Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 05

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che formavano il loro distretto, altronde credute necessarie alla loro
sussistenza. E l'implacabile odio che concepirono contro i nobili si
manifestò con una guerra crudele tostochè queste incominciarono a
reggersi a comune.
I nobili castellani venivano ancora indicati col nome di _valvasori_,
che nel sistema feudale esprime la doppia loro dipendenza.
Effettivamente essi erano ad un tempo vassalli dei conti o dei duchi dai
quali dipendevano immediatamente, e valvasori dei re. Circondati dai
loro contadini, ch'essi tenevano in una assoluta dipendenza, non
sentivano il bisogno di coltivare il loro spirito per distinguersi nella
società, nè di acquistare qualità singolari per inspirare rispetto ai
loro inferiori di già sottomessi. La caccia e le armi formavano le loro
delizie, come erano i soli oggetti del loro lusso. L'educazione d'un
gentiluomo riducevasi a saper domare un cavallo bizzarro, a palleggiare
con destrezza una grossa lancia, o lo scudo, ed a sopportare senza
fatica la più pesante corazza: avrebbero creduto di avvilirsi
occupandosi delle lettere o del dirozzamento dei loro costumi. Omai la
lingua volgare incominciava a prendere un carattere affatto diverso
dalla latina, che sola per altro si scriveva. Tutti i contratti dei
gentiluomini, de' quali moltissimi conservaronsi fino a questi tempi,
sono stipulati con istromenti dettati in così barbaro latino, che si ha
difficoltà a crederlo latino. A piè dell'atto l'acquirente, il
venditore, ed i testimoni, d'ordinario tutti gentiluomini, facevano il
segno della croce per non sapere scrivere, in seguito alla quale il
notajo dichiarava essere il segno di cadauno degl'interessati.
I gentiluomini erano non meno stranieri alle arti che alle scienze.
Studiavansi di rendere i loro castelli inespugnabili, ma non si curavano
punto di ornarli e di renderli aggradevoli. Sussistono ancora molti di
questi edificj, cupi, austeri, ma solidi in modo, che dopo aver
trionfato de' nemici, resistono da più secoli alle ingiurie del tempo.
Fabbricati d'ordinario in luoghi selvaggi sulle sommità delle rupi, o in
fondo a difficili passaggi, hanno più l'aspetto di prigioni, che di
signorili abitazioni, onde si lasciano andare in rovina. Nè il lusso
degli abiti era più conosciuto di quello delle case o degli arredi. Alla
corte dell'imperatore, ed a quella dei marchesi di Toscana facevasi
pompa talvolta di qualche abito sontuoso; ma gli abiti che i nobili
usavano ne' loro castelli non differivano molto da quelli dei paesani
loro soggetti.
Poco conosciuta è la condizione degli uomini di campagna subordinati ai
signori, quantunque sia l'oggetto della maggior parte delle leggi de'
Franchi, de' Lombardi, de' Tedeschi, e sia stato l'argomento di molte
dissertazioni, nelle quali Ducange e Muratori non sono sempre dello
stesso sentimento. I diversi nomi che trovansi nelle leggi e nelle
antiche scritture, indicano evidentemente varie classi di uomini
dipendenti; ma la precisa significazione di tali nomi ci è il più delle
volte ignota.
Gli _Arimanni_[82] formavano il primo ordine degli agricoltori ed
abitanti di campagna. Erano costoro uomini di libera ed onorata
condizione, che possedevano o avevano possedute alcune terre allodiali,
ma che in pari tempo coltivavano altresì le terre di qualche signore in
virtù d'un atto che non gli assoggettava a veruna vile condizione. Gli
Arimanni erano i soli abitanti della campagna non gentiluomini, che
fossero tenuti di assistere alle corti dei conti.
[82] Questo nome, siccome tutti i vocaboli delle leggi lombarde, è
d'etimologia allemanna. _Chreu mànner_, uomini d'onore. Si può
ancora tirarne l'etimologia da _heermanne_, uomini o capi
dell'armata. Veggasi la _Dissertazione XIII. Ant, Ital. t. I. p.
715._
Porrò nel secondo rango gli uomini di _masnada_ o le guardie del
signore. Questi ricevevano dai gentiluomini alcuni pezzi di terreno, che
possedevano come podere militare. Oltre il canone ch'essi pagavano a
danaro o in derrate, s'obbligavano pure a seguire il loro signore alla
guerra qualunque volta fosse costretto di prendere le armi[83].
[83] _Masseni_, antico vocabolo tedesco, per dire società, Veggasi
intorno a quest'ordine il Muratori _Dissertazione XIV delle
Antichità d'Italia_, Parmi per altro che abbia assegnato agli uomini
di _masnada_ un più basso rango di quello che effettivamente
avevano. _Masnadiere_ in italiano fu più tardi sinonimo di soldato,
e finalmente di assassino. Probabilmente la diversità di rango che
viene assegnato agli uomini di masnada procede che sotto questo
vocabolo s'intendevano tanto il capo d'una compagnia, che coloro che
la componevano. Nell'Aragona, ove queste classificazioni
continuarono più tardi che altrove a far parte della costituzione,
trovansi i _Ricos ombres de masnada_, che formano il primo ordine
dello stato, dopo i _Ricos ombres de natura_ (_Rico_, proveniente
dal tedesco _reich_, qui prendesi in senso di potere, non di
ricchezza) i _cavalleros de masnada_, etc. P. Salvanova Ximenes gran
giustiziere d'Aragona verso il 1320 dice, che, secondo le antiche
_observancias_, non sono propriamente mesnadarj, che i figli ed i
nipoti dei nobili, e gli altri da essi discendenti in retta linea.
Gli uomini di masnada, soggiunge, non devono essere vassalli d'altri
che del re. _Apud Hieron. Blancam, commentarii regum Aragonensium,
t. III, rer. Hisp., p. 733._
Gli _aldii_, ossiano _aldiani_ avevano il terzo rango. Somiglianti per
certi rispetti ai liberti de' Romani, erano uomini nati schiavi, che
avevano ottenuta dai loro padroni una quasi intera libertà, ed avevano
cambiata l'assoluta loro dipendenza in rendite determinate ed in servigi
personali[84]. Tenevano essi a pigione le terre de' loro signori, ma le
persone erano libere.
[84] Ignoro l'etimologia di questo vocabolo conservatosi nella
lingua spagnuola, nella quale _aldea_ ed _aldeani_ significano un
villaggio ed i villani. Veggasi _Murat., dissert. XV, t, 1 p. 841._
Finalmente gli schiavi componevano l'ultimo ordine della società, e la
più bassa, siccome la più numerosa classe degli abitanti della campagna.
La condizione loro non era in ogni luogo uguale; gli uni servi della
gleba vivevano sulle terre che coltivavano col prodotto del proprio
travaglio, corrispondendo l'eccedente ai loro padroni secondo certe
precise regole sanzionate dall'uso: altri ridotti ad una dipendenza
assoluta, non lavoravano che per i loro padroni, ed in virtù dei loro
ordini, e da loro avevano il nutrimento[85].
[85] _Ant. Ital. med. ævi, dissert. XIV, t. 1._
Ma quantunque la condizione degli schiavi fosse assai dura, erano meno
infelici degli schiavi romani in campagna, quando i costumi avevano
incominciato a corrompersi. Molte leggi lombarde proteggono i servi
contro l'ingiustizia o il soverchio rigore de' padroni; dichiarano
libero il marito della donna sedotta dal padrone[86]; assicurano l'asilo
delle chiese agli schiavi che vi si rifuggiassero[87]; e regolano le
pene proporzionatamente ai commessi delitti, invece di abbandonarli
all'arbitraria punizione del padrone. E siccome i signori conoscevano
d'aver bisogno de' loro soggetti qualunque volta venivano attaccati,
procuravano perciò di farsi amare, e li trattavano con dolcezza, onde
aver soldati pronti a difenderli. La schiavitù delle campagne romane ai
tempi degl'imperatori spopolò l'Italia, e la schiavitù delle stesse
campagne sotto la nobiltà feudale non fece danno alla popolazione.
[86] _ Lex Luitprandi regis, lib. VI, § 87, p. 80._
[87] _Ibid. § 90, p. 81._
Le leggi lombarde obbligavano i vassalli a seguire alla guerra a proprie
spese il loro signore, procurandosi del proprio il cavallo, le armi e le
vittovaglie. Carlo Magno ordinò che quando l'armata fosse invitata ad
entrare in campagna, ogni soldato si provvedesse di armi d'ogni genere,
d'abiti per un anno, e di viveri fino alla nuova stagione. Vero è,
quanto ai viveri, che i soldati introdussero ben tosto la costumanza di
farli somministrare dalle campagne e dalle province che attraversavano;
costumanza che divenne in seguito un diritto conosciuto sotto il
vocabolo di fodero[88], il quale fu limitato nel trattato di pace di
Costanza. Ogni uomo libero che ricusava di raggiungere l'armata
incorreva nella multa di sessanta soldi (trentasei once d'argento), e
non avendo di che pagarla, veniva ridotto in ischiavitù[89].
[88] _Futter_, foraggio, vittovaglia.
[89] _Capit. Cavr. M. in cod. Longob. § 35 p. 98._
Quantunque tutti gli uomini liberi dovessero recarsi all'armata, e che
nelle pressanti circostanze la legge non eccetuasse che un solo maschio
per ogni famiglia che n'avea più d'uno, il quale doveva ancora essere il
più debole[90]; pure le armate erano d'ordinario, poco numerose. Forse
la legge era male eseguita; forse il numero degli uomini liberi era
assai limitato, sia rispetto al numero degli schiavi e dei villani che
non prestavano servizio militare, come rispetto agli uomini troppo
poveri per mantenersi il cavallo, per cui univansi due o tre famiglie
per darne uno: finalmente può ancora supporsi che non si tenesse conto
delle milizie a piedi delle città, quantunque facessero parte delle
armate.
[90] _Const. Lod. II reg. Italiæ apud Camil. Pelleg., t, II, r. It.
p. 264._
Il nome di soldato si dava esclusivamente al cavaliere, il quale doveva
essere coperto di pesante armatura; doveva portar un caschetto, la
collana, la corrazza, stivaletti di ferro, ed un largo scudo. Combatteva
colla lancia, colla spada, collo stocco e coll'ascia, che la cavalleria
in appresso abbandonò. Il cavaliere, il giorno della battaglia, montava
il cavallo di battaglia; ma nelle marcie servivasi del palafreno, che
lasciava in mano dello scudiere quando doveva battersi. Secondo gli
ordini di Carlo Magno i pedoni dovevano portare una lancia, uno scudo,
un arco con due corde di cambio, e dodici freccie[91].
[91] Secondo capitolare dell'anno 813, § 9. _In capit. reg. Franc.
Steph. Balutii, t. I, p. 508._
Le leggi dei Lombardi, dei Franchi e de' Tedeschi sottomettevano quasi
tutte le cause al giudizio di Dio, ed il combattimento militare era la
più comune forma di giudizio. È ben naturale che da questo stato di
guerra giudiziaria, i gentiluomini passassero a private guerre
frequentissime. Quand'erano stati ingiuriati, le stesse leggi loro
acconsentivano di chiederne soddisfacimento, ed alla loro nimistà, una
volta dichiarata, davasi il nome di _faida_[92]. Le leggi non
gl'imponevano che il dovere di rinunciare alla vendetta quando veniva
loro pagato il compenso pecuniario dell'ingiuria ricevuta. Tale
pagamento chiamato _widrigild_[93] doveva farsi _cessante faida_; ma se
alcuna delle parti rifiutavasi di pagare o di ricevere il prezzo
dell'ingiuria, si prolungava la contesa, e le due famiglie restavano in
guerra[94].
[92] _Fehde_ inimicizia, guerra, sfida in tedesco; _Feud_, guerra,
oppure odio di famiglia in inglese.
[93] _Bidergeld_, argento dato contro, o argento di compenso.
[94] _Rotharis, leges in cod. Longob. § 45 et 74, p. 21. 22_. Per
altro Carlo Magno erasi arrogato il diritto di obbligare a dare e
ricevere il prezzo della faida, ma spesse volte i nobili vi si
rifiutavano. _Capitul. anni 779 apud Balut. § 22 t. I, p. 198._
La nobiltà trovavasi divisa da infiniti litigi di tal sorte; poichè
quasi tutti i gentiluomini preferivano ad un componimento amichevole la
decisione delle armi. Per tal motivo specialmente si prendevano
grandissima cura di tenere i loro vassalli esercitati nel maneggio delle
armi ed affezionati alla loro persona: e perchè i servi non potevano
entrare nella milizia, i loro padroni trovavano spesse volte conveniente
di affrancarli ed innalzarli al rango d'_uomini di masnada_ o
d'_Arimanni_.
Tale era all'epoca della sua istituzione il sistema feudale, un
miscuglio di barbarie e di libertà, di disciplina e d'indipendenza, la
quale in singolar modo contribuiva a rendere ad ogni uomo il sentimento
della propria dignità ed energia che sviluppa le virtù pubbliche, e
quella fierezza che le mantiene. La schiavitù de' coltivatori era, non
v'ha dubbio, la parte odiosa di questo sistema; ma dobbiamo risovvenirsi
che fu stabilito, allorchè la più assoluta e vergognosa schiavitù
formava parte del sistema e dei costumi di tutte le nazioni incivilite;
che gli schiavi romani che coltivavano la terra, dovettero chiamarsi
felici diventando servi della _gleba_; e che il vassallaggio fu la scala
per cui le più abbiette classi del popolo passarono dalla schiavitù
antica all'attuale loro libertà.
Nel sistema feudale il legame sociale era assai debole, pure
sufficiente, finchè durò nelle piccole popolazioni che l'avevano
adottato lo spirito nazionale. Un'origine ed una gloria comune, un nome
nazionale caro a tutti i cittadini, leggi ammesse dal comun consenso,
spesso portate dall'estremità della Germania, e che costituivano il più
nobil titolo della eredità di ogni guerriero, strinsero, finchè i popoli
rimasero indipendenti, i legami che univano i Lombardi, i Bavari, i
Franchi salici ed i Franchi ripuarj. L'ambizione di Carlo Magno, che li
riunì tutti sotto la sua vasta monarchia, fu la prima cagione della
prossima scomposizione. L'uomo che appartiene all'impero del mondo non
ha più patria, nè sentimento nazionale. Per alcun tempo i governatori
hanno potuto essere sedotti dallo splendore delle conquiste del loro re,
e sentire il solletico delle vittorie, che pure distruggevano ogni
speranza di felicità: ma il vergognoso regno dei discendenti di Carlo
Magno fece cadere questa illusione, ed i popoli conobbero allora tutti
assieme, che l'impero d'Occidente non era una patria, o se pure lo era,
era tale da non far loro provare che dolore e vergogna, per essere
esposta alle continue umiliazioni dei Saraceni, degli Ungari, degli
Avari, degli Slavi, dei Normanni, dei Danesi, i quali tutti erano
divenuti potentissimi per il debole impero de' figli di Carlo Magno[95].
[95] Niuna distanza assicurava dalle incursioni de' Normanni. La
città di Luni, capitale della Lunigiana, tra la Toscana e la
Liguria, fu distrutta l'anno 867 da questa gente del settentrione.
_Ant. Ital. dissert. I, p. 25._ E stando ad una cronaca, o _jaga_
islandese, sembra che fossero i figli di Ragner Lodbrog quelli che
in tal modo guastarono l'Italia, e che avevano pure determinato di
bruciar Roma se un viaggiatore, esagerando loro la distanza di
questa città, non li faceva rinunciare al progetto.
Per le nazioni incivilite e corrotte, la perdita dello spirito pubblico
è una specie di morte nazionale, riducendo gli uomini a quello stato di
avvilimento in cui i Greci ed i Romani si trovarono sotto gli ultimi
imperatori. Ma in una nazione ancora piena d'energia, e dove un
principio di vita anima tutto, quando s'estingue lo spirito pubblico,
diventa maggiore il vigor individuale, che conserva ancora la dignità
dell'umana natura in mezzo alle sventure dello stato. Nello stesso tempo
in cui venti Saraceni osarono fondare una colonia nemica a Frassineto,
posto nel centro dell'impero di Carlo Magno, i baroni che lo
circondavano erano bravi soldati, e tutta la sua nazione bellicosissima.
Ma l'abbassamento dello spirito pubblico, la disunione di tutti i membri
dell'impero, le guerre civili, o a meglio dire private tra i signori dei
castelli, infine la diffidenza e la gelosia di ogni villaggio per il
villaggio vicino, rendevano la nazione incapace di far resistenza ai
nemici. Il disordine era cresciuto a segno che i paesani non ardivano
uscire dalle loro muraglie per seminare i campi, le raccolte venivano
distrutte o portate via dai nemici, le strade rese impraticabili dal
ladroneccio.
Nel sesto secolo tutti gli ordini della nazione, separatamente
considerati, erano scontenti del legame che gli univa. Allorchè un
principe ambizioso occupava il trono, aveva costume di dividere tra i
suoi favoriti i grandi feudi, come fossero impieghi civili, lo che
gravemente offendeva i principali signori: le città forzate di
difendersi da sè medesime contro le incursioni de' barbari,
circondaronsi di mura, addestrarono le loro milizie, e terminarono col
disprezzare un governo incapace di proteggerle: i gentiluomini, stanchi
d'un servizio rovinoso, paventavano i messaggieri del re, che non
chiamavanli che a fazioni militari senza gloria, ed a diete senza
libertà: per ultimo i paesani, oppressi dai loro signori e tormentati
dalle rapine delle guerre private, rifiutavano una patria che non gli
aveva in conto di cittadini. Di mezzo a tanta anarchia eransi formate
alcune parziali società per la comune difesa; ed i capi politici
indipendenti esistenti in seno alla nazione, e la formazione loro,
dovevano affrettare lo scioglimento di quel legame sociale che le
recenti associazioni rendevano inutile. Nello stato ordinario della
società, quantunque l'autorità sovrana sia onerosa a coloro che ne
sostengono il peso, tutti non pertanto temono gli effetti dell'anarchia,
e sentono come sarebbero esposti ad ingiuste aggressioni, quanto deboli
e sventurati, se un'autorità protettrice, se una forza superiore a
quella degl'individui, non reprimesse le violenze, e non conservasse
l'ordine fra gli opposti interessi che sogliono produrre fra gli uomini
incessanti motivi di querele. Ma quando la società accoglie nel suo seno
varie parziali associazioni, nè i capi, nè i membri temono più le
conseguenze dell'anarchia.
Un duca di Spoleti o del Friuli risguardava il re d'Italia quale
oppressore, che si arrogava il diritto di usurpare l'eredità ai suoi
figliuoli, di dividere le sue entrate, di porre limiti alla sua
autorità; un geloso nemico, che non potendo sempre opprimerlo colle
proprie forze, procurava di rivolgere contro di lui quelle de' vicini;
che per nuocergli univa l'astuzia alla violenza; ma che in veruna
circostanza accorreva in sua difesa, o gli era in qualsiasi modo utile.
Perciò i grandi feudatarj non risguardavano più la caduta del trono con
quell'inquieto timore che in noi produce un'imminente rivoluzione, di
cui non si possono calcolare gli effetti: al contrario essi erano a
portata di conoscere perfettamente i risultati di tale cambiamento.
Conoscevano ugualmente le forze proprie e quelle de' loro vicini;
vedevano di poter dividere tutte le prerogative dell'autorità reale, e
tutte le spoglie del trono; che senza pericolo di disordine o
d'anarchia, avrebbero anzi conseguito maggior sicurezza, l'indipendenza
e più illimitato potere.
Nè l'interesse de' sudditi era in tal caso in opposizione con quello de'
loro padroni, perchè il monarca non gli aveva mai salvati dalle
vessazioni del duca o del marchese, nè alla deposizione loro avevano mai
dato motivo le lagnanze del popolo: e quando i soggetti sono lasciati in
balìa de' loro padroni, è a desiderarsi che la signoria sia ereditaria,
affinchè i padroni sieno più interessati alla conservazione ed alla
prosperità della medesima. L'autorità d'un signore temporario non era
perciò più limitata, e quand'era destituito, gli era il più delle volte
surrogato un uomo di minor condizione, che la povertà rendeva più avido
e più oneroso ai sudditi.
Doveva inoltre sembrar più agevole ai sudditi de' magnati il limitare
l'autorità di un piccolo principe, che quella d'un gran re; di reprimere
le vessazioni d'un uomo che non aveva che le forze dei proprj sudditi,
piuttosto che quelle d'un sovrano che, adoperando la politica dei
despoti, valevasi dei sudditi d'una provincia per incatenare quelli di
un'altra.
Sembrerà strano che con tali disposizioni gl'Italiani non deponessero
Berengario II, e non abolissero l'autorità reale, invece di chiamare
Ottone dagli estremi confini dell'Allemagna, e sottomettersi a lui: ma
eranvi due altri ordini della nazione, che, quantunque mal soddisfatti,
credevano non pertanto di dover sostenere il trono. Le città non
potevano chiamare in loro soccorso che i re, i quali per altro non le
proteggevano: esse soffrivano tutti i mali dell'anarchia, e non avevano
ancora abbastanza di forze per provvedere alla propria sicurezza; onde i
cittadini antiveggenti dovevano desiderare che si sottraessero
lentamente all'impero, piuttosto che ricuperare tutto ad un tratto
quell'indipendenza che non avrebbero potuto difendere. Altronde anco i
gentiluomini e la nobiltà di secondo rango temevano ugualmente quello
scioglimento della monarchia che gli avrebbe posti in arbitrio de'
magnati limitrofi, amando meglio d'ubbidire ad un re, che ad altri
nobili ch'essi credevano loro eguali.
(961) La concessione della corona imperiale agli Alemanni garantì a
tutti gli ordini della nazione quel grado d'indipendenza che si
conveniva alla sua situazione ed alle sue forze; (961 = 965) facilitò lo
scioglimento pacifico del legame sociale, e l'erezione, nell'interno
dello stato, d'una quantità di piccole popolazioni che diventarono
libere tosto che non ebbero più bisogno della protezione del monarca. Il
regno d'Ottone fu al di fuori illustrato dalle vittorie, internamente
dallo stabilimento di una costituzione proporzionata allo spirito del
secolo ed al bisogno della nazione.
Ben più che a Carlo Magno si conviene ad Ottone il nome di grand'uomo; e
se non altro il suo regno contribuì efficacemente alla prosperità de'
popoli a lui sottomessi. Carlo ebbe l'ambizione de' conquistatori, e,
per ingrandire l'impero, distrusse collo spirito nazionale il vigore dei
popoli vinti. Ottone non fu meno vittorioso di Carlo, ma Ottone trionfò
dei nemici dei popoli ridotti a civiltà, e degli aggressori che
guastavano le province dell'impero colle loro scorrerie. Egli non cercò
di estendere i limiti dell'impero, e non s'arrogò che i poteri necessari
per proteggere i suoi sudditi; e dopo aver data la pace alle sue
province, preparò i popoli a poter un giorno essere indipendenti.
La costituzione che Ottone il grande diede agl'Italiani, poi ch'ebbe
conquistato tutto il regno di Berengario, era di tutte la migliore per
conservare al monarca, obbligato di trattenersi lungo tempo ne' suoi
stati di Germania, la sua autorità. Prima della fatale invenzione delle
truppe di linea, prima di scoprire che uomini liberi potevano ridursi a
vendere la loro volontà e le loro braccia per un miserabile salario, il
despotismo non poteva avere regolare e durevole stabilimento. Fin ch'era
in luogo, l'ascendente d'un grand'uomo faceva piegare ogni cosa alle sue
volontà, e ciò con tanto maggiore facilità, quanto più grande era nei
popoli il dovere della riconoscenza; ma tosto che s'allontanava,
l'interesse personale ripigliava il suo predominio sul cuore d'ogni
individuo, e l'obbedienza del soggetto si proporzionava esattamente al
beneficio che sperava di conseguire dall'ordine pubblico.
Ottone aveva condotto in Italia una grande armata, ma quest'armata era
feudataria. Ogni ufficiale era tenuto, in virtù della sua baronia, di
servire al re per un determinato tempo, ed ogni cavaliere doveva per
tutto questo tempo seguire il suo barone da cui aveva ricevuto il feudo.
Ultimata la spedizione, l'armata voleva ed aveva il diritto di ritornare
ai suoi focolari. Se Ottone avesse voluto stabilire in Italia un gran
signore con una ragguardevole forza, non poteva farlo che dandogli terre
per lui e per i suoi vassalli, e spogliando gli abitanti d'un'intera
provincia delle loro proprietà: tirannica misura che, senza procurargli
assai fedeli vassalli, gli faceva tanti implacabili nemici. Se poi si
accontentava di provvedere le province di governatori stranieri senza
cambiarne gli abitanti, siccome i governatori non avrebbero avuto altra
forza che quella dei loro soggetti, così non potevano sperare d'essere
ubbiditi se non facendosi amare, e finchè i loro ordini non si
opponessero all'interesse dei vassalli. Per ultimo se Ottone si fidava
ai baroni italiani, si poneva, allontanandosi, in loro balìa più che non
lo fossero i suoi predecessori.
Ma Ottone era potente e glorioso; e ne' quattr'anni ch'egli aveva
impiegati alla testa d'una poderosa armata a sottomettere il regno
lombardo, egli aveva con mano forte preso lo scettro, e sempre trionfato
de' barbari, e represse le ribellioni de' sudditi e di suo figlio
medesimo[96]. Sempre caro a' suoi soldati, fu rispettato dal clero,
benchè si fosse valso dei primi per comprimerlo, deponendo due
pontefici, e riducendo la Chiesa nella sua dipendenza. Accrescevano la
sua potenza la fermezza del suo carattere, e la costanza irremovibile
delle sue risoluzioni che tendevano sempre a grandi cose. Pure con sì
grandi mezzi non avrebbe ancora potuto arrogarsi un'autorità dispotica,
senza esporsi a perderla all'istante che ripasserebbe le alpi. Fu troppo
savio, e troppo grande per farne soltanto l'esperimento; egli si valse
all'opposto della medesima sua potenza per gettare i fondamenti della
libertà.
[96] Lodolfo suo figliuolo del primo letto, che si ribellò l'anno
953, dopo essersi pacificato col padre morì l'anno 957 in Italia,
che voleva conquistare.
Le città erano state fino a' quei tempi governate dai loro conti, che
d'ordinario erano pure i loro vescovi: questi signori essendo quasi
tutti italiani dovevano per conseguenza essere poco ben affetti
all'imperatore. Non li rimosse Ottone, non ne ristrinse pure formalmente
le prerogative, ma favorì gli abitanti delle città a dilatare le loro
immunità con pregiudizio delle prerogative signorili. Il conte, come il
re, non aveva truppe sotto i suoi ordini, onde per dar esecuzione ai
suoi voleri in una città assai popolata, ed avvezza alle armi, era
forzato o di guadagnarsi l'affetto de' cittadini col rinunciare ad
alcune prerogative, oppure d'invocare l'autorità del re che non era
disposto a favorirlo.
Le città in certo qual modo abbandonate a sè medesime, si diedero, di
consenso del re, un governo municipale[97]. Tali costituzioni si
stabilirono durante il regno d'Ottone il grande e de' suoi successori,
senza opposizione, senza tumulto, ma altresì senza una carta che ne
attesti la legittimità: quindi l'antichità loro non è comprovata che
dalla prescrizione sempre in progresso allegata dalle città, qualunque
volta vennero richiamati in dubbio i loro privilegi.
[97] Nel 6.º capitolo si parlerà dell'origine dei municipj.
I nuovi municipj conservarono per Ottone il grande loro benefattore la
debita riconoscenza, che non venne meno finchè durò la di lui famiglia:
ma quando l'ultimo degli Ottoni morì senza figliuoli, trovandosi per
tale avvenimento sciolti dai vincoli che gli univano alla casa di
Sassonia, scossero interamente il giogo tedesco.
Per altro Ottone il grande negl'intervalli che dimorava fuori d'Italia
non lasciò depositarie del suo potere le sole città: poichè aveva
investiti varj signori tedeschi, ed alcuni italiani che gli avevano dato
sicure prove d'attaccamento, dei feudi più importanti, del marchesato di
Verona e del Friuli, e del ducato di Carintia. Enrico duca di Baviera
suo fratello, onde avere in ogni tempo libero l'ingresso d'Italia[98],
creò il marchesato d'Este in favore d'Oberto, uno dei gentiluomini che
lo avevano assistito contro di Berengario; ne instituì un altro che
comprendeva le diocesi di Modena e di Reggio per Alberto Azzone bisavo
della contessa Matilde, quello che aveva accolta nella sua fortezza di
Canossa l'imperatrice Adelaide[99]. Per ultimo creò il marchesato di
Monferrato per suo genero Almarano[100]. Alle città italiane riuscì
utile questa sostituzione degli stranieri e nuovi feudatarj agli
antichi. Il potere de' nuovi signori era vacillante ed incerto; i loro
vassalli ne erano gelosi, e lungi dal difenderli, cercavano di
spogliarli dei loro diritti; i vicini non si movevano per soccorrerli,
ed ogni giorno perdevano qualcuna delle loro prerogative. Abbandonarono
quindi le città, e si ridussero ne' loro castelli, ove credevansi più
sicuri, ma trovaronsi per tal modo, rispetto al potere, ridotti alla
condizione de' gentiluomini, comecchè conservassero la superiorità del
rango.
[98] _Contin reg. chr. Germ. l. II, p. 106 apud Struvium scr. Germ.
t. I._
[99] _Donizo Vit. nat. lib. I c. I. Script. It. V, p. 349._
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