Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 12

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proprio coraggio e dalle mura: ma queste furono ben tosto scosse dal
montone in modo, che una larga breccia apriva la città agli assedianti;
per cui i Napoletani disperati conobbero la difficoltà di difendersi più
a lungo. Avvicinavasi la notte apportatrice del massacro, del saccheggio
e di tutti gli orrori cui si danno in preda le città occupate d'assalto.
Il loro duca Stefano aveva una madre e due figli degni di più felice
repubblica: questi si presentano a lui pregandolo, come capo della
famiglia e dello stato, a mostrarsi il padre de' loro concittadini, anzi
che il loro, sacrificandoli al ben pubblico. Una deputazione, mandata al
duca di Benevento, gli espone che la città trovatasi ormai in sua balìa;
che s'egli la risparmia, sarà la miglior gemma della sua corona; che se
per l'opposto le dà un nuovo assalto in sul cadere del giorno, egli non
potrà nè contenere i suoi soldati, ne salvar Napoli dal massacro, dal
saccheggio e dall'incendio che gli assediati provocheranno con una
disperata difesa: gli rappresenta la sua gloria medesima interessata ad
aspettare che il sole rischiari il suo trionfo; lo prega di risparmiare
tanti infelici che non domandano per arrendersi che il brevissimo spazio
d'una notte; e come pegno della vicina loro sommissione, gli viene
presentato tutto quanto il duca Stefano aveva di più caro, la madre ed i
due figli. Sicone riceve gli ostaggi, e fa suonare la ritirata,
aspettando d'entrare in città allo spuntare del giorno[256].
[255] _Johan. Diaconi Chron. Epis. Neapol. Ecclesiae, t. I. p. II.
p. 313._
[256] _Erchemp. Mon. Cassin. Hist. Longob. Ben. c. 10. p.
239. — Giannone Istoria civile del Regno di Napoli, l. VI. c. 6. p.
517._
Frattanto Stefano riunisce a parlamento i suoi soldati e concittadini.
«Io non sono più maestro dei soldati, dice loro; ho perduto questo
glorioso titolo nell'istante in cui ho acconsentito di sottomettere la
vostra patria al giogo de' Beneventani. Voi siete liberi, sceglietevi un
capo il quale più di me fortunato rialzi le mura e vi conduca alla
vittoria.» Stefano dopo questo discorso sortì da Napoli, offrendo il suo
capo alla vendetta del nemico. Egli fu ucciso dai soldati di Sicone
innanzi alla chiesa di santa Stefania[257].
[257] _Johan. Diac. Chr. Episc. Neap. p. 313._
I Napoletani, attenendosi ai suoi consigli, avevano dato il titolo di
maestro dei soldati ad un loro capitano, chiamato Bon, il quale ordinò
subito che le donne, i fanciulli ed i vecchi, unendosi ai soldati
travagliassero con ardore tutta notte a rialzare le mura, ed a cuoprirle
di larga fossa. Fu ubbidito, ed allorchè, fatto giorno, Sicone
presentossi alla testa dello sue truppe, conobbe l'impossibilità
d'occupare la breccia d'assalto.
I Napoletani, abbandonati dai Greci, avevano in tanto pericolo chiesto
soccorso a Luigi il buono, imperatore d'Occidente, che loro spediva
alcuni rinforzi, che arrivarono opportunamente per sostenere ancora un
lungo assedio; e quando Sicone incominciava a scoraggiarsi, chiesero di
entrare in trattati di pace, che da lui ottennero a condizione di
pagargli un tributo, e cedergli il corpo di s. Gennaro, il quale fu
levato dalla basilica di Napoli, e con solenne pompa trasferito a
Benevento[258].
[258] _Anon. Salern. Frag. apud Camil. Pelleg. p. 290. — Leo Ost.
Chron. Cassin. Lib. c. 20. p. 294._
Poc'anni dopo, anche Sorrento, una delle principali città del ducato di
Napoli, fu, per quanto assicura una leggenda, liberato per
l'intercessione del santo suo patrono da formidabile assedio. Ma,
convien confessarlo, l'espediente adoperato dal celeste patrono fu assai
meno nobile e generoso di quello del duca cittadino. A suo padre Sicone
era succeduto nel principato di Benevento Sicardo, il quale, o perchè i
Napoletani si rifiutassero dal pagare il pattuito tributo, o che il suo
umore inquieto lo determinasse alla guerra, fatto è che invase e devastò
le terre del ducato di Napoli, riunendo infine le sue truppe avanti
Sorrento, che ridusse alle ultime estremità. Una notte, mentre pensava
al modo di occupare l'assediata città, gli apparì l'ombra di s.
Antonino, un tempo abbate di Sorrento. Il sant'uomo teneva la mano un
nodoso bastone, con cui percosse cinque o sei volte le larghe spalle del
duca, soggiungendo con terribile voce: «Soffri il debito castigo de'
tormenti che tu procuri al mio gregge, e ti sottometti, incredulo, al
poter del cielo e de' suoi santi.» Allora rialzava di nuovo il bastone,
disposto a ricominciare; ma Sicardo, prostrandosi ai piedi dell'ombra
veramente rispettabile, giurò di non molestar più oltre i suoi fedeli.
Nè mancò alla promessa, perchè in sul far del giorno si affrettò di
ritirarsi colla sua armata[259]. Qualunque siasi la credenza che si vuol
accordare a tale leggenda, certo è intanto che nell'836 Sicardo stipulò
un trattato di pace col vescovo, col maestro de' soldati e collo stato
di Napoli, che vien chiamato in quell'atto repubblica, all'opposto dei
paesi di dominio lombardo intitolati stati del principe[260].
[259] _Acta Sanct. apud Bollandistas in vita sancti Antonini abbatis
Surrentini ad diem 14 febbr. — Muratori Annali d'Italia an. 837._
[260] Veggasi presso il Pellegrini questo trattato sotto il titolo:
_Capitulare Principis Sicardi. t. II. p. 256._
Per ridurre Sicardo a trattar di pace, Andrea, maestro dei soldati di
Napoli, s'appigliò ad un partito assai pericoloso, il di cui esempio
riuscì funesto a tutta l'Italia meridionale. Privo dell'appoggio
degl'imperatori d'Oriente, si rivolse ai barbari, chiamando in suo
soccorso i Saraceni di Sicilia[261], che da pochi anni avevano in
quell'isola fondata una colonia militare. Un Greco, chiamato Eufemio,
perseguitato dal patrizio di Sicilia per aver rapita una religiosa, di
cui erasi perdutamente innamorato, si rifugiò in Affrica, ove indicò ai
Saraceni i mezzi d'impadronirsi della Sicilia. Di fatti era ritornato in
Sicilia dell'828 con un'armata di Saraceni, che ne aveva intrapresa la
conquista[262]. E per coraggio e per talenti militari erano a
quest'epoca i Saraceni di lunga mano superiori ai Greci, ai quali
avevano già tolta quasi tutta l'Asia, l'Egitto e l'Affrica, ed alcun
tempo dopo l'isola di Creta, ed altre isole dell'Arcipelago. Avevano in
oltre conquistata la Spagna sui Visigoti; e quello spirito religioso e
militare che incominciava a raffreddarsi nell'Arabia e nella Siria,
infiammava sempre i Musulmani alle frontiere del loro impero, e li
spingeva a nuove imprese. Da che i Saraceni ebbero posto piede in
Sicilia, acquistarono un'assoluta preponderanza sulle truppe
dell'imperatore Michele che allora regnava a Costantinopoli, e su quella
di Teofilo, suo figlio e successore. Dell'831 fu ucciso in battaglia il
patrizio Teodoto, e presa dagli Arabi Messina, i quali nel susseguente
anno, impadronitisi di Palermo, incominciarono ad infestare colle loro
piraterie le coste d'Italia: pure, finchè visse Sicardo, non venne lor
fatto di occupare veruna terra nelle sue province.
[261] _Johan. diac. Chron. Epis. Neapol. p. 314._
[262] _Georgii Cedreni Hist. Comp. t. VIII. Byz. Ven. p. 403. — Anon.
Salern. Paralipom. c. 45. p. 208._
Sicardo ci viene rappresentato qual uomo che a molta bravura accoppiò
moltissimi vizj che lo resero odioso a' suoi sudditi. Egli fu il primo
de' principi lombardi, che obbligò la città d'Amalfi a riconoscerlo suo
signore. Solo motivo della guerra tra i Lombardi e gli Amalfitani furono
le reliquie di santa Trifomene, patrona d'Amalfi. Benchè le
dissolutezze, la crudeltà, i sacrilegi di Sicardo potessero
difficilmente associarsi a tanto zelo religioso, egli cercava ad ogni
modo di radunar reliquie per ornare la cattedrale di Benevento, e come
aveva già costretti i Napoletani a cedergli quelle di s. Gennaro, e
rubate quelle di s. Bartolomeo alle isole di Lipari, così mosse guerra
agli Amalfitani per quelle di s. Trifomene. La piccola repubblica
d'Amalfi, ancora dipendente da Napoli, era allora divisa da fazioni che
l'avevano in modo snervata, da non poter opporsi vigorosamente alle armi
di Sicardo; il quale, essendosene impadronito, dopo avere spogliato il
santuario delle casse che formavano l'argomento de' suoi ambiziosi
desiderj, forzò tutti gli abitanti a seguirlo a Salerno, dove volendoli
stabilmente unire al suo popolo, fece che contraessero matrimonio co'
suoi sudditi, e gli ammise a partecipare di tutti i diritti de'
Lombardi[263].
[263] _Anon. Salern. Paralip. c. 58. — 60. p. 217. — Chron. Amalph.
Frag. ap. Murat. Antiqu. Ital Med. Aevi. t. I. c. 2. et 4. p. 208._
Intanto Sicardo erasi reso co' suoi sacrilegj odioso al clero; alla
nobiltà, da prima colla galanteria, poscia coll'insopportabile alterigia
della moglie; a tutto il popolo, colle sanguinose esecuzioni.
Ingelositosi di Siconolfo suo fratello (839), lo aveva chiuso in una
prigione a Taranto: onde ridotto a non avere presso di sè che segreti
nemici, fu ucciso alla caccia presso di Benevento; e quegli abitanti
destinarongli successore Redalchiso suo tesoriere[264].
[264] _Anon. Salern. Paralip. c. 62. p. 219. — Erchempertus Monac. c.
13. p. 240._
Quando la notizia della morte di Sicardo giunse a Salerno, gli abitanti
d'Amalfi, che trovavansi quasi soli in città, perchè i Salernitani
facevano allora il raccolto, corsero al porto, e caricando i vascelli
delle spoglie delle chiese e delle case, per compensarsi del saccheggio
sofferto poc'anni prima, tornarono trionfanti all'antica loro patria, e
ne rialzarono all'istante le mura. Da quest'epoca gli Amalfitani si
emanciparono affatto dalla supremazia del maestro de' soldati di Napoli,
ed incominciarono a governarsi come repubblica indipendente[265].
[265] _Anon. Saler. Paralip. c. 63. et 64. p. 221._
Dal canto loro i Salernitani rifiutaronsi di riconoscere per loro
principe Radelchiso eletto dai Beneventani; e riconciliatisi cogli
abitanti d'Amalfi, condonarono loro la fresca ingiuria, a condizione che
gli aiutassero colle loro navi a liberare il legittimo erede del
principato, Siconolfo fratello dell'estinto Sicardo, che sapevano
custodito in prigione a Taranto.
Alcuni vascelli mercantili equipaggiati dai cittadini di Salerno e
d'Amalfi fecero vela alla volta di Taranto. I mercanti si sparsero la
sera per le strade di questa città, chiedendo ad alta voce, come
costumavasi a que' tempi, ospitalità; ed alcuni di loro, siccome
avevanlo sperato, furono ricevuti dai carcerieri di Siconolfo. «Noi
abbiamo una camera ben disposta, dissero costoro; alloggiate presso di
noi, e se domani vorrete donarci alcuna cosa, ve ne saremo grati.»
Questa è press'a poco l'usanza con cui in quelle province s'alloggiano
anche ai dì nostri i viaggiatori. I Salernitani incaricarono i loro
ospiti di provveder vino ed altre cose; e gl'incoraggiarono poi a darsi
buon tempo; ma quando li videro ubbriachi e in preda ad un profondo
sonno, liberato subito Siconolfo, lo condussero a Salerno sulla loro
flotta[266].
[266] _Anon. Salern. Paralip. c. 63. et 64. p. 221._
La simultanea elezione di due principi, Radelchiso a Benevento, e
Siconolfo a Salerno, diede origine a lunghe guerre civili, a divisione,
a debolezza, e finalmente, dopo due secoli, alla total rovina della
nazione lombarda nel mezzogiorno d'Italia. I Saraceni, venuti di Sicilia
in soccorso di Radelchisio, incominciarono dall'occupare, a danno del
loro alleato, la città di Bari. Siconolfo, autorizzato dall'esempio del
suo nemico, chiamò di Spagna altri Saraceni della setta degli Aglabiti e
nemici de' Saraceni affricani; i quali, secondo la più probabile
opinione, s'impadronirono di Taranto e saccheggiarono le Calabrie[267].
[267] _Erchemperti Chron. c. 17. p. 241._
Questi sconsigliati principi si fecero una guerra tanto più crudele, in
quanto che le loro armate composte essendo di Lombardi e di Musulmani,
questi rovinavano le campagne e saccheggiavano le città, senza che i
sovrani che gli avevano assoldati osassero di metter freno alla feroce
loro barbarie; come non ottennero verun vantaggio dal loro ajuto
nell'andamento della guerra. Era in allora duca di Spoleti il vecchio
Guido, d'origine francese, e secondo le costumanze della sua nazione
chiamato Erchemperto, il quale ajutando prima Siconolfo, poi Radelchiso,
s'arricchì a danno de' due principi, cui vendette la sterile sua
protezione[268]. Finalmente l'anno 851 colla mediazione di Guido, e
sotto la protezione dell'imperatore Luigi II fu diviso tra i due
competitori il ducato di Benevento. Taranto, Cosenza, Capoa, Sora coi
loro territorj, e la metà del contado d'Acerenza; ossia tutte le
province dell'attuale regno di Napoli poste sul mediterraneo, tranne i
ducati di Napoli e di Gaeta, furono ceduti al principe di Salerno: ebbe
quello di Benevento l'altra metà del principato, cioè il rimanente del
regno di Napoli verso l'Adriatico. Il confine dei due stati venne
fissato ad ugual distanza tra Benevento e Salerno, e Benevento e Capoa.
In conseguenza di questo trattato s'obbligarono i due principi a
scacciare di concerto i Saraceni dai loro stati[269].
[268] _Erchemper. Mon. Cassin. c. 17. p. 241. — Anon. Salern.
Paralip. c. 67. p. 223._
[269] _Capitulare Radelchisi Princ. Benev. de divisione Princip.
apud Camil. Pelleg. t. II. p. 260._
Ma così poco sopravvissero ambedue a questo trattato, che non ebbero
tempo di riparare i danni cagionati ai popoli dalla guerra civile. I
Lombardi che, nel ducato di Benevento, eransi, come in Pavia, riservato
il diritto di eleggere i loro sovrani, non permisero che la sovranità si
perpetuasse nelle famiglie di Radelchisio e di Siconolfo, ed i
principati s'andarono indebolendo con nuove divisioni. Landolfo, conte
di Capoa, si rese indipendente, ed il suo esempio fu imitato da molti
altri conti; di modo che i principi lombardi, ridotti al dominio d'una
sola città, ed indeboliti dalle piccole guerre e dai piccoli intrighi,
si ridussero a così oscura condizione, da cui difficilmente e con
pochissimo vantaggio si richiamerebbero in vita.
Nè le repubbliche greche sfuggirono alle calamità che la discordia de'
principi lombardi procurò all'Italia meridionale. Una colonia militare
di Saraceni si stabilì presso alla foce del Garigliano in una fertile
pianura, che ancora a' nostri giorni par che conservi le impronte della
barbarie musulmana; mentre altri Saraceni si resero padroni di Cuma,
colonia Greca fondata dagli Eubei, e la più occidentale città del ducato
di Napoli. Il soggiorno de' Saraceni in così illustre città la ridusse
in pessimo stato, e due secoli dopo venne interamente distrutta quando
ne furono scacciati. I Saraceni eransi pur resi padroni di Acropoli, o
capo della Licosa e di Misene. Dell'846 assediarono ancora Gaeta; ma i
cittadini di Napoli, d'Amalfi e di Sorrento riunitisi sotto Andrea,
maestro de' soldati, o console di Napoli, e di Cesario suo figliuolo,
costrinsero gli Affricani a levar l'assedio[270]. La flotta di Gaeta
rinforzò allora quelle delle altre repubbliche greche, e si presentò
innanzi ad Ostia per soccorrere contro gli stessi nemici papa Leone
IV[271].
[270] _Johan. diac. Chron. Epis. Neap. p. 315._
[271] _Vita Leon. p. IV. apud Anast. bibl. p. 237._
Le repubbliche greche della Campania erano i soli stati cristiani che
avessero una marina sul mediterraneo. Le loro flotte da guerra e
mercantili difendevano ugualmente il territorio ed accrescevano ogni
anno le ricchezze di Napoli, di Gaeta, d'Amalfi. Quest'ultima, dopo
ricuperata la libertà sotto il regno di Siconolfo, andava crescendo in
popolazione ed in ricchezze, impadronendosi a poco a poco del commercio
d'Oriente. Gli Amalfitani credevansi discesi da una colonia romana;
dicevano che i loro antenati, mandati dal gran Costantino a Bisanzio,
erano naufragati a Ragusi, e rimasti lungo tempo nell'Illirico; che in
appresso attraversato l'Adriatico, e stabilitisi a Melfi nella Puglia,
vi soggiornarono parecchi anni; che finalmente, abbandonata questa
provincia, per cercar un paese in cui, avessero intera libertà,
fabbricarono una città sul Golfo di Salerno, cui diedero il nome
dell'ultima loro stazione[272]. Era il loro piccolo stato formato di
quindici in sedici villaggi e castelli posti intorno alla capitale sul
pendio delle montagne che chiudono dalla banda d'Occidente il golfo di
Salerno. Alcuni, trovandosi rinserrati tra il mare e le rupi, danno
opportunità agli abitanti di occuparsi della pesca e del commercio; ma
altri vedonsi come sospesi a metà della china del monte che signoreggia
il mare, quasi nascosti dagli oliveti che coprono tutto questo
distretto. I dorati rami degli aranci che fanno corona alle bianche
abitazioni, richiamano i lontani sguardi dei passeggieri, che ammirano
le case de' ricchi ed industri proprietarj; mentre dall'altro lato di
questo magnifico golfo i maestosi avanzi de' templi di Pesto s'innalzano
solitarj in mezzo ad un deserto e desolato piano, che da oltre due mila
anni non fu più visitato dalla libertà.
[272] _Anon. Saler. Paralip. p. 73 — 75. p. 228. — Chron. Amalph.
Frag. c. 1. p. 207. Antiqu. Ital. tom. I._
Prima della conquista di Sicardo, gli Amalfitani ricevevano il loro
governatore dal duca, console o maestro dei soldati di Napoli: ma poichè
nell'839 si posero in libertà, si sottomisero ad un magistrato annuale
eletto dai suffragj del popolo, che chiamarono prima prefetto, poi
conte, maestro de' soldati, o duca[273]. Sotto questi capi la repubblica
d'Amalfi coprì il mare di navi, sparse in tutto l'Oriente le sue monete
conosciute col nome di _tari_[274], acquistò fama di saviezza, di
coraggio, di virtù; e diede all'Europa tre leggi ben degne di
perpetuarne la memoria. Flavio Gisia o Gioja, cittadino d'Amalfi,
inventò la bussola; in Amalfi si trovò l'esemplare delle Pandette, che
fece rinascere in tutto l'Occidente lo studio e la pratica della
giurisprudenza di Giustiniano; finalmente le leggi d'Amalfi intorno al
commercio servirono di commentario al diritto delle genti, e furono la
base della giurisprudenza commerciale e marittima. Le leggi d'Amalfi
ottennero nel mediterraneo quell'opinione, che negli antichi tempi
eransi acquistata ne' mari medesimi quelle di Rodi, e che due secoli
dopo fu accordata nell'Oceano a quelle d'Oleron[275].
[273] _Anon. Salern. Paralip. c. 76. p. 130. — Chron. Amalph. c. 8.
p. 209._
[274] Il tari che vale due grani, o un _quinto_ più del _carlino_,
trovasi ancora, almeno come moneta di conto, usato nel regno di
Napoli dopo i tempi della repubblica Amalfitana.
[275] _Freccia de Subfeudatione. Presso Giannone storia civile del
Regno di Napoli, l. VII. c. 3._
Ecco quanto fra le tenebre della storia ci fu dato di raccogliere
intorno all'origine ed ai progressi delle repubbliche greche dell'Italia
meridionale. Tre secoli più tardi le vedremo invase dai Normanni, e
cancellate dal numero delle nazioni; di modo che con poche cose che ci
rimangono a dire intorno a questa seconda epoca, sarà compiuta la storia
della loro lunga esistenza. Della loro popolazione, delle ricchezze,
dell'estensione del commercio non abbiamo che poche ed incerte memorie.
I sepolcri che racchiudono le ceneri de' generosi cittadini d'Amalfi, di
Napoli, di Gaeta, avvolgono nelle loro tenebre ancora la rimembranza
delle loro imprese e delle loro virtù. E quel nobile amore di libertà
che gl'infiammava, e quella patria cui tutto sacrificavano, e quelle
leggi dettate dalla sapienza, i duchi, i magistrati di cui ne temevano
le usurpazioni, i nemici che li circondavano, e contro i quali
combattevano con tanta gloria, tutto è perito. Tante generose imprese
loro ispirate dall'amor della gloria, tanti richiami alla posterità
imparziale, le avversità sostenute con eroico coraggio, sperando che le
future generazioni vendicherebbero le ingiurie de' contemporanei; tante
belle speranze tornarono vane, e la razza degli eroi si spense, senza
che l'ingrata posterità abbia mai soddisfatto a ciò che loro doveva.
Gl'infelici Lombardi crudelmente maltrattati dai Saraceni chiamarono
l'anno 866 a Benevento Luigi II imperatore e re d'Italia. Gli ultimi
possedevano in tutte le parti d'Italia diverse montagne di cui avevano
afforzati i passaggi, castella ed anche città di dove facevano frequenti
sortite per saccheggiare i paesi cristiani. Luigi II attaccò
successivamente le fortezze degli Arabi, s'impadronì di Matera, di
Venosa, di Canossa, ed intraprese l'assedio di Bari, la miglior piazza
che i Saraceni possedessero sul golfo Adriatico; ma conoscendo di non
poterla occupare senza l'ajuto d'una flotta, si alleò coll'imperator
greco Basilio, il quale aveva allora liberata Ragusi e le altre città
dell'Illirico dalla incursione de' Saraceni medesimi[276]. Bari dovette
succumbere alle forze riunite dei due imperatori: per la qual cosa i
Greci riacquistarono ancora qualche influenza sull'Italia meridionale,
la quale si rese maggiore poichè Lodovico disgustò i Lombardi che
l'avevano chiamato in loro soccorso. Il principe di Salerno arrestò per
sorpresa l'imperatore d'Occidente, e lo tenne alcun tempo prigioniero
nel suo palazzo; per la qual mortale ingiuria, dovendo il principe di
Salerno temere i risentimenti di Luigi II, quand'anche un trattato di
pace gliene assicurasse il perdono, si gettò fra le braccia di Basilio,
e gli giurò fedeltà per assicurarsi della sua protezione.
[276] _Const. Porphirog. de Basil. Maced. t. XVI. p. 132._
La rovina della famiglia di Carlo Magno, ed i burrascosi regni di
Berengario, di Ugo, di Berengario II, nell'Italia settentrionale, pel
corso quasi d'un secolo, agevolarono ai Greci le conquiste che fecero
nella provincia ch'essi chiamavano Lombardia, perchè rimasta assai più
tempo delle altre in potere de' Lombardi. L'impero d'Oriente riparò
talvolta le sue perdite, non perchè acquistasse maggior vigore, ma
perchè sopravvisse al decadimento dei popoli nemici[277]. I Lombardi, i
Franchi, i Saraceni, che tutti ebbero impero in queste province, erano
affatto tralignati. Resi orgogliosi dalle passate prosperità, si
abbandonarono al lusso ed alla mollezza; oltre che i loro dominj,
trovandosi divisi in piccoli principati, non potevano resistere nè meno
ad un debole nemico, quali erano i Greci. Questi s'impadronirono di
quasi tutte le città e fortezze che i Saraceni avevano nella Puglia, ed
in tal modo formarono il loro nuovo _Thême_ di Lombardia[278]. I
principi lombardi trovandosi alle frontiere dei due imperi d'Oriente e
d'Occidente, attaccavansi a vicenda or all'uno, or all'altro; e secondo
che lo richiedevano le private loro viste, trasferivano il loro
vassallaggio ed il giuramento dal successore di Carlo Magno al
successore di Costantino.
[277] È appunto in questo modo che i sudditi ribelli della Porta ed
i suoi nemici ricadono sotto il giogo della medesima, aspettando
essa pazientemente che le loro forze si diminuiscano. Di là ebbe
origine il proverbio turco, _che con un carro tirato dai buoi il
gran signore piglia le lepri alla corsa_.
[278] Questo è il nome che nella nuova divisione dell'impero
d'Oriente diedero i Greci alle province. Eranvene diciassette in
Asia, e dodici in Europa. _Const. Porph. de Themat. ap. Banduri Imp.
Orient. t. I._
Ma poichè le corone d'Italia e dell'impero passarono nella casa di
Sassonia, gli Ottoni si posero in dovere di difendere o di ricuperare le
antiche province dell'impero d'Occidente; di fare che i principi
lombardi riconoscessero la loro signoria, e di scacciare dall'Italia i
Greci ed i Saraceni. Lunga fu la guerra che Ottone I sostenne in Italia
contro Niceforo Foca, terminata soltanto del 970, quando Niceforo fu
assassinato. Il suo successore Giovanni Zimisco ambì l'alleanza
d'Ottone, ed un matrimonio unì le due famiglie imperiali[279].
[279] Ottone II sposò Teofania figlia dell'imperatore romano
Lecapeno, predecessore di Foca, e sorella di Costantino e Basilio,
che succedettero a Zimisco.
Ottone II mise in campo le pretensioni paterne sulla sovranità
dell'Italia meridionale, cui gli dava un nuovo diritto il suo matrimonio
con Teofania: chiedeva agl'imperatori d'Oriente per dote della consorte
le province della Lucania e della Calabria, e l'alta signoria sopra le
repubbliche di Venezia[280], di Napoli, di Gaeta, d'Amalfi, che
nascondevano la loro indipendenza sotto il velo d'una pretesa fedeltà
verso l'impero d'Oriente.
[280] Non è a dubitarsi che in sul finire del decimo secolo non si
fosse Venezia totalmente emancipata dall'impero greco; tanto più che
aveva gente e ricchezze per difendersi da sè medesima contro le
potenze settentrionali, non esclusi gl'imperiali. N. d. T.
Gl'imperatori Costantino e Basilio, dopo avere inutilmente cercato di
allontanare il turbine che minacciava i loro dominj d'Italia, chiesero
ajuto ai Saraceni di Sicilia e d'Affrica. Intanto Ottone entrava in
Italia (980) con una potente armata, resa più forte dall'alleanza di
Pandolfo testa di ferro, che possedeva quasi tutto il ducato di
Benevento qual era anticamente. Occupata dell'892 la città di Taranto,
Ottone avanzavasi nella Calabria ulteriore fino alla borgata di
Basentello posta in riva al mare. Era colà aspettato dall'armata
combinata greca e saracena. Al primo vigoroso attacco de' Tedeschi, gli
Orientali si disordinarono; ma una colonna di Saraceni, che formava la
riserva, piombò sui vincitori nell'istante che questi, inseguendo il
nemico, avevan rotte le loro linee, e ne fece un miserabile massacro.
Pandolfo testa di ferro, e parecchi altri conti e prelati guerrieri,
perdettero la vita in quest'incontro.
Già l'armata d'Ottone era interamente distrutta, nè v'era più alcun
corpo che sostenesse l'impeto de' nemici; e l'imperatore medesimo
fuggiva lungo la spiaggia temendo d'essere preso dai Saraceni e
massacrato. Una galera greca erasi ancorata su quella riva, onde
l'imperatore preferì di darsi nelle mani di nemici inciviliti, piuttosto
che rimanere vittima d'un'orda di barbari. Si fece conoscere al capitano
della galera, ed a lui s'arrendette, cercando asilo a bordo della nave.
Non tardò Ottone ad avvedersi che quest'ufficiale subalterno, sorpreso
da tanta fortuna, sagrificherebbe i vantaggi del suo paese al proprio;
perchè gli offerse immense somme d'oro qualora volesse condurlo a
Rossano, ov'era chiusa l'imperatrice Adelaide sua madre. La galera fece
tosto vela verso Rossano, essendosi conchiuso un segreto trattato tra il
capitano, Ottone, e l'imperatrice; per cui quando giunsero in faccia a
quella città, varj muli assai carichi furono condotti verso la riva.
Alcune guardie imperiali comandate da Teodoro, vescovo di Metz,
s'avvicinarono in una barca alla galera per accertarsi se il personaggio
coperto di porpora, che loro mostravasi sul banco era veramente Ottone;
e mentre i Greci distratti dalle trattative, ed avvezzi a non veder
camminare i loro imperatori senza appoggiarsi agli eunuchi, non si
prendevan cura del prigioniere, Ottone slanciossi in mare, e guadagnata
a nuoto la barca delle sue guardie, fece voltar bordo, e prendendo
anch'egli un remo, giunse in porto avanti che la galera potesse
raggiungerlo. Il Greco stordito vide ritornare in città dietro
all'imperatore i muli ch'eransi fatti sortire per ingannarlo, e dovette
allontanarsi dalla rada di Rossano senza poter vendicarsi
dell'inganno[281].
[281] _Ditmar. Restit. apud Leibn. t. I. l. III. p. 346. — Herm.
Cont. Chron. p. 267. Scrip. Germ. apud Struv. t. I. — Arnulph, Hist.
med. l. I. c. 9. t. IV. Rer. Ital. p. 10._
Benchè i Greci si lasciassero uscir di mano così importante preda, non
perdettero però i frutti di tanta vittoria. Durante il regno d'Ottone
II, e la minorità di suo figliuolo, dilatarono in Italia i confini del
loro impero[282], e stabilirono in Bari un governatore col titolo di
Catapane[283]. In pari tempo fabbricarono in Puglia la città di Troja, e
molti castelli, onde rimaner coperti da nuovi attacchi. Non perchè
tranquillamente abbiano potuto intraprendere e condurre a termine tali
opere, doveva credersi che Ottone fosse disposto a lasciar loro il
pacifico possesso de' paesi conquistati. Egli aveva convocata a Verona
una dieta degli stati di Lombardia e d'Allemagna, fatte passare molte
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