
v'ha al mondo che un solo nome, quello del papa; egli solo può impiegare
gli ornamenti imperiali, e tutti i principi devono baciare i suoi piedi;
egli solo ha l'autorità di nominare e deporre i vescovi, convocare,
presedere, e sciogliere i concilj. Non v'è chi possa giudicarlo; la sola
elezione lo costituisce santo. Egli non ha errato mai, ne può errare in
avvenire. Egli può a sua voglia deporre i principi, e sciogliere i
sudditi del giuramento di fedeltà, ec.[216]»
[216] _Baronius Annal. ad an. 1076. § 24._
Gregorio non visse abbastanza per vedere maturati i suoi ambiziosi
progetti. Enrico tornato in Italia del 1081 opponeva a Gregorio
l'antipapa Guiberto arcivescovo di Ravenna, che facevasi chiamare
Clemente III. Nell'anno 1084, dopo averla più volte assediata, Enrico si
rese padrone di Roma, e vi fece consacrare il suo papa, da cui riceveva
poscia la corona imperiale. Mentre Gregorio si stava nella mole Adriana,
ed i romani eransi collegati con Enrico per assediare il loro papa,
Roberto Guiscardo capo di que' Normanni, di cui parleremo nel
susseguente capitolo, avanzandosi alla volta di Roma con una
considerabile armata, dopo aver costretto l'imperatore a ritirarsi,
bruciò la città da s. Giovanni Laterano fino al Coliseo, e fece schiavi
un infinito numero di cittadini. Dopo questo saccheggio, l'antica città
rimase quasi affatto deserta, essendosi la popolazione concentrata al di
là del campidoglio in quella parte che altra volta formava il campo di
Marte[217]. Roma fu in preda a tutti i mali che un nemico barbaro suol
cagionare ad una città presa d'assalto, e Guiscardo condusse seco,
partendo, il papa, il quale morì prigioniero in Salerno in maggio del
1085, dopo avere ripetuti i suoi anatemi, e le sue imprecazioni contro
Enrico contro l'antipapa Guiberto e contro i loro principali
aderenti[218]; ma dopo avere altresì colla sua alterigia e durezza di
carattere disgustati quasi tutti i vescovi d'Italia; obbligati gli
stessi romani, che gli erano lungo tempo rimasti fedeli, a prender
l'armi contro di lui; e finalmente dopo essere stato principalissima
cagione della rovina di quella maravigliosa città, di cui era pastore e
quasi sovrano.
[217] _Vita Greg. VII. ex Card. Arrag. p. 313. — Landulphus Senior l.
IV. c. 3. p. 120. — Gaufridus Malaterra Hist. Sicula l. III. c. 37.
tom. V. Rer. Ital. p. 587._
[218] _Pauli Bernriedens. vit. Greg. VII. c. 110. p. 348._
Vittore III, Urbano, Pasquale e Gelasio II, succeduti nel papato a
Gregorio VII, avevano adottate le sue massime. Matilde dal canto suo
dispiegava una tal quale grandezza d'animo, ch'era figlia della cieca
sua superstizione. Del 1092, Enrico cogli ajuti dell'antipapa rovinava
nel Modonese i possedimenti di Matilde, e ne andava indebolendo il
partito in modo, che i teologi della duchessa, avviliti da tante
disgrazie, la consigliavano nella dieta di Carpineto di prendere
consiglio dalle circostanze presenti, e di riconciliarsi
coll'imperatore: perchè Matilde ordinando loro di tacere, io morirò,
disse, anzi che trattare di pace con un eretico[219].
[219] _Donizzo Vita comitissae Matil. l. II. c. 7. p. 371._
(1093) Nel susseguente anno riuscì ad Urbano II di far ribellare ad
Enrico il maggior figliuolo Corrado, e la Chiesa[220] applaudì con
feroce piacere alla ribellione ed alle infami calunnie che Corrado, per
giustificare la propria condotta, andava pubblicando in pregiudizio
della gloria paterna[221]. Corrado fu riconosciuto dal papa re d'Italia;
ed in Monza ricevette la corona di Lombardia. Dopo otto anni di guerre
civili morì Corrado disprezzato da que' medesimi che lo avevano istigato
alla ribellione, ed avevano saputo approfittarne. È però vero che la
ribellione di Corrado giovò a stabilire l'equilibrio tra le due nemiche
fazioni.
[220] Ciò è detto assai impropriamente, confondendo la Chiesa col
papa e colla sua corte. N. d. T.
[221] _Dodechini appendix ad Marianun Scotum apud Struvium Scrip.
Germ. t. I. p. 661. — Sigeberti Gembl. Chronog. p. 848._
Nella stessa epoca il fanatismo religioso eccitava un assai più grande
incendio. Urbano II (1095), quello stesso pontefice che protesse un
figlio ribelle, predicò la crociata nei Concilj di Piacenza e di
Clermont; e scosse in modo tutta l'Europa, che le popolazioni
occidentali attraversavano a guisa di torrenti l'Italia per recarsi in
Oriente[222]. I crocesegnati, risguardandosi come soldati della Chiesa,
non potevano soffrire che venisse opposta veruna resistenza al papa;
onde ristabilirono sulle rovine della potenza imperiale quella della
santa sede. Enrico non si trovò abbastanza forte per resistere a questo
torrente, e del 1097 si ritirò in Germania.
[222] L'armata de' crociati che attraversò l'Italia era capitanata
da Ugo fratello del re di Francia, da Roberto di Fiandra, da Roberto
di Normandia, e da Eustachio di Bologna. Cacciò di Roma l'antipapa
Guiberto, togliendogli, ad eccezione di castel s. Angelo, tutte le
fortezze.
Dopo tal epoca, ad altro omai non pensò Enrico che a rendere la pace
alla Chiesa ed all'impero. Benchè inseguito dalle scomuniche papali,
mostrò di non curarsi delle ingiurie de' pontefici; anzi pareva
inclinato a spogliarsi della corona in favore del figliuolo Enrico V,
sperando che più facilmente potessero trattar d'accordo due antagonisti
non ancora esacerbati da lunga discordia[223]. L'inesecuzione di tale
progetto offese l'ambizione del giovane principe, il quale riscaldato
dagli emissarj di Pasquale II, che, valendosi dell'ardente suo desiderio
di regno, seppero rappresentargli la fellonìa che stava per commettere,
come un'azione santa e gloriosa, si fece ribelle. Narrando questi
tragici avvenimenti mi atterrò all'autorità del Sigonio istorico
affezionato alla santa sede[224].
[223] _Annal. Hildeshemens. apud Leibn. p. 733. — Dodech. append. p.
666. — Sigeberti Gemb. Chr. p. 854._
[224] Il Sigonio non è uno scrittore contemporaneo; e perciò la sua
penna non è ligia alle passioni di un secolo di guerre civili.
Altronde egli si appoggia alla testimonianza di più antichi autori,
quali sono _Ottone di Frisinga l. VII. c. 8. 12. p. 113. all'ab.
Uspergense nel Cronico p. 243, all'anonimo scrittore della vita di
Enrico IV. ec._
(1106) Doveva il giorno di Natale del 1106 riunirsi in Magonza la dieta,
la quale, per esservisi condotti tutti i fautori del giovane Enrico, fu
più numerosa assai delle precedenti. Il giovane Enrico consigliò il re
suo padre a non porsi in balìa di persone di dubbia fede; onde
l'imperatore che sinceri credeva i consigli dello sleale figliuolo, si
ritirò nel castello d'Ingelheim. Colà gli si presentarono un giorno gli
arcivescovi di Magonza, di Colonia e di Worms, intimandogli, a nome
della dieta, di mandare le decorazioni imperiali, la corona, l'anello ed
il manto di porpora, onde rivestirne il di lui figliuolo. E perchè
l'imperatore chiedeva il motivo della sua deposizione, gli rispondevano
aspramente essere ciò accaduto per avere tanti anni travagliata la
Chiesa con una odiosa contesa, perchè vendette i vescovadi, le abbazie e
tutte le dignità ecclesiastiche; perchè non ubbidì alle leggi
nell'elezione de' vescovi. Ecco, soggiungevano, i motivi che
determinarono il sommo pontefice ed i principi di Germania non solo a
privarvi della comunione dei fedeli, ma ancora del trono.
«Ma voi, replicò l'imperatore, voi arcivescovi di Magonza e di Colonia,
che mi accusate d'avere vendute le dignità ecclesiastiche, dite almeno
quanto esigessi da voi allorchè vi diedi quelle chiese, le più ricche e
potenti del mio impero: e perchè, se forzati siete di confessare ch'io
nulla vi chiesi, perchè v'associate ai miei accusatori, quasi non
sapeste che in ciò che vi risguarda ho esattamente eseguito il mio
dovere? Perchè v'unite voi pure a coloro che hanno mancato alla data
fede ed ai giuramenti fatti al loro principe? perchè vi fate loro capi?
Pazientate ancora pochi giorni, che l'età ed i sofferti affanni mi
mostrano non lontano il naturale termine di mia vita; o se pure volete
ad ogni modo togliermi il regno, fissate un giorno in cui mi toglierò di
mia mano la corona di capo per porla su quello di mio figliuolo.»
Gli arcivescovi gli fecero comprendere di essere disposti a dare anche
colla forza esecuzione agli ordini della dieta, onde Enrico ritirossi; e
consigliatosi coi pochi amici che gli rimanevano ancora, vedendosi
circondato da gente armata cui non avrebbe potuto resistere, si fece
recare le insegne reali ed il manto; indi, salito sul trono, fece
chiamare gli arcivescovi.
«Eccole, disse loro, quelle insegne della real dignità, che la bontà del
re dei secoli, ed i pieni suffragi dei principi dello stato mi
accordarono. Non farò uso della forza per difenderle, che non previdi un
domestico tradimento, nè pensai a prevenirlo. Il cielo mi diede grazia
di non supporre tanto furore ne' miei amici, nè tanta scelleratezza nei
miei figliuoli. Pure, con l'ajuto di Dio, il vostro pudore difenderà
forse la mia corona, o se pure non vi tocca il timore di quel Dio che
difende i re, ne vi cale della perdita dell'onor vostro, soffrirò dalle
vostre mani una violenza da cui non posso difendermi.»
Ai deputati, resi incerti da tale discorso, perchè mai esitate, gridò il
vescovo di Magonza, non è di nostra spettanza il consacrare i re e
vestirli della porpora? Perchè non sarà da noi spogliato quello che per
una «pessima scelta fu da noi vestito?» A tali parole, avventandosi
contro Enrico, i deputati gli tolsero la corona di capo, e forzandolo a
scendere dal trono, lo spogliarono della porpora, e degli ornamenti
reali. Intanto Enrico gridò ad alta voce: «Sia Iddio testimonio del
vostro procedere. Egli mi castiga per i peccati della mia gioventù,
facendomi soffrire un'ignominia che altro re non sofferse giammai. Ma
voi che osaste portar le mani sul vostro sovrano, voi che violaste il
giuramento che vi voleva a me fedeli, voi pure non isfuggirete alla sua
collera: Iddio vi punirà come ha punito l'Apostolo che tradì il suo
maestro.»
Ma gli arcivescovi, disprezzando le sue minacce, si recarono presso il
giovine Enrico per consacrarlo; mentre l'imperatore chiudevasi in
Lovanio, ove s'affollavano intorno a lui gli antichi amici,
promettendogli il loro soccorso. Formarono infatti una potente armata, e
ben tosto si trovarono a fronte in aperta campagna il padre ed il
figlio, e nel primo fatto rimase questi perdente, e costretto a fuggire.
Non tardò per altro a riunire le sue truppe e condurle a nuova
battaglia, nella quale il padre compiutamente battuto, rimase
prigioniero de' suoi nemici che lo caricarono d'oltraggi[225].
[225] Appartiene senza dubbio a quest'epoca l'abboccamento tra il
padre ed il figlio, di cui il vecchio Enrico informò Filippo I re di
Francia con una lettera del 1106. «Appena lo vidi, gli scrive,
commosso nel più intimo del mio cuore da dolore e da paterno
affetto, mi gettai a' suoi piedi supplicandolo, scongiurandolo in
nome di Dio, della sua fede, dell'anima sua, a non macchiare in
questa occasione, quand'anche co' miei peccati mi sia meritati i
divini castighi, la sua coscienza ed il suo onore; imperciocchè
veruna legge umana o divina costituisce il figliuolo vindice dei
delitti del padre.......» Nella medesima lettera gli parla della
sofferta prigionia. «Lasciando da un canto gli obbrobrj, le
ingiurie, le minacce, le scuri pronte a cadermi sul capo, se non
facevo quanto mi era comandato, la fame e la sete ch'io soffersi per
opera di tali ch'erami ingiurioso di vedere e d'ascoltare; per non
dire ciò che ancora più doloroso riesce, che altra volta fui felice
ec. .....» Questa commovente lettera ci fu conservata da Sigeberto
Gemblacense presso Struvio _t. I. p. 856_.
Fu l'infelice monarca in così misero stato ridotto, che venne a Spira
nel tempio da lui eretto alla Vergine, chiedendo al vescovo di quella
città gli alimenti, soggiungendo ch'era ancora capace delle funzioni di
chierico, sapendo leggere e scrivere: e perchè gli venne rifiutata così
umile inchiesta, si volse alle persone presenti, dicendo loro: «Voi
almeno, o miei amici, abbiate pietà di me; vedete la mano di Dio che mi
castiga.» Di là a poco tempo dovette il giorno 7 degl'Idi d'agosto
succumbere alla profonda afflizione che lacerava il suo cuore. Il suo
cadavere rimase cinque anni insepolto nella chiesa di Liegi, perchè il
papa aveva vietato di seppellirlo in luogo sacro[226].
[226] _Sigon. De Reg. Ital. l. IX._
Sentiamo una specie di compiacenza nel vedere il vecchio ed infelice
Enrico vendicato da' suoi medesimi nemici. Il feroce Pasquale fu tradito
e perseguitato dal medesimo principe ch'egli aveva stimolato a
ribellarsi al padre; e questo figlio snaturato d'un padre che lo amava,
umiliato da quella Chiesa per la quale aveva combattuto contro suo
padre.
(1110) Enrico V non potè avanti il 1110 venire in Italia a ricevervi
dalle mani del papa la corona imperiale. Soddisfatta la brama di
occupare prima del tempo la paterna eredità, non era soddisfatta la sua
ambizione se non la possedeva tutta intera. Il diritto delle investiture
veniva con ragione risguardato siccome una delle principali prerogative
della corona, ed Enrico non era disposto di rinunciarvi a verun patto.
Avvicinandosi a Roma, stipulò ai confini della Toscana con Pietro Leone,
uno de' più potenti signori di Roma, una convenzione, che poi rinnovò a
Sutri, tendente ad assicurare la pace tra la Chiesa e l'impero. Convien
dire che considerabili fossero le forze d'Enrico, e che Pasquale benchè
collegato coi Normanni si trovasse ancor assai debole, poichè serviva di
base al trattato una larga concessione del papa a favor
dell'imperatore[227]. Lo stesso Enrico ne dava parte con sua lettera ai
fedeli in tale maniera:
«Il signor Pasquale voleva, senza ascoltarci, privare il regno delle
investiture dei vescovi che noi possediamo, e che nel corso di quattro
secoli possedettero i nostri predecessori, fino dai tempi di Carlo
Magno, sotto sessantatre diversi pontefici, in virtù e coll'autorità dei
privilegi. E perchè noi gli chiedevamo per mezzo dei nostri deputati
qual cosa allora rimarrebbe al re, avendo i nostri predecessori donate
alle chiese quasi tutte le nostre proprietà, rispondeva che gli
ecclesiastici sarebbero contenti delle decime e delle offerte, e che
potrebbe ripigliarsi e conservare per se e suoi successori le terre e
diritti signorili donati alle chiese da Carlo, da Luigi, da Ottone, da
Enrico. A ciò facevamo rispondere che non volevamo renderci colpevoli di
tanta violenza e di tale sacrilegio verso le chiese; ma il papa assicurò
e promise con giuramento che riprenderebbe di propria autorità tutti i
beni alle chiese per rimetterceli legalmente in forza della sua piena
autorità. Allora i nostri deputati dichiararono che s'egli dava
esecuzione alle sue promesse, che pure non ignorava egli medesimo di non
poter mantenere, noi gli avremmo accordate le investiture delle
chiese.... Frattanto per dare a conoscere che di nostra spontanea
volontà non arrechiamo alcun danno alle chiese del Signore, facciamo
sotto gli occhi, ed all'udito di tutti, pubblicare a comune intelligenza
il presente decreto.» Il giorno 12 febbrajo del 1111 il papa e
l'imperatore recaronsi nella basilica Vaticana per eseguirvi
l'incoronazione in presenza di tutto il popolo. «Noi, per la grazia di
Dio, Enrico imperatore augusto de' Romani, doniamo a s. Pietro, a tutti
i vescovi ed abbati, ed a tutte le chiese, quanto i nostri predecessori,
re o imperatori concedettero, diedero, offrirono sperando un eterno
premio. Quantunque peccatore mi guarderò bene, per timore del terribile
giudizio, di sottrarre tali doni alle chiese.» — «Dopo aver letto e
sottoscritto questo decreto invitai il signore papa a dar esecuzione, a
quanto aveva promesso colla carta delle nostre convenzioni, ma mentre
persistevo in tale domanda, tutti i figliuoli della Chiesa, vescovi ed
abbati, tanto suoi che nostri, gli si opposero tutti con fermezza in
faccia, dicendo ad alta voce, che il decreto dal papa promesso (ci si
permetta di dirlo senza offesa della Chiesa) era eretico; ond'egli non
osò proferirlo.»
[227] Le prime convenzioni fatte con Pietro Leone vengono riportate
dal Baronio all'anno 1110. § 2, e quelle di Sutri all'anno 1111. §
2; ma per ben intenderle convien leggere _Petrus Diacon. Contin.
Chronici Cassin. l. IV. c. 35. p. 513._ e le lettere d'Enrico V.
presso Dodechin. _Ap. p. 668._, ed abbreviate in _Sigibertus Gemlac.
Chronog. p. 861._
E per tal modo, mentre Pasquale intimava ad Enrico di rinunciare al
diritto d'investitura, faceva che il suo clero non gli permettesse di
rilasciargli i diritti signorili posseduti dalla Chiesa. Tale contesa
diede luogo ad un violento tumulto che impediva la cerimonia
dell'incoronazione; perlochè Enrico adirato fece sostenere il papa e la
maggior parte degli ecclesiastici che lo accompagnavano, dandogli in
guardia al patriarca d'Aquilea[228]. Ma al cardinale di Tuscolo ed al
vescovo d'Ostia riuscì di fuggire inosservati in mezzo al tumulto, e
rientrarono travestiti in Roma, eccitando i cittadini a prendere le armi
per liberare il capo della Chiesa. La mattina susseguente, appena fatto
giorno, le milizie romane uscirono impetuosamente dalla città, ed
assalirono i Tedeschi che occupavano la città Leonina, ossia il
quartiere del Vaticano in Transtevere. Lo stesso Enrico trovossi in
grave pericolo di perdere la vita, e la sua armata sarebbe stata
interamente disfatta, se i Romani non avessero lasciata imperfetta la
vittoria per ispogliare i fuggiaschi. Enrico approfittando di tanto
errore, riunito un corpo di Tedeschi e di Lombardi, caricò le milizie
romane, e le spinse parte nel Tevere, parte sforzò a salvarsi in estremo
disordine entro le mura della città. Ad ogni modo non credette di
cimentarsi, con un'armata troppo debole, a nuovi insulti, rimanendo in
una città nemica; e si ritirò sollecitamente nell'alta Sabina, seco
conducendo il papa prigioniere[229], il quale rimase due mesi rinchiuso
con sei cardinali nella fortezza di Tribucco. Altri cardinali furono
rinserrati in altro castello, e tutti duramente trattati, onde disporli
ad accettare una convenzione che ponesse fine alla lite.
[228] _Chron. Monast. Cassin. l. IV. c. 38. p. 517. — Pandulp. Pisani
vita Paschalis II. p. 357. — Vita Pascalis II ex Cardin. Arragonio p.
361._
[229] _Chron. Cassin. l. IV. c. 39. p. 517._
Non isperando altronde soccorso, ed oppresso dai patimenti proprj e da
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