Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 01

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STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO
DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.
Traduzione dal francese.
TOMO I.



Italia
1817.


INTRODUZIONE.

_La storia c'insegna che il carattere dei popoli, le virtù o i vizj,
l'energia o l'indolenza, i lumi o l'ignoranza non sono quasi mai
l'effetto del clima o della particolar razza, ma l'opera del governo e
delle leggi: che tutto dalla natura vien dato a tutti, ma che il governo
conserva questa comune eredità al suoi soggetti, o ne gli spoglia._
_Tale verità, più che da qualunque altra, viene luminosamente dimostrata
dalla storia d'Italia. S'avvicinino le diverse razze d'uomini che
successivamente abitarono questa terra di grandi memorie; si confrontino
le loro qualità caratteristiche, la moderazione, la dolcezza, la
semplicità dei primi Etruschi, l'austera ambizione, il maschio coraggio
de' coetanei di Cincinnato, l'avidità e l'ostentazione de' partigiani di
Verre, la mollezza e la viltà dei sudditi di Tiberio, l'ignoranza de'
Romani de' tempi d'Onorio, la barbarie degl'Italiani soggiogati dai
Lombardi, la virtù loro nel secolo dodicesimo, lo splendore del
quintodecimo e finalmente il_ decadimento _de' moderni Italiani[1].
Eppure lo stesso suolo alimentò questi esseri di così diverso carattere,
lo stesso sangue circolò nelle loro vene; perciocchè le barbare nazioni
che vi si frammischiarono, perdute, per così dire, nel vasto mare
degl'indigeni, non hanno potuto in verun modo modificare la fisica
costituzione degli uomini che l'Italia produceva. Ma se la natura rimase
la medesima per gl'Italiani d'ogni tempo, cambiò frequentemente il
governo, e le sue mutazioni precedettero sempre o accompagnarono le
mutazioni del carattere nazionale; e le cause non furono mai tanto
evidentemente legate agli effetti._
[1] L'autore parlava de' tempi in cui gli stati d'Italia erano
manomessi ad arbitrio dal governo francese. I primi volumi di questa
storia si pubblicarono in Zurigo del 1807.
_Gli Etruschi, che precedettero i tempi romani, sono i primi popoli
d'Italia di cui la storia abbia fino a noi tramandate poche ed incerte
memorie. Le maremme, oggi deserte, erano allora sparse di borgate[2], e
la terra, sempre fertile in ragione del travaglio, era per loro una
sorgente inesausta di ricchezze in greggie ed in grani. La lunga
prosperità di cui godettero avendo loro permesso di occuparsi delle
scienze e delle arti, se non furono superiori ai Greci, li precedettero
almeno nella gloria letteraria. I poeti chiamarono età dell'oro il regno
di Saturno nell'Etruria, e non si scostarono affatto dalla verità.
[2] Siccome ignoriamo perfino i nomi degli scrittori etruschi o
tirreni, e che questi popoli non ci sono conosciuti che per pochi
frammenti greci e latini, così rimarranno sempre avvolti in molta
oscurità. Ciò nulla ostante abbiamo una prova della potenza loro
nelle colossali muraglie di Volterra, del loro gusto ne' vasi che
conservaronsi fino al presente, del loro sapere nel culto di Giove
Elieo, cui attribuirono l'arte da loro conosciuta, e rinnovatasi a'
nostri tempi d'evitare e dirigere i fulmini.
_Avevano gli Etruschi adottato il governo della prosperità e della
libertà, il governo federativo[3]. Diasi lode ai popoli liberi, i quali,
non lasciandosi sedurre dall'ambizione, preferiscono alla potenza ed
alla gloria il migliore d'ogni bene, la libertà: essi chiedevano al loro
governo non conquiste novelle, ma universale amore e moderazione.
Onoriamo le nazioni libere che preferiscono ad ogni altro governo il
federativo, non tanto perchè si limita a difendersi dalle straniere
aggressioni, ma più ancora perchè non si lascia affascinare dai prosperi
avvenimenti, o sedurre da ambiziosi progetti._
[3] L'autore come buon Svizzero esalta sopra tutti i governi quello
della sua patria; ma come potrebb'egli provare che il medesimo
converrebbe anche alle nazioni più numerose, più ricche e più molli
di quello che sono gli Svizzeri? N. d. T.
_Nè gli Etruschi erano allora i soli popoli federati d'Italia; che anzi
i Sabini, i Latini, i Sanniti, i Bruzi, e quant'altre nazioni
guerreggiarono contro Roma, ebbero tutte un governo federativo. Tali
leghe non fecero, è vero, splendide conquiste, ma seppero solidamente
stabilirsi; perciò che non soggiacquero alla romana possanza che dopo
una lunga prosperità. Queste nazioni sì poco conosciute, e così degne
della comune ammirazione, scomparvero[4], e con loro perdette l'Italia
la felicità, le ricchezze, la popolazione, la vera libertà. Il popolo
romano, quel popolo re, sagrificò tanti beni allo splendore d'un gran
nome, alla perniciosa gloria delle conquiste._
[4] Il sig. Micali, dotto fiorentino, sta scrivendo la storia de'
popoli che abitarono l'Italia avanti i tempi romani. (_Si pubblicò
in Firenze nel 1810._)
_Che se le federazioni dovettero finalmente cedere al fato di Roma,
l'ostinata lotta che sostennero nel corso di tre secoli prova abbastanza
che la debolezza non è un difetto intrinseco delle costituzioni
federative: esse dovettero succumbere perchè non è dato, specialmente ai
governi liberi, d'avere troppo lunga durata, e la felicità è un bene
così sfuggevole, così straniero, per così dire, all'umana specie, che
niuna istituzione è valevole ad assicurargliene il possesso. Se una di
quelle calamità, che sempre minacciano la nostra specie, investe una
nazione libera, se la peste condensa gli uomini nei sepolcri, se una
lunga guerra impoverisce lo stato, se scarseggiano i prodotti della
terra, se languisce il commercio, se manca il travaglio ai lavoratori, i
mali presenti, il timore dell'avvenire, bastano a sovvertire un governo
paterno, tutta la di cui forza essendo posta nell'amore de' sudditi, non
può mantenersi se non quanto dura la loro felicità. La tirannia per lo
contrario prende vigore e consistenza in mezzo alle calamità generali,
imperciocchè quanto più grandi sono le sventure che l'opprimono, tanto
meno una nazione può far fronte all'oppressione; anzi non trova miglior
consiglio per resistere a nuove sciagure, che quello di porre tutte le
sue forze in arbitrio del governo. Le federazioni italiane soggiacquero
a quelle sventure dalle quali verun governo può guarentire le
popolazioni; e colle federazioni ebbero fine gli sforzi dell'Europa per
l'indipendenza. Quando i Sanniti furono oppressi, il mondo intero non
potè più resistere alla potenza romana._
_Questo gran popolo, la di cui gloria riverbera ancora su l'Italia,
riconobbe le sue conquiste e le sue virtù dal primo governo, che altro
non era che una nascente aristocrazia, la quale per essere nuova doveva
necessariamente essere fondata sulla preminenza del merito, ed invece
d'avvilire gli ordini inferiori del popolo, li rendeva più
intraprendenti cogli stessi sforzi che faceva per sottometterli._
_Più tardi il lusso e la cupidigia dei Romani, lo spopolamento delle
campagne, l'avvilimento della plebe furono l'effetto necessario delle
loro vittorie, delle vaste conquiste, dello stabilimento della monarchia
universale, e di quello stesso governo che loro diede la propria
eccessiva potenza._
_Allo stabilimento del despotismo tenne dietro sotto gl'imperatori la
perdita di tutte le virtù. A sovrani militari portati sul trono dai
delitti non dalla nascita o dalle virtù, non potevano ubbidire che gli
schiavi più vili ed abbietti. Costretti a valersi sempre della forza,
distrussero la pubblica opinione, ch'era in addietro il principale
incoraggiamento e la più cara ricompensa della virtù._
_Il despotismo ricondusse la barbarie, la quale fece poi a vicenda
rinascere il valore e la libertà. Il tanto celebrato e glorioso secolo
d'Augusto fu l'epoca fatale in cui gli uomini avviliti perdettero il
coraggio, l'energia, il talento. Augusto raccolse, è vero, i frutti
della libertà e della repubblica; ma cinque secoli di vergogna e
d'avvilimento furono le tristi conseguenze del suo regno, e del mutato
governo. Non vi vollero meno di altri cinque secoli di barbarie per far
dimenticare agli uomini le funeste lezioni del despotismo, per restituir
loro l'energia, per creare presso de' medesimi i soli elementi onde può
formarsi una nazione._
_Questa nazione uscì finalmente di mezzo al caos che pareva avesse
inghiottito il mondo; il cuore degl'Italiani si riaprì di nuovo
all'amore della patria e della libertà, e non mancò loro il coraggio
necessario per acquistare e conservare questi preziosi beni. A lato alle
grandi virtù non tardarono a svilupparsi ancora i grandi talenti; le
scienze e le arti coltivaronsi felicemente, di modo che, quando
Costantinopoli cadde in potere degli Ottomani, l'Italia trovavasi
preparata a ricevere il prezioso deposito della greca letteratura, che
conservatasi in mezzo alle rovine delle province, poteva succumbere
sotto quelle della capitale. L'Europa deve alle repubbliche italiane la
ricca eredità dell'antica sapienza. Ed appunto questa seconda epoca
delle virtù, dei talenti, della libertà, della grandezza, è quella che
mi sono proposto di far conoscere._
_La storia della repubblica romana scritta da tanti eccellenti ingegni
antichi e moderni è di tutte la meglio conosciuta; e non senza ragione
si alimenta la gioventù collo studio delle cose spettanti ad un popolo
così grande, così glorioso, i di cui destini fissarono, per così dire,
quelli del mondo. Quel vivo interesse che avea eccitato la repubblica
romana, ci condusse altresì a studiare le rivoluzioni dell'impero,
quando ancora, perduta la libertà, il valore, l'energia, protraeva una
vergognosa esistenza nel vizio e nella schiavitù. Quantunque nojosa
riesca la storia d'ogni altro governo dispotico in decadimento, si segue
fino alla sua totale dissoluzione quello dell'impero d'Occidente. Dopo
dieci secoli d'oscurità torna l'Italia ad essere ben conosciuta dal
cominciamento del sedicesimo secolo. Dal regno di Carlo V in avanti,
tutti gli stati d'Europa formano come una vasta repubblica, le di cui
parti sono talmente connesse, che non è possibile di separarle per
seguire la storia d'una sola popolazione; di modo che studiando la
storia d'una nazione s'impara altresì quella di tutto il mondo
incivilito. Queste due epoche rispetto all'Italia, ugualmente illustrate
da egregi storici, sono divise dal mezzo tempo, nome con cui vengono
precisamente indicati i dieci secoli che scorsero tra la caduta di Roma
e di Costantinopoli. La storia d'Italia de' mezzi tempi, di que' tempi
che lo storico più grande dell'età nostra[5] chiamò i secoli del merito
sconosciuto, formerà il soggetto della presente opera._
[5] Johannes Muller.
_Questa storia deve terminare coll'anno 1530 quando Fiorenza, l'ultima
delle repubbliche de' mezzi tempi, fu soggiogata dalle armi spagnuole e
papaline, onde innalzare sulle di lei rovine la dinastia de' Medici[6].
Le tre altre repubbliche italiane, che protrassero la loro esistenza
oltre l'_età di mezzo, _cambiarono all'epoca della caduta di Fiorenza la
loro costituzione, di modo che ebbe allora fine la libertà d'Italia; e
la sorte di così bella contrada, fatta preda a vicenda di vicini
ambiziosi e potenti, o della perfidia di piccoli principi, non altro
sentimento può eccitare nell'animo nostro, che quello della
compassione._
[6] Il 28 ottobre 1530.
_L'età di mezzo incomincia precisamente l'anno 476, epoca in cui
Odoacre, dopo aver fatto perire il patrizio Oreste, e ridotto in
ischiavitù l'imperatore Augustolo, pose fine all'impero d'Occidente[7]._
[7] Oreste padre dell'imperatore Augustolo fu ammazzato a Piacenza
il 28 agosto del 476, e suo figliuolo esiliato a Lucullano castello
della Campania. Odoacre lo lasciò in vita in considerazione
dell'estrema sua giovinezza, e dell'antica amicizia colla sua
famiglia, e lo provvide di larghi appuntamenti. _Hist. miscellæ l.
XV. p. 99. Scr. Rer. It. t. I. Jornandes de Reg. et temp.
successione. Ib. p. 239._
_Ma non è propriamente la storia d'Italia che noi abbiamo proposto di
scrivere, bensì quella delle repubbliche italiane. L'oppressione ed il
guasto d'una sventurata provincia, ove più non rimane alcuno spirito
nazionale, alcun vigore, alcun sentimento virtuoso e sublime, può ben
formare un quadro da presentarsi utilmente allo sguardo degli uomini,
onde far loro conoscere le funeste conseguenze di un governo corruttore;
ma non può essere il soggetto d'una perfetta storia. La ripetizione
degli stessi atti di crudeltà e di bassezza affatica lo spirito,
rattrista il cuore del lettore, ed avvilisce il carattere di quell'uomo
che ne facesse troppo lungo argomento de' suoi studi. Non è già la
storia de' paesi che noi amiamo di conoscere, ma quella delle
popolazioni; e questa non incomincia che collo sviluppo di quel
principio di attività che le costituisce nazioni. La storia dell'Italia
sotto la dominazione dei barbari è piuttosto quella delle nazioni
conquistatrici, che quella dei popoli sottomessi._
_L'Italia rinvigorita dall'unione del suo popolo coi popoli
settentrionali, scossa da una scintilla di quella libertà che più non
conosceva, resa energica dalla dura educazione della barbarie e della
sventura; l'Italia, dopo essere stata lungo tempo una debole e mal
difesa provincia dell'impero romano, diventò, non già una nazione, ma un
semenzajo di nazioni. Ogni sua città fu un popolo libero e repubblicano;
ed ogni città del Piemonte, della Lombardia, della Venezia, della
Romagna, della Toscana meriterebbe una storia parziale; ed ognuna in
fatti può presentare una biblioteca di cronache e di scritture
nazionali. Grandiosi caratteri svilupparonsi in questi piccoli stati, e
vi germogliarono le più vive passioni, coraggio, eroismo, virtù ignote
alle grandi popolazioni condannate per sempre all'indolenza ed
all'obblìo._
_Le repubbliche italiane de' mezzi tempi le quali si resero gradatamente
libere dal decimo al dodicesimo secolo, ebbero, durante la loro
indipendenza, grandissima parte all'incivilimento, alla prosperità del
commercio, all'equilibrio della politica d'Europa. Pure sono sconosciute
alla maggior parte degli uomini mediocremente versati nello studio della
storia, perchè l'intera vita appena basta alla lettura delle parziali
loro storie, non essendosi finora trovato chi si prendesse l'incarico di
riunire sotto un solo punto di vista una storia generale. Si è potuto
scrivere la storia della Svizzera perchè la loro federazione presentava
un punto centrale; si potè fare lo stesso della Grecia, perchè la gloria
d'Atene richiamava tutti gli sguardi sopra di sè, e permetteva di
collocare, quasi accessorj del quadro, nelle parti meno illuminate, i
popoli suoi rivali o sudditi. Ma l'Italia ne' tempi di mezzo presenta un
tale labirinto di stati uguali ed indipendenti, che a ragione si teme di
smarrire il filo. Noi non ci dissimuliamo quest'essenziale difetto
dell'argomento che abbiamo preso a trattare, ma speriamo che,
quand'anche i nostri sforzi non venissero coronati da prospero successo,
il lettore vorrà saperci buon grado di ciò che abbiamo fatto per
ottenere l'intento[8]._
[8] In ragione che un argomento storico è più complicato, richiede
più o meno lavoro per riunire i materiali necessarj. Ogni stato ha
la sua storia ed i suoi separati documenti; ho citato a piè di
pagina i libri ed i documenti di cui mi valsi in appoggio della mia
scrittura. Non era agevol cosa il riunire tante cose assieme: per
riuscirvi soggiornai tre anni in Toscana patria dei miei antenati:
poscia scorsi tre volte quasi tutta l'Italia, riconoscendo que'
luoghi che servirono di teatro ai grandi avvenimenti. Ho travagliato
in quasi tutte le biblioteche, visitati gli archivj di molte città e
conventi; e perchè la storia d'Italia trovasi interamente legata con
quella della Germania, percorsi ancora tutta questa contrada per
cercarvi documenti storici. Finalmente ho fatto acquisto di tutti i
libri che trattano de' tempi e dei popoli, che mi sono proposto di
far conoscere. Mi sia permesso di parlare di tutte le fatiche da me
sostenute, onde meritarmi, se fia possibile, la confidenza de' miei
leggitori.
_Divideremo in due parti presso che uguali quel periodo di quasi undici
secoli che divide la storia dell'impero d'Occidente dal regno di Carlo
V: i primi sei secoli precedettero e prepararono le nostre repubbliche;
i cinque ultimi abbracciano i tempi della loro durata. Tratteremo
sommariamente il primo periodo, consacrando, quasi introduzione, i primi
sei capitoli dell'opera a dare contezza di que' tempi che nascondono tra
le loro tenebre il rinascimento delle virtù pubbliche in seno alla
barbarie e lo sviluppo del carattere nazionale. Col settimo capitolo
soltanto entreremo di proposito nella nostra storia[9]; e dalla pace di
Worms conchiusa tra la Chiesa e l'Impero l'anno 1122, seguiremo passo
passo le nostre repubbliche, tenendo conto degli sforzi che fecero per
assicurarsi l'indipendenza e di quanto operarono sia nella guerra della
libertà che sostennero contro Federico Barbarossa, sia ne' posteriori
tempi, quando l'una appresso l'altra, cedendo alla forza o al
tradimento, caddero in podestà di qualche principe._
[9] Pare che il nostro autore si proponesse a suo modello la
prefazione premessa da Robertson alla sua vita di Carlo V, come
questi aveva preso ad imitare i primi libri della storia fiorentina
di Nicolò Machiavelli: ma come pensano alcuni che lo scrittore
inglese non uguagliasse il suo inarrivabile esemplare, il nostro
storico ancora rimase forse alquanto addietro di Robertson. Coloro
che non leggessero che i primi sei capitoli di questa storia non
potrebbero adequatamente giudicare del merito sommo e della nobiltà
di quest'opera, che riempie un gran vuoto della storia italiana. N.
d. T.


STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE


CAPITOLO I.
_Mescolanza degl'Italiani coi popoli settentrionali dal regno di
Odoacre fino a quello d'Ottone il grande._
476 = 961.

In sul declinare del quinto secolo, Romolo Augustolo, imperatore
d'Occidente, figliuolo d'un patrizio che di que' tempi era forse il solo
generale nato romano, fu deposto da' suoi soldati, che gli sostituirono
Odoacre, uno de' capitani delle guardie imperiali, d'origine Erulo o
Scita[10]. Questo usurpatore soppresse per modestia il nome d'impero
occidentale, e si accontentò del titolo di re d'Italia. Allora la
sovranità di Roma fu per la prima volta trasferita alle nazioni
settentrionali.
[10] Procop. _De Bello Goth. l. 1. c. 1_. — Byzant. t. II. p.
2. — Jornandes _De reb. Get. c. 46. t. I_. — _Rer. Ital. p. 214._
Un signore italiano, Berengario marchese d'Ivrea, fu cinque secoli dopo
coronato da' suoi compatrioti re d'Italia, e poco dopo dai medesimi
deposto. Allora i grandi feudatarj chiamarono dalla Sassonia Ottone re
d'Allemagna, ed a lui volontariamente si sottomisero, aggiungendo alla
dignità di re di Lombardia il titolo d'imperatore, che gli Occidentali
avevano fatto rivivere due secoli prima in favore di Carlo Magno, e
lasciato poi cadere in dimenticanza. E per tal modo con una strana
rivoluzione, della loro patria indipendente ne formarono una provincia
dell'impero germanico, quantunque assai lontana dalla sede del governo.
Queste due rivoluzioni che sostituirono il nome di monarchia a quello
d'impero, ed il nome d'impero a quello di monarchia, determinano la
durata delle sventure che travagliarono l'Italia avanti che potesse
riprendere il carattere e l'energia di nazione libera. Tali rivoluzioni
che presentano alcuni rapporti di circostanze generali, si
rassomigliarono assai più negli effetti. La prima che sembrava aver
posto il colmo all'ignominia di Roma, fece poc'a poco ripullulare tra
gl'inviliti Italiani le virtù ed il coraggio, che aveva distrutti il
dispotismo dei Cesari. L'ultima che si credette dover porre l'Italia
nella vergognosa dipendenza dei Tedeschi suoi antichi nemici, fu quella
invece che ridestò negl'Italiani il desiderio della libertà, e fu la
cagione immediata del risorgimento de' governi repubblicani.
Incerte ugualmente ed oscure sono le storie d'Augustolo e di Odoacre, di
Berengario e di Ottone; e dense tenebre ricuoprono que' tempi di
profonda ignoranza. Grandissima non pertanto è la diversità che passa
tra gl'Italiani del quinto, e quelli del decimo secolo. Nella prima
epoca troviamo la nazione caduta in quell'estremo avvilimento, cui il
più insultante dispotismo possa ridurre un popolo civilizzato; quando
nella seconda andava ripigliando quell'energia, quell'indipendenza di
carattere, che una lunga serie di traversie può dare ad un popolo
barbaro.
Sotto gli ultimi imperatori la nobiltà di Roma più capace non era di
grandi e generose passioni. Resa straniera alle cariche politiche e
militari, erasi spento nel cuor de' patrizj perfino il desiderio della
gloria; ed avrebbero creduto di avvilirsi col servire allo stato. Se la
storia ricorda ancora di quando in quando i nomi delle antiche generose
famiglie, non è che per parlare delle loro ricchezze e delle loro
sventure. Poteva la storia raccontare quanti preziosi arredi avevan
preso i barbari nei loro palazzi, e di quante migliaja di schiavi
spogliati i loro poderi; ma niente dir poteva di uomini affatto incapaci
di grandi azioni, i quali, senza talenti e senza virtù, passavano
confusi colla plebe abietta non lasciando alcuna traccia di sè medesimi.
Il rimanente della nazione, se fosse stato possibile, ancora più vile
dei patrizj, si nasconde affatto alle nostre ricerche. Osservando le
armate composte soltanto di stranieri e le campagne popolate di schiavi,
si domanda invano alla storia ov'erano allora gl'Italiani. Quando
leggiamo gli annali degli ultimi regni dell'impero d'occidente, quasi
non ci avvediamo che trattasi ancora d'un vastissimo stato: le armate
ridotte ad un pugno di uomini, il tesoro incapace di sostenere le più
piccole spese, l'impero mal difendersi dal più ignobile aggressore, il
popolo ed il senato permettere che un capitano delle guardie dia e tolga
a sua voglia il diadema a persone straniere, niun ordine della nazione
avere un sol uomo capace di prendere coraggiosamente le redini del
governo; tutto ci farebbe credere che trattisi d'un ignobile feudo,
anzichè della nazione erede del nome e della grandezza di Roma[11].
[11] Veggansi _Gibbon Storia della decadenza dell'impero romano c.
35. e 36._, _Murat. Ann. d'Italia an. 423=476_. E tra gli autori
originali la Storia miscella _l. XIV. e XV. Scrip. Rer. It. t. I. p.
92=99_; come pure le varie cronografie degli scrittori britannici.
Ma allorchè la corona d'Italia passò ad Ottone il grande, molti nobili
fieri indipendenti bellicosi cercavano con entusiasmo la gloria ed il
potere; nè avrebbero senza indignazione tollerato che persone straniere
alla loro classe, fossero i giudici, i generali, i ministri del re, i
difensori della patria. I minori vassalli non lasciavano, benchè meno
potenti, di mostrarsi al par dei primi energici ed audaci. Non potendo
aspirare alla signoria, combattevano per l'indipendenza: fortificavano
le loro rocche, addestravano all'armi i loro paesani, e volevano
intervenire alle assemblee nazionali, rifiutando di sottomettersi alle
leggi e ai tributi, cui non avessero data la sanzione col loro
preventivo assenso. D'altra parte i borghigiani, resi forti dalla loro
riunione nelle città, riclamavano la conservazione delle leggi e delle
costumanze municipali, e chiedevano di partecipare a quella libertà, che
non doveva essere l'appannaggio esclusivo d'una casta privilegiata, ma
appartenere a tutti gli uomini che sanno rendersene degni col coraggio e
colle virtù. E per tal modo l'intera nazione, animata dal medesimo
principio di vita, s'andava agitando per ogni lato, e facendo sperienza
delle proprie forze: e quando ancora non aveva trovato l'arte di
valersene in sua difesa, e per la propria felicità, pronunciava
oscuramente le grandi cose di cui mostrerebbesi un giorno capace.
Così notabile cambiamento nel carattere d'una intera nazione basta a
render degno della più grande attenzione questo primo periodo dell'età
di mezzo: una nazione ringiovenita dopo esser giunta all'estremo grado
di decrepitezza, è un fenomeno singolare, che altrove la storia non ci
presenta. Ma i cinque secoli, nel corso de' quali si rifuse il genere
umano, sono coperti da così dense tenebre, che le più accurate indagini
non dissiperanno giammai interamente. Verun monumento, veruno storico
abbastanza esatto ci rimane di que' tempi in cui tre popolazioni
settentrionali, i Goti, i Lombardi, i Franchi, s'incorporarono
successivamente agl'Italiani resi loro soggetti: troppo erano avviliti
gli ultimi avanzi della popolazione civilizzata; troppo ignoranti i
conquistatori per iscrivere la storia de' loro tempi. Le poche cronache
contemporanee ne conservarono bensì i nomi dei re, le guerre che
sostennero, e le rivoluzioni che frequentemente li balzavano dal trono,
ma non ci danno veruna notizia dei popoli, onde giudicar si possa dei
costumi e dello sviluppo delle sue facoltà. Altronde la storia de'
principi è affatto straniera al nostro scopo, quando non ci fa conoscere
le cagioni che diedero origine alle nostre repubbliche. E per tal modo
forzati di rinunciare al pensiero di dare una soddisfacente storia di
questi tempi d'oscurità, ci limiteremo ad indicare sommariamente il modo
con cui i settentrionali frammischiaronsi alle nazioni del mezzodì, per
richiamare poi separatamente ad esame alcuni oggetti, che in particolar
modo richiedono la nostra attenzione; cioè l'origine, i progressi e lo
scioglimento del sistema feudale, la storia della città e della chiesa
di Roma dopo la caduta dell'impero occidentale, la storia delle città
greche del mezzo giorno d'Italia, quelle delle città marittime, e
finalmente quella della formazione di tutti i municipj che diventarono
governi liberi. Così procedendo, potremo spargere qualche lume sui primi
secoli dell'età di mezzo, senza obbligarci ad una cronologica
nomenclatura di nomi barbari, che il lettore può facilmente trovare in
altre opere.
(476) Allorchè fu distrutto l'impero d'occidente, la _civilizzazione_ si
ridusse entro i limiti dell'impero d'Oriente[12]. I sovrani di
Costantinopoli contavano ancora tra le loro provincie la Grecia, la
Tracia, parte dell'Illirico, l'Asia minore, la Siria e l'Egitto: ma in
quest'epoca l'impero occidentale fu tutto diviso in brani tra le nazioni
del settentrione. I Franchi stabilironsi nelle Gallie, gli Anglo-Sassoni
nella Brettagna, i Visigoti nella Spagna, nell'Africa i Vandali, ed
Odoacre ebbe il regno d'Italia.
[12] All'epoca di cui si tratta non era dall'Italia, benchè dominata
dagli stranieri, sbandita affatto ogni coltura, e si possono
ricordare alcuni uomini illustri nelle lettere sacre e profane.
Altronde tante facoltose famiglie che seco trassero nelle isole
della Venezia letterati ed artefici e clienti d'ogni genere, e
v'innalzarono l'edificio della libertà italiana, hanno potuto
dividere colle provincie dell'impero greco il sacro deposito della
coltura e dei lumi che abbandonavano le contrade d'Italia occupate
dai barbari. Merita intorno a quest'argomento d'essere letta
l'erudita dissertazione di Gerolamo Zanetti: _Dell'origine d'alcune
arti principali appresso i Veneziani_. N. d. T.
(476 = 493) Sotto il dominio d'Odoacre non vennero in Italia popolazioni
nuove, e soltanto vi si fissarono più stabilmente que' mercenari
stranieri, che da molti anni formavano essi soli l'armata dell'impero.
Questi mercenarj sotto il comando d'un loro compatriotta si arrogarono
tutti i poteri dell'impero, siccome coloro che ne formavano tutta la
forza. Diedero al loro capo il titolo di re; e dal nuovo re domandarono
ed ottennero una distribuzione di terreni, per cui la terza parte delle
campagne d'Italia passò in proprietà de' barbari[13].
[13] _Proc. de bello Got. l. I. Byzan. Hist. Scrip. Editio Ven. t.
II. p. 2._
Il governo de' mercenarj, ed il regno di Odoacre durarono
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