Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 08

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non facendo parte del regno d'Italia, ed essendo dipendente soltanto
dall'impero, allorchè vacava l'impero ricuperava la sua indipendenza, o
a dir meglio ricadeva sotto il giogo dell'oligarchia inquieta de' suoi
nobili. Tra costoro quello che poteva occupare il trono pontificio,
otteneva col favore delle ricchezze della Chiesa una grandissima
preponderanza su tutti gli altri, ed era risguardato come capo della
repubblica. Vero è che l'elezione doveva farsi coi suffragi riuniti del
clero e del popolo[158]; ma il clero era quasi tutto militare, e si
presumeva che la voce dei grandi dovesse rappresentare quella della
nazione; era perciò a supporsi che i voti della nobiltà si riunirebbero
a favore del più valoroso del loro corpo, del più accorto, e fors'anco
del più elegante dei giovani ambiziosi che aspiravano alla tiara,
piuttosto che a qualche prete commendevole per la sua santità, ma
incapace d'intrighi[159]. In mezzo all'universale degradamento le dame
romane non avevano perduto l'avvenenza ed i talenti delle antiche
matrone, ed erano perciò assai potenti. Anzi non ebbero mai le donne
tanto credito presso alcun governo, quanto n'ebbero le romane nel decimo
secolo. Sarebbesi detto che la bellezza erasi usurpati tutti i diritti
dell'impero.
[158] _A cunctis sacerdotibus, seu proceribus, et omni clero, nec
non et optimatibus, vel cuncto populo romano. Anast. bibl. in Leon.
III p. 195._
[159] Il ritratto che fa Anastasio di papa Adriano I. indica le
qualità che d'ordinario fissavano i suffragi. _Vir valde praeclarus,
et nobilissimi generis prosapia ortus, atque potentissimis Romanis
parentibus editus; elegans, et nimis persona decorabilis, constans
etiam, ec. In Adr. I. p. 179._
Due celebri patrizie, Teodora e sua figliuola Marozia, furono
sessant'anni assolute arbitre di quella tiara, che poc'anni dopo, tre
Enrichi alla testa delle armate tedesche non hanno potuto togliere ai
loro nemici.
Teodora, nata da illustre famiglia, possedeva immense ricchezze e varie
rocche: gli archi trionfali ed i solidissimi sepolcri degli antichi
Romani ridotti in fortezze dai gentiluomini erano custoditi dai suoi
soldati; ed in oltre disponeva a sua voglia degli amanti ch'ella aveva
non pochi tra i nobili romani. Il lodevol uso ch'essa fece di questa
specie d'impero, fu quello di far cessare la scandalosa guerra che
tenevano viva in Roma due opposte fazioni. Erasi veduto Stefano VI,
succeduto l'anno 896 a papa Formoso, far diseppellire il cadavere del
suo predecessore, sottomettere innanzi ad un concilio il morto corpo ad
un ridicolo interrogatorio, condannarlo, farlo mutilare, indi gettarlo
nel Tevere[160]. Dopo tal epoca i susseguenti pontefici ora dell'uno ora
dell'altro partito avevano a vicenda annullati gli atti de' loro
predecessori. La stessa Teodora era della fazione nemica di Formoso, e
sua figliuola Marozia, l'amante di Sergio III, uno de' di lui
persecutori. Ma poichè Teodora ebbe cogli artificj e colla galanteria
sottomessi i grandi ed il clero, i costumi della corte di Roma
diventarono se non più puri, almeno più dolci.
[160] _Luitp. Ticin. Hist. l. I. c. 8. p. 480._ — _Amalricus Augerius
vitae pont. t. III. p. II. p. 317._ — _Frodoar. poema de Romanis
pontif. Ib. p. 318._
Teodora innamoratasi d'un giovane ecclesiastico, chiamato Giovanni, gli
ottenne da prima il vescovado di Bologna, poi l'arcivescovado di
Ravenna; e finalmente disperata per averlo, elevandolo a tale dignità,
allontanato da se, s'adoperò in modo presso i gentiluomini ed il clero,
che il fortunato amico fu col nome di Giovanni X innalzato sul trono
pontificio[161]. L'amore o la riconoscenza di questo papa verso la sua
benefattrice scandalizzarono il cardinal Baronio autore degli annali
della Chiesa; pure Giovanni X non viene accusato nè di veleni, nè
d'assassinj, nè di tradimenti; delitti enormi, che nella successiva età
macchiarono più volte il trono papale. Giovanni X amministrò gli affari
della chiesa con fermezza e con giustizia; seppe, per il comune
vantaggio de' suoi concittadini, pacificare i principi rivali che
dividevansi l'Italia, e gli stessi imperatori d'Oriente e d'Occidente;
egli stesso condusse le armate contro i Saraceni accampati al
Garigliano, ed in questa impresa acquistò la gloria di valoroso
guerriero, professione più confacente al suo carattere, che quella di
padre dei fedeli[162].
[161] _Liutp. Hist. l. II. t. II. p. 440._ Il Baronio ed il Pagi, e
tutti gli scrittori ecclesiastici ammisero come veridico il racconto
di Luitprando vescovo di Cremona. Il solo Muratori ne dubitò ne'
suoi Annali, appoggiato all'autorità degli epitaffi d'alcuni papi, e
del panegirico che Frodoardo ha fatto di tutti i pontefici in
quattro o cinque cattivi versi. Io darei la medesima fede ai sonetti
che si fanno in Italia per nozze, ne' quali la nobiltà, il valore,
l'amore, la bellezza, sono a tutti prodigati senza veruna
parzialità.
[162] _Luitp. Hist. lib. II. c. 4. p. 441._ — _Leo Ostiensis
Chronicon Monasterii Cassin. l. I. c. 52. t. IV. Rer. It. p. 325._
Quando Teodora strinse domestichezza con Giovanni, non era omai più nel
fiore dell'età. Prima d'esserne amante, aveva maritata sua figliuola
Marozia con Alberico marchese di Camerino, che dava alla famiglia della
sua sposa un nuovo lustro per la proprietà d'un gran feudo vicino a
Roma.
Intanto la storia non parla più di Teodora; per la di cui morte Giovanni
X aveva forse ottenuta l'indipendenza del suo dominio. Alberico primo
sposo di Marozia, che uno storico quasi contemporaneo dice console de'
Romani[163], fu ucciso in una sedizione, e la vedova Marozia del 925
esercitava sopra i baroni di Roma quell'impero, ch'ebbe prima di lei
Teodora. Solamente il papa, dopo essere stato l'amante della madre, non
poteva sentir amore per la figliuola, la quale dal canto suo aveva
estrema avversione per Giovanni X. Essa s'era impadronita per sorpresa
della mole Adriana, oggi detta castel s. Angelo, torre massiccia, la più
solida di tutti i monumenti dell'antica Roma, ch'era stata molto prima
trasformata in fortezza. Posta sull'altra riva del Tevere all'estremità
del ponte Elio, domina il passaggio tra il Vaticano ed il campo di
Marte, il corso superiore del fiume, gl'ingressi in città dalla banda
della Toscana, e di tutta l'Italia settentrionale: tal che questo
castello ne' tempi di mezzo, siccome ne' tempi presenti, viene
risguardato come la chiave di Roma. Quando si fu ben fortificata nella
mole Adriana, Marozia offrì la sua mano a Guido duca di Toscana; di modo
che colle loro forze riunite i due sposi, trovandosi quasi sovrani di
Roma, fecero ammazzare un fratello di Giovanni X, ch'era nella sua più
intima confidenza, rinchiusero lo stesso papa in una prigione, in cui
cessò ben tosto di vivere, e fecero successivamente eleggere a
quell'eminente dignità due loro creature[164].
[163] _Leo Ostiensis Chron. Monast. Cassinensis l. I. c. 61. p.
353._
[164] _Luitp. Hist. l. III. c. 12. p. 450._
Del 931 Marozia, rimasta vedova la seconda volta, fu non pertanto in
Roma abbastanza potente per riporre sulla santa sede Giovanni XI suo
secondo figliuolo, nella fresca età di ventun'anni, cui la maldicenza
diceva figliuolo di papa Sergio. Questo papa fu assai maltrattato
dall'annalista ecclesiastico[165], benchè in un regno di cinque anni non
potesse rendersi colpevole di verun delitto o mancanza; perchè ridotto
alle sole funzioni ecclesiastiche, non esercitò un solo istante il
potere allora annesso alla sua sede.
[165] _Baron. Ann. Eccles. ad annum 931._
La stessa Marozia erasene resa padrona; onde Ugo re di Provenza, che di
que' tempi bramava di consolidare il suo nuovo dominio di Lombardia, non
isdegnò di ricercare l'alleanza d'una femmina che doveva soltanto alla
galanteria la sua potenza. Di fatti Marozia sposò Ugo in terze nozze,
quantunque fratello uterino di Guido suo secondo marito: ma questa
unione non corrispose alle speranze concepite dagli ambiziosi sposi.
Pochi giorni dopo il matrimonio, levatosi Ugo da tavola, osò dare uno
schiaffo ad un figlio di Marozia del primo letto, il quale chiamavasi
Alberico come il padre, perchè, presentandogli la brocca, gli aveva con
mal garbo versata l'acqua sulle mani. Sdegnato Alberico per tanta
ingiuria, chiamò i suoi concittadini a prendere le armi, ed a scuotere
il giogo d'un barbaro. Ugo, costretto di salvarsi colla fuga, non potè
mai più rientrare in Roma, e Marozia terminò i suoi giorni in un
monastero[166].
[166] _Luitp, Hist. l. III. c. 12. p. 450._
E per tal modo i Romani, scosso ad un tempo il giogo dei papi, delle
femmine e dei re, lusingaronsi d'aver ricuperata la libertà dell'antica
Roma; e richiamarono il nome di repubblica, poichè videro un console
alla loro testa, prendendo Alberico indifferentemente il titolo di
console o di patrizio. Alberico intanto era un padrone che, avendo
saputo attaccare i Romani alla propria causa, li teneva in armi per
l'indipendenza della patria; e forse, nello stato in cui li trovò, la
sua amministrazione era la più confacente alla loro gloria. Conservò
ventidue anni il favore che si era acquistato del popolo romano, e
morendo lasciò quasi ereditario il principato di Roma a suo figlio
Ottavio in età di soli diciassett'anni. Nominò fin che visse
successivamente diversi papi, che tenne sempre sotto l'assoluta sua
dipendenza; e quando morì l'ultimo di questi, che gli era sopravvissuto
due anni, Ottaviano, ch'era prete, suppose di assicurare la propria
autorità aggiungendovi la potenza spirituale, e si fece consacrare
pontefice col nome di Giovanni XII: e dalle sue mani Ottone il grande
ricevette la corona imperiale.
Sembrerà cosa strana, senza dubbio, che nel decimo secolo, secolo
dell'ignoranza e della superstizione, il poter dei papi rovinasse così
subitamente; e non si vorrà credere che l'epoca, e la cagione principale
dell'abbassamento del potere sacerdotale fosse appunto la donazione
fatta da Carlo Magno alla santa sede. I papi, diventati in forza di tale
donazione sovrani, o per lo meno grandi feudatarj, dovevano soggiacere
alle stesse cagioni di deperimento, che sordamente attentano alla
potenza di tutti i monarchi e grandi signori. Non erasi ancora ritrovata
l'arte non ignota agli antichi d'esercitare un assoluto potere sopra
città lontane, di modo che tutte le città rendevansi indipendenti.
Scorgesi qualche traccia della protezione che i papi accordavano
talvolta alle città della Pentapoli e dell'Emilia, di cui avevano
ottenuta la restituzione alla repubblica; ma non trovasi verun documento
che dimostri che il papa le governasse. Convien dunque dire che non le
città, ma le possessioni territoriali, i feudi ed i dominj formavano le
ricchezze del papa, ed il pregio delle donazioni de' Carlovingi.
Frattanto i papi per trarre profitto da questi possessi territoriali,
gli avevano infeudati sotto un canone militare. Una nobiltà armata
rimpiazzò gli antichi vassalli plebei, che coltivavano i medesimi
dominj, ma che non avrebbero saputo difenderli: nè si previde allora ciò
che il governo de' preti doveva temere dallo spirito altiero,
indipendente, bellicoso dei gentiluomini.
In sul finire del nono secolo, i papi erano al colmo di quella specie di
potere ch'essi eransi acquistato colle loro proprietà; la nuova milizia
che avevano di fresco formata ne' loro dominj, aveva ancora presenti i
ricevuti beneficj, e sforzavasi d'accrescere il credito de' suoi
benefattori. Al suo valore, all'illimitato suo attaccamento, dovettero i
papi la preponderanza ottenuta nella repubblica romana nell'epoca
appunto in cui erano i più potenti baroni del ducato. Ma le rivalità di
Sergio e di Formoso divisero questa nobiltà in due fazioni; i
gentiluomini rimasero attaccati a quella delle due emule case da cui
avevano ricevuti i beneficj; e quando la fazione di Sergio trionfò, la
dignità pontificia fu resa quasi ereditaria nella famiglia di Teodora,
di Marozia, di Alberico; ed i cavalieri consacrarono la loro
riconoscenza a questa famiglia che gli aveva beneficati, tosto che si
credettero sciolti da ogni legame verso gli sconosciuti, che potevano in
appresso occupare la cattedra di S. Pietro.
Intanto la città di Roma, poi ch'ebbe scosso il giogo dell'impero
d'Oriente, conservò sempre le forme, se non lo spirito d'una repubblica.
Il papa non aveva entro Roma altro potere che quello che nasceva dal
rispetto religioso dovuto al suo carattere, e dal timore delle censure
della Chiesa. Sotto l'amministrazione d'Alberico i diritti del popolo
venivano rispettati, e mantenute le assemblee periodiche. Vero è che
l'uomo, che assicurava alla nazione l'indipendenza, era troppo potente
per lasciarla libera; ma quand'egli morì, suo figlio Ottaviano ereditò
bensì le sue possessioni ed i suoi diritti, ma non l'illimitato potere,
che la sola riconoscenza accordava a suo padre.
Nello stesso tempo che il popolo innalzò Ottaviano, ossia Giovanni XII,
alla dignità papale, affidò le incumbenze amministrative ad un prefetto
della città, cui diede per colleghi e consiglieri i consoli annali,
incaricando della tutela dei propri interessi dodici tribuni o
decurioni, i quali rappresentavano i rispettivi quartieri di Roma[167].
Allora si operò sul carattere nazionale una più importante rivoluzione,
che quella che aveva variate le magistrature. Alla morte del _gran
console_ si vide rinascere lo spirito pubblico, ed il popolo manifestò
il desiderio di circoscrivere l'autorità arbitraria e di metter fine
alle sue usurpazioni. Questo spirito impegnò i Romani in un'ardita, ma
disuguale lotta cogl'imperatori ed i papi; lotta che si protrasse quasi
per tutto lo spazio che abbraccia la presente storia.
[167] L'anno 996 esistevano già da più anni queste diverse
magistrature. _Baron. Annal. Eccles. ad an. 966. — Amalricus Augerius
in vita Joh. XIII. p. 329 — Pandulp. Pisan., et Catalog. Papar. in
eund. p. 329 — 332. Rer. It. t. III. p. II._
Ottone il grande depose successivamente Giovanni XII e Benedetto V, onde
il popolo romano adontato da tali atti di potere arbitrario, si dichiarò
due volte a favore dei papi, e sostenne colle armi, benchè con infelice
successo, la legittimità del loro titolo ed il suo diritto d'elezione.
Giovanni XII, dopo aver chiamato Ottone in Italia, non tardò ad
accorgersi d'essersi preparato un giogo sotto cui avrebbe dovuto piegare
il capo. Si collegò con Berengario contro l'imperatore, ma troppo tardi:
dopo essersi alcun tempo difeso nel forte S. Leo, il monarca italiano fu
fatto prigioniere. Ottone s'avanzò contro Roma, ed il papa fuggì a Capoa
con Adalberto figliuolo di Berengario[168]. Allora Ottone adunò un
concilio in Roma per giudicare Giovanni XII, o piuttosto, diceva egli,
per correggerlo de' traviamenti giovanili. Ma questo concilio rese
affatto pubblica la spaventosa corruttela della santa sede. Pietro
cardinale prete si alzò, ed innanzi a tutta l'assemblea passò in revista
i vizj ed i delitti dei papi[169]; e l'imperatore senza voler ammettere
o rigettare quest'accusa, scrisse la seguente lettera a Giovanni XII per
invitarlo a giustificarsi personalmente.
[168] _Luitp. contin. lib. VI. c. 6. p. 471._
[169] _Ib. cap. 7. e 8. p. 473._
«Al sovrano pontefice e papa universale il signor Giovanni, Ottone, per
la clemenza di Dio, imperatore augusto, e gli arcivescovi della Liguria,
della Toscana, della Sassonia e della Francia, in nome del Signore,
salute.
«Arrivati a Roma per il servigio di Dio, quando abbiamo interrogato i
vostri figli, i Romani, i cardinali, i preti, i diaconi e tutto il
popolo, intorno ai motivi della vostra lontananza, ed a quelli che
v'impedivano di venire a trovar noi difensori della vostra chiesa, e di
voi medesimo, ci raccontarono tali cose di voi, e tanto vergognose, che
se fossero dette degl'istrioni, ancora li farebbero arrossire. E perchè
tutto non rimanga ignoto alla grandezza vostra, ne riferiremo brevemente
alcune, perchè un giorno non basterebbe a farne di tutte circostanziato
racconto. Sappiate adunque, che voi siete accusato, non già da pochi, ma
da tutti, ecclesiastici e secolari, d'esservi reso colpevole d'omicidio,
di spergiuro, di sacrilegio e d'incesto con due vostre prossime parenti.
Aggiungono ciò che fa orrore ad udirsi, che a tavola beveste alla salute
del diavolo, che invocaste, giocando, Giove, Venere ed altri demonj. Noi
supplichiamo dunque caldamente vostra paternità di venire, e non
frapporre ritardo, a giustificarvi da queste imputazioni. E se mai
temeste la violenza della moltitudine temeraria, noi ci obblighiamo con
giuramento, che niente sarà fatto contro i regolamenti dei sacri canoni.
Dell'8 degli Idi di novembre 963»[170].
[170] _Luitp. lib. VI. c. 9. p. 474._
Giovanni nella sua risposta rifiutò di riconoscere l'autorità del
concilio, e minacciò di scomunicare coloro che osassero procedere
all'elezione di un nuovo pontefice. Avendolo inutilmente citato la
seconda volta, il concilio lo dichiarò decaduto dalla sua dignità, e
nominò suo successore Leone che fu consacrato sotto nome di Leone VIII.
Intanto i gentiluomini ben affetti alla famiglia d'Alberico, i cittadini
che volevano salvo il diritto del popolo romano di nominare il suo
vescovo, ed i partigiani dell'indipendenza della Chiesa, si riunirono
per dichiarare illegittima la deposizione di Giovanni, e l'elezione di
Leone. L'imperatore prima di partire, fu costretto di reprimere una
sommossa manifestatasi contro il suo papa; e quando fu lontano, Giovanni
XII rientrò in Roma, scacciò Leone, e fece crudelmente mutilare due
cardinali suoi nemici, e si preparò a difendersi. Un impensato accidente
pose fine a tutti i suoi progetti. Sorpreso di notte con una donna
maritata, morì pochi giorni dopo, percosso dal demonio, dice il vescovo
di Cremona, o più tosto dal marito geloso[171][172].
[171] _Luitp. Hist. l. VI. c. II. p. 475._
[172] Non dimentichi il cattolico lettore quanto in proposito dei
papi che disonorarono la sede di s. Pietro lasciò scritto il
cardinale Bellarmino: _Ne forte putaremus ob vitam et mores
integerrimos summorum pontificum tam diu stetisse hanc sedem,
permisit ad extremum Deus, ut etiam quidam parum probi pontifices
aliquando hanc sedem tenerent et regerent: quales sane fuerunt
Stephanus VI, qualis Leo V, Christophorus I, Sergius III, Joannes
XII, aliiqui non pauci_. N. d. T.
Non lasciaronsi i Romani sconcertare dalla morte di Giovanni XII, e gli
sostituirono all'istante un cardinale diacono, che prese il nome di
Benedetto V; e resistettero alcun tempo coraggiosamente all'armata di
Ottone, che intraprese l'assedio di Roma: ma in fine dovettero
arrendersi alla fame più che ai replicati attacchi de' soldati nemici.
Ottone ritornò in Roma seco conducendo il suo antipapa Leone VIII. Papa
Benedetto V, che la Chiesa ritiene come solo legittimo[173], comparve
pontificalmente vestito avanti al suo competitore e ad una numerosa
adunanza di vescovi nella chiesa di s. Giovanni Laterano; ove confessò
genuflesso e piangente d'aver usurpata la cattedra di s. Pietro; e
spogliatosi del suo manto consegnò il suo pastorale all'antipapa Leone,
il quale lo spezzò in presenza dell'assemblea. Dopo ciò il legittimo
pontefice fu mandato in esiglio in fondo della Germania[174].
[173] _Bar. An. Eccl. ad an. 964 — Pagi Crit. ib. — Sigon. de Regno
It. lib. VII._
[174] _Luitp. lib. VI. c. ultim. p. 476._ — _Vita Joh. XII ex Mss.
Vatic. Pandulphi Pisani t. III. Rer. It. p. II. p. 328._ — Baronio
trovasi qui in un dilemma somigliante al famoso sofisma del
menzognero. Se Benedetto è il vero papa, dunque è infallibile,
dunque ha detto la verità quando ha detto che non era papa.
Dopo la morte di Benedetto e di Leone, quando un nuovo papa, Giovanni
XIII vescovo di Narni, fu designato dall'imperatore, e che le due
podestà trovaronsi unite contro la libertà di Roma, non però i Romani si
ritrassero dalle difese. Ottone trovavasi in Germania; ed i magistrati
di Roma essendo scontenti del papa, gli ordinarono d'abbandonare la
città. Giovanni dovette ubbidire, e rimanere dieci mesi in esiglio in un
castello della Campania.
Di là il papa supplicava l'imperatore di accorrere in suo soccorso, il
quale di fatti scendeva in Italia colla sua armata, e prima ancora del
suo arrivo Giovanni era richiamato in Roma. La sommissione degli
abitanti non bastò ad addolcire l'anima vendicativa del papa, il quale,
poichè le truppe dell'imperatore occuparono la città, fece levare dal
sepolcro e spargere al vento le ceneri di Roffreddo prefetto di Roma,
che gli aveva intimato l'esiglio. Il nuovo prefetto colla testa
inviluppata in un otre, e condotto per la città sopra un asino, fu
esposto allo scherno del pubblico: i consoli furono esiliati in fondo
alla Germania, ed i dodici tribuni del popolo perdettero la vita sul
palco[175]. La gloria di Ottone non fu meno macchiata di quella del papa
da così odiose esecuzioni. «Noi volevamo accoglierti con bontà e
magnificenza, disse il greco imperatore Niceforo Foca allo storico
Luitprando ambasciatore di Ottone, ma l'empietà del tuo padrone non lo
ha permesso; egli occupò Roma come nemico, e fece perire molti Romani
colla spada, altri sotto la scure del carnefice, a non pochi fece cavare
gli occhi, ed alcuni cacciò in esiglio»[176].
[175] _Bar. An. Ecc. ad an. 966. — Pagi Crit. et Murat. ad an. 967._
Tutte le vite di papa Giovanni XIII. _Scrip. Rer. Ital. t. III. p.
II. p. 330._
[176] _Legatio Luitp. ad Niceph. Fhocam, t. II. R. It, p. 479._
In verun'altra epoca la storia dei pontefici fu forse macchiata da più
delitti, che sotto il regno dei tre Ottoni di Sassonia; ma,
fortunatamente per la memoria dei papi, le cronache che parlano di tali
delitti, non hanno circostanziato il racconto in modo da imprimersi
tenacemente nella nostra memoria.
Poco avanti la morte d'Ottone I, Benedetto VI, nato romano, succedette a
Giovanni XIII. Bonifacio Francone, figliuolo di Ferruccio, e cardinale
diacono, arrestò ben tosto il nuovo papa, e chiusolo in una prigione di
Castel sant'Angelo, lo fece strozzare, o com'altri vogliono, morir di
fame. Asceso egli stesso sulla cattedra pontificia, spogliò in quaranta
giorni le chiese e le basiliche dei loro tesori, e di quanto avevano di
prezioso; e perchè i Romani, mossi da suoi delitti, avevano prese le
armi per iscacciarlo da Roma, fuggì a (984) Costantinopoli colla sua
preda, di dove tornò a Roma dopo dieci anni per brigar di nuovo la
tiara[177].
[177] _Amalricus Augerius, Pandulphus Pisanus, et Catalogus Papar.
t. III. p. II. p. 332. — 335. — Ptolomei Lucensis Hist. Eccles. l.
XVI. c. 27. t. XI. p. 1043._ Molti cataloghi pongono qui un papa
_Domno_, di cui la Chiesa riconosce l'esistenza sotto nome di
_Donno_, quantunque i calcoli de' tempi non lascino alcuno spazio
per il suo regno di diciotto mesi. Io credo che questi sia lo stesso
Benedetto VI, _Domnus Benedictus_. Sarà stato ommesso in una qualche
copia del catalogo il nome di Benedetto, ed il titolo di _Domno_
diventato il nome d'un secondo personaggio supposto, la di cui
istoria è perfettamente simile a quella di Benedetto VI.
La fazione imperiale fece consacrare l'anno 975 Benedetto VII, nipote
del gran console Alberico, la cui famiglia possedeva il contado di
Tusculano[178]. I conti di Tusculo s'obbligarono di sostenere in Roma il
partito imperiale, e coll'appoggio della casa di Sassonia, dominarono le
elezioni, onde poi i feudatarj, l'imperatore ed il papa uniti, fecero
causa comune contro la libertà.
[178] Questa genealogia dei conti Tusculani che dà ragione del loro
credito e subita potenza, non ha fors'altro fondamento che il
ritorno degli stessi nomi nelle famiglie; ma io la vedo adottata da
Vitali, _Stor. Diplom. dei Senat. di Roma p. I. p. 23_, ed indicata
ancor dal Pagi. _Critica an. 975. § 3._
Del 983 morì Benedetto VII, cui i Romani sostituirono Giovanni XIV
vescovo di Pavia; ma otto mesi dopo, Bonifacio VII, tornato da
Costantinopoli a Roma, s'impadronì colle armi del suo rivale, e
rinchiusolo in una prigione di Castel sant'Angelo, ve lo lasciò perir di
fame, mentr'egli stesso occupava per la seconda volta la santa sede, e
governava la chiesa undici mesi.
Tanti delitti stancarono la pazienza de' Romani, ispirando loro così
fatta avversione e disprezzo per il potere sacerdotale, che molti secoli
e memorie poterono a stento renderlo ancora rispettabile. Mentre i papi
erano risguardati quai feroci ad un tempo, e pusillanimi tiranni, e
troppo indegno il loro giogo, un uomo ancora caldo la mente dell'antica
gloria di Roma, e che ardentemente bramava di rinnovare i bei giorni
della repubblica, Crescenzio, cominciava a farsi conoscere, ed
acquistava il favore del popolo coll'eloquenza e col coraggio. Rianimò
il nobile orgoglio de' Romani, che sotto di lui si credettero ancora
degni discendenti dei padroni del mondo; li mosse a scuotere l'autorità
de' papi appoggiata soltanto alla confidenza dei popoli nella santità
d'un ministero apostolico, e che perdeva ogni titolo all'ubbidienza, da
che i pontefici avevano rinunciato alla virtù. Crescenzio incominciò ad
esercitare in Roma qualche potere col titolo di console l'anno 980,
press'a poco all'epoca in cui Ottone II entrò per la prima volta in
Italia: ma quest'imperatore, occupato dalla guerra che faceva ai Greci
nel ducato di Benevento, non pensò a cambiare l'amministrazione di Roma.
Se Crescenzio non potè prevenire i delitti di Bonifacio VII, è però
probabile che prendesse parte al suo castigo[179]. E perchè Crescenzio
procurava di allontanare interamente i papi da quel governo di cui
avevano sì lungo tempo abusato, gli storici pontificj si lagnano delle
sue persecuzioni[180]. Anche Giovanni XV, eletto l'anno 985, e vissuto
fino al 996, fu dal console esiliato; ma da che riconobbe l'autorità del
popolo, fu richiamato a Roma, e visse in buona intelligenza con
Crescenzio[181]. Questo papa morì allora quando, stanco di rimanere nei
limiti della podestà ecclesiastica, aveva spedito un'ambasceria ad
Ottone III, che sortiva allora dalla minorità, per indurlo a passare in
Italia.
[179] Bonifacio VII fu sottratto ai castighi che aveva meritato da
subitanea morte: ma il di lui cadavere abbandonato agl'insulti della
plebe, dopo essere stato strascinato per le strade, fu appiccato al
cavallo di Costantino. _Catal. Papar. 335._
[180] _Baron. ad an. 996._ Egli riporta il suo epitaffio. §10.
[181] _Vita Johan. XV. ex Amalr. Augerio, t. III. p. II. p. 334._
(996) L'imperatore arrivava a Ravenna quando seppe la morte del papa; e
gli destinò successore un signor tedesco, suo parente, chiamato Bruno,
il quale sostenuto dai conti di Tusculo e dall'armata imperiale che
avanzavasi verso Roma, fu posto sulla cattedra di s. Pietro col nome di
Gregorio V.
All'avvicinarsi delle truppe tedesche Crescenzio erasi ritirato nella
mole d'Adriano; onde Gregorio che non voleva incominciare il papato con
atti di rigore, s'interpose per fare la pace tra l'imperatore ed il
console. Ottone partì ben tosto per tornare in Germania, ed il nuovo
pontefice, orgoglioso di una dignità più assai rispettata nella sua
patria che a Roma, degl'illustri suoi natali e del favore d'Ottone, di
cui risguardavasi come il luogotenente, volle farsi superiore alle leggi
ed ai privilegi del popolo. Conobbe Crescenzio a' quali pericoli sarebbe
esposta la libertà romana se gl'imperatori, non contenti di visitare la
città colle armate tedesche, s'avvezzavano a lasciarvi pontefici della
propria famiglia, ed interamente attaccati a' loro interessi.
Gl'imperatori greci, più per debolezza, che per un sentimento di dovere,
avevano maggior rispetto per i privilegi dei popoli. Le repubbliche di
Venezia[182], di Napoli, d'Amalfi fiorivano sotto la loro protezione.
Questi sovrani nè mai viaggiavano, nè mai cercavano d'innovare
l'amministrazione delle province lontane; ed invece di favorire le
usurpazioni del sacerdozio, non avrebbero verisimilmente permesso ai
papi di arrogarsi maggiori poteri, che non ne accordavano ai patriarchi
di Costantinopoli. Perciò credette Crescenzio che, sottomettendo
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