Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 18

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repubblicano, e tutte dispiegare le passioni proprie di tale governo. Le
rivoluzioni d'Italia, di cui si è dato uno schizzo, e lo sviluppo che
diedero al carattere nazionale, ci prepararono a contemplare i movimenti
delle città per rendersi indipendenti: ma quest'ultima rivoluzione non
può presentarsi allo sguardo dei lettori[397]. Quantunque l'origine de'
governi repubblicani, ed i progressi loro, siano un argomento degno
della nostra curiosità ed assai vario ed interessante, non possiamo
darne una sufficiente idea ai nostri lettori per esserci ignote tutte le
particolari circostanze; ed appena può sollevarsi leggiermente il velo
che coprirà per sempre questa prima epoca delle città libere. L'Italia
settentrionale quasi non ebbe istorici nei secoli decimo ed undecimo;
onde per far conoscere le contese di Enrico colla santa sede fummo
costretti di appigliarci ai racconti degli scrittori tedeschi assai più
completi e circostanziati a quest'epoca, di quelli degl'Italiani. Se
avvenimenti di così grande importanza, che dovevano ne' posteriori tempi
eccitare tanto interessamento, non trovarono scrittori che ne
perpetuassero la memoria, non è da stupirsi che lo stabilimento ed i
progressi delle municipalità oscure, le quali procuravano di nascondere
al pubblico l'indipendenza che andavano sordamente acquistando, non
siano stati registrati in veruna storia. I borghesi rendevansi liberi
appropriandosi a poco a poco le prerogative de' principi; combattevano
gli abusi con quelle armi medesime che gli avevano introdotti;
usurpavano la libertà nella stessa maniera che i gentiluomini avevano
acquistata la tirannia; e perchè procuravano di nascondere a' principi,
interessati alla loro servitù, i prosperi successi, così non permisero
che se ne tramandasse la memoria ai posteri. All'ombra del silenzio
andavan sempre introducendosi nuovi privilegi favoreggiati dal tempo; e
prima che se ne contestasse il diritto, potevano difenderli coll'uso
costante di molte generazioni.
[397] La debolezza degl'imperatori d'Oriente, ed il timore ch'essi
avevano de' Saraceni, non permettevano loro di pensare alle cose
dell'Italia meridionale, come le guerre della Germania impedirono ad
alcuni imperatori occidentali di prendersi cura delle città
dell'alta Italia. In tale stato di cose i grandi feudatarj,
rendendosi affatto indipendenti, andarono a poco a poco aggravando
il giogo delle città, le quali avendo incominciato a far esperimento
delle proprie forze, giunsero a scuotere il giogo de' loro tiranni,
ed a farsi libere. In mezzo però alla loro libertà, e quantunque in
guerra talvolta cogl'imperatori, non cessarono di riconoscerne
l'alta supremazia, anche quando erano vittoriose; come apparisce
chiaramente dalla pace di Costanza, che riconoscendo la libertà
delle repubbliche lombarde, non le dissoggettava affatto
dall'impero. N. d. T.
Ma quando le città credettero d'aver acquistata maggior considerazione,
cominciarono pure a desiderare maggiore celebrità; ed allora ebbero
storici che sforzaronsi di sparger lume sulla prima loro origine, e
talvolta di nobilitarle col racconto di favolose tradizioni. Le
scritture di questi storici sono tanto più aride, in quanto che vissero
ancor essi in tempi assai rimoti; e le cronache del dodicesimo e del
tredicesimo secolo, alle quali, allorchè mancano scrittori
contemporanei, dobbiamo prestar fede, si contentano, quando rimontano
oltre al decimo secolo, d'indicare ogni anno la morte d'un vescovo o
d'un santo, la fabbrica di una chiesa, o l'invasione d'un popolo
barbaro. Una frase loro basta per descrivere un avvenimento, e questa
frase è d'ordinario così insignificante, quanto per sè stesso il fatto
isolato.
Col soccorso degli storici stranieri, e sopra tutto dei documenti
estratti dagli archivj de' conventi e delle famiglie, i dotti del
passato secolo ottennero non pertanto di potere scrivere la storia delle
proprie città nel decimo ed undecimo secolo, in modo di appagare la
curiosità de' loro concittadini, e la vanità de' loro nobili, ai quali
somministrano prove, se non di virtuose opere dei loro antenati, almeno
della loro esistenza: ma tali storie cessano d'essere interessanti
quand'escono dalle mura della propria città[398]. Sono inoltre in
qualche maniera intermittenti, se può farsi uso di tale espressione,
perchè gli avvenimenti abbastanza circostanziati non si presentano che
ad intervalli assai lontani, duranti i quali nulla troviamo che fermar
possa la nostra attenzione. Rinunciando adunque ai particolari storici
di ogni città i minuti racconti, ci limiteremo ad indicare con alcuni
tratti generali ciò che appartiene alle città di Lombardia, della
Venezia e della Toscana; i primi elementi di una costituzione
repubblicana nella formazione dei loro municipj, il primo acquisto dei
diritti di guerra e di pace, il primo impulso dato all'industria ed al
commercio, le prime loro contese colla nobiltà, ed il primo ricevimento
in seno alle nascenti repubbliche, di questa classe straniera che
comunicò alla plebe cui si associava il proprio lustro, e che procurò
alle città maggiore considerazione nelle diete dell'impero.
[398] Ciò deve intendersi della generalità, essendovene alcune
scritte abbastanza filosoficamente, ed interessanti ancora per i
forestieri.
Il primo diritto acquistato dalle città, che diventasse loro utile per
conseguire l'indipendenza, fu, come abbiamo altrove osservato, quello di
circondarsi di mura per difendersi nel nono secolo, ed in principio del
decimo, dalle rapine degli Ungari e dei Saraceni. I Germani e gli Sciti
avevano estrema avversione per le città chiuse, risguardandole come
prigioni. Perciò in tutti i paesi da loro conquistati avevano spianate
le fortificazioni delle città, le quali chiamavansi fortunate quando non
vedevano arse le case, e massacrati o dispersi gli abitanti. E per tal
motivo tutte le fortificazioni furono distrutte nel regno dei Lombardi,
e non si permise di rialzarne di nuove senza l'espresso assenso del re,
cui spettava la difesa del regno.
Di qui accadde, senza dubbio, che nei posteriori tempi le città aperte e
rovinate dalle incursioni dei barbari, dovettero ricorrere al monarca
per ottenere la facoltà di difendersi. Fu sempre in virtù d'una carta
dei re, o degl'imperatori, che le città rifecero le proprie mura, e
queste carte, accordate prima con difficoltà, s'andarono moltiplicando
nel nono e decimo secolo in tal modo, che ben tosto non solo le città,
ma non v'ebbe quasi monastero, borgata o castello, che non avesse in
forza d'un diploma imperiale ottenuto il diritto di fortificarsi[399].
[399] Molti di questi diplomi vengono riportati dal Muratori nelle
Antichità; e fra gli altri, due di Berengario I del 911 e 912. _t.
II. p. 467, et 469._
Allorchè le città poteron difendersi da loro medesime, cominciarono ad
acquistare il sentimento della propria importanza; e quando formarono un
corpo politico, la principale loro cura fu quella di accrescerne i
privilegi. Pure fino al regno del grande Ottone, a fronte degli aperti
vantaggi delle fortificazioni, le città, trovandosi abbandonate dai
nobili che ne potevano accrescere il lustro, furono invece impoverite
dalle frequenti contribuzioni imposte dai barbari, e più ancora dai
disordini dell'anarchia, o di un cattivo governo. Niun cittadino poteva
distinguersi; non colle lettere affatto neglette, non colla nascita che
presso la plebe non aveva splendore, non colle ricchezze possedute dai
soli nobili, non col commercio allora quasi nullo, non infine coi
militari talenti e col valore che non avevano occasione di far
conoscere: e per tal modo erano le città a tale epoca avvolte in una
profonda oscurità.
Abbiamo già veduto che sotto il regno d'Ottone I, e colla sua
protezione, la maggior parte delle città si diedero un governo
municipale fondato nella confidenza e nella scelta del popolo. Esse
ebbero in ogni tempo alcuni magistrati popolari chiamati dalle leggi
lombarde _schultheis_, e dalle franche _scabini_; i quali formavano il
consiglio del conte delle città, e ne rappresentavano la plebe: ma
quando Ottone I permise ai cittadini di darsi un'amministrazione più
libera, abbandonate queste istituzioni settentrionali, procurarono di
costituirsi dietro il modello della repubblica romana e delle sue
colonie, per quanto glielo permettevano le imperfette nozioni della
storia[400].
[400] _Murat. antiq. Ital. dissert. XLV. et XLVI. tom. IV._
Da principio tutte le città preposero alla loro amministrazione due
consoli annuali eletti coi suffragi del popolo. Principale loro
incumbenza fu quella di render giustizia ai loro concittadini; perciò
che la divisione dei poteri e l'indipendenza dell'ordine giudiziario,
cui si dà somma importanza ne' vasti stati, non fu nè conosciuta nè
ricercata dalle piccole repubbliche. La più importante funzione del
governo d'un piccolo popolo è quella di giudicare. Questo ha poche
leggi, che difficilmente vengono alterate, poche pubbliche entrate,
poche spese e pochi impieghi da distribuire. Non abbisogna di capi cui
affidare il poter legislativo o esecutivo, ch'egli stesso esercita
direttamente, ma ne abbisogna per reprimere i disordini, punire i
delitti e decidere le contese de' cittadini. Ne' secoli di mezzo le
funzioni di generale erano sempre accoppiate a quelle di giudice. Coloro
che turbavano lo stato al di fuori, o internamente coi loro delitti,
erano ugualmente considerati nemici della società, e lo stesso capo
doveva dirigere la forza pubblica contro gli uni e contro gli altri.
Come i duchi prima, poi i conti d'ogni città, erano stati ad un tempo e
generali e giudici, così i consoli che presero il loro luogo, ne
esercitarono ancora le incumbenze. Quando il re o l'imperatore radunava
l'_host_, e le milizie delle città ricevevano l'ordine di seguire il
monarca in un'impresa; o pure quando per le prescrizioni del diritto
feudale una città vendicava un'offesa particolare con una guerra
privata, i consoli marciavano alla testa de' loro concittadini, e
comandavan loro nel campo.
Altra funzione de' consoli era quella di convocare e presedere i
consigli della repubblica. D'ordinario eranvi due consigli in ogni
città, oltre il consiglio generale di tutto il popolo. Il primo era poco
numeroso, e propriamente destinato a coadiuvare i consoli in quelle
funzioni che credevansi troppo importanti per confidarle ad altri
magistrati. Chiamavasi questo corpo il consiglio di _credenza_, vale a
dire consiglio di confidenza, o consiglio segreto. Era questo incaricato
dell'amministrazione delle finanze della città, di sopravegliare i
consoli, e di tutte le relazioni esteriori dello stato. Un altro corpo,
composto di cento consiglieri o più, aveva in molte città il nome di
senato, di gran consiglio, di consiglio speciale, o di consiglio del
popolo. Nel senato disponevansi i decreti che dovevano proporsi alle
deliberazioni del popolo che radunavasi in assemblea generale sulla
pubblica piazza al suono della grossa campana, ed era chiamata
parlamento. L'assemblea del popolo era sovrana, ed i magistrati la
consultavano nelle più importanti occasioni: ma in quasi tutte le città
la legge non permetteva che si assoggettasse alcun atto alla
deliberazione dell'assemblea del popolo, prima che il consiglio di
credenza ed il senato avessero dato il loro assenso al proposto
progetto[401].
[401] _Antiq. Ital. t. IV. dissert. XLV et XLVI._
Le città dividevansi in quattro o sei quartieri, che d'ordinario avevano
il nome della porta più vicina, perchè gli abitanti del quartiere erano
specialmente incaricati della difesa della loro porta e delle mura
dipendenti. Questa divisione era ad un tempo civile e militare. Molte
città coll'andar del tempo accrebbero il numero de' loro consoli, onde
ve ne fosse uno per quartiere, che sceglievasi tra gli abitanti dello
stesso quartiere. L'elezione del consiglio di credenza e del senato
ripartivasi nella stessa maniera, cosicchè eravi nella costituzione
delle città una mescolanza di sistema rappresentativo.
I quartieri formavano altresì corpi militari con differenti stendardi.
Ognuna sceglieva tra i suoi più ricchi cittadini, e quando i nobili si
posero sotto la protezione delle repubbliche, sceglieva tra i nobili una
o due compagnie di cavalieri armati da capo a' piedi. Lo stesso
quartiere formava poi due altri corpi scelti, cadauno dei quali doveva
essere il doppio numeroso dei precedenti; e questi erano i balestrai e
l'infanteria pesante. Quest'ultima era armata del pavese, specie di
scudo, della cervelliera o cuffia di ferro e della lancia. Gli altri
cittadini divisi pure in compagnie, ed armati soltanto di spada, eran
obbligati di trovarsi sulla piazza d'armi del proprio quartiere
qualunque volta suonava campana a martello. Tutti gli uomini dal
diciottesimo anno fino al settantesimo dovevano soddisfare a questo
dovere. I consoli comandavano le armate, ed avevano sotto i loro ordini
il capitano del quartiere, il suo gonfaloniere o portastendardo, ed il
capitano d'ogni compagnia. Non conoscevasi allora quell'infinito numero
d'ufficiali e di sottufficiali introdotti dalla tattica moderna.
L'ordine era di combattere, l'unica regola di non iscostarsi dal
gonfalone che restava sempre visibile. Per tutto il rimanente ogni
soldato poteva agire di proprio impulso, e non era parte, come a' nostri
tempi, d'una macchina complicata, i di cui movimenti sono tutti diretti
da una superiore intelligenza; mentre ogni individuo, ridotto ad agire
come una ruota di così gran macchina, ignora lo scopo della propria
azione[402].
[402] _Antiqu. Ital. M. Aevi diss. XXVI. t. II._
Siccome le città erano state erette in corporazioni per metterle in
istato di difendersi, lo stesso atto che loro aveva permesso di
fortificarsi permetteva ancora di agguerrire le loro milizie. Nè fu
solamente per le guerre pubbliche dell'impero che facessero uso di
questo stabilimento militare, ma riclamarono per sè medesime il diritto
di cui erano in possesso i conti, i marchesi, i prelati e perfino i
signori de' castelli, di vendicare coll'armi proprie le proprie
ingiurie. Nel sistema feudale i tribunali terminavano le liti con una
specie d'arbitramento: quando l'offesa era riconosciuta, dichiaravano
quale era il legittimo compenso, coll'offerta del quale le due parti
dovevano rinunciare al loro odio, alla loro _faida_; ma essi non
obbligavano a dare o a ricevere il compenso. Quando il diritto era
dubbioso, invitavano le parti a terminare la contesa col duello, in cui
il giudizio di Dio facevasi palese come in una guerra sostenuta da tutte
le forze dei due rivali, ma con minore effusione di sangue e con minor
danno. In somma tutta la legislazione fondavasi sopra il diritto della
naturale difesa, e su quello di farsi giustizia da sè medesimo; essendo
autorizzato ogni membro dell'impero a rifiutare un giudice parziale e ad
appellarsi al suo buon diritto, alla sua spada[403]. Le prime guerre
fatte dalle città le une contro le altre, o contro i marchesi ed i conti
che volevano opprimerle, non furono dunque risguardate quali atti di
ribellione, ma come atti legittimi di giustizia o di naturale difesa
conformi ai diritti degli altri membri dell'impero.
[403] _Montesquieu esprit des lois l. XXVIII._
La rivalità tra comuni d'uguale potenza gelosi della grandezza loro e
della rispettiva popolazione, rese più acerbe queste guerre private,
dando loro un carattere più nazionale e meno giuridico. Le due metropoli
della Lombardia furono le prime ad abbandonarsi a quest'odio di
vicinato. I re de' secoli di mezzo non avevano capitale propriamente
detta, dimorando d'ordinario nei loro castelli, e visitando quando l'una
e quando l'altra delle loro città. Pure Pavia e Milano disputavansi il
primato tra le città italiane. Pavia perchè fu la favorita residenza de'
più illustri sovrani lombardi, aveva il loro più magnifico palazzo.
Posta ad egual distanza dalle Alpi svizzere e dalle liguri, e padrona
del passaggio del Ticino, signoreggiava le due pianure che stendonsi
alla diritta ed alla sinistra del Po. Padrona ugualmente della
navigazione di questo fiume, le sue barche potevano seguirne il corso
fino all'Adriatico, o rimontare i fiumi che gli tributano le acque fino
ai laghi da cui le ricevono. Pavia nel centro delle terre della
Lombardia era quasi la chiave di tutti i suoi fiumi, ed il suo
territorio formato dalle più ricche loro deposizioni, irrigato dalle
loro acque, non era ad alcuno inferiore in fertilità[404]. Profittando
di tanti vantaggi Pavia era diventata una vasta e popolosa città, che
pure non pareggiava Milano in ricchezze ed in potenza, o perchè il lungo
soggiorno e l'esempio della corte avessero snervata la sua energia, o
perchè il denso aere che vi si respirava[405], e le nebbie
frequentissime avessero resi gli abitanti meno proprj alla carriera
dell'ambizione e della gloria.
[404] _Anonimi Ticin. de laudibus Papiae Comm. Rer. Ital. t. X. p.
1. — Bernardi Sacci patrit. Pap. hist. Ticinensis l. II. apud
Graevium t. III. p. 603._
[405] Ai tempi del Petrarca si aveva migliore opinione del clima di
Pavia. N. d. T.
Milano, antica capitale degl'Insubri e di tutta la Gallia cisalpina, era
pure stata la residenza di alcuni degli ultimi imperatori d'Occidente, e
la prima e più antica sede arcivescovile di tutta la Lombardia. Salubre
è l'aere di questa città, fertili i campi che la circondano; pure come
la sua posizione non sembra darle alcun vantaggio esclusivo, che dovesse
assicurarle quella superiorità di cui ha costantemente goduto sulle
altre città lombarde, convien supporre che la sua grandezza e la sua
popolazione siansi conservate a traverso i secoli barbari, dopo i tempi
dell'impero occidentale, come una eredità dei Romani. Trovandosi i
Milanesi in principio del secolo undecimo più ricchi, più potenti, più
agguerriti dei Pavesi, non potevano darsi pace che Pavia pretendesse
d'essere la prima città del regno. Fu in occasione della doppia elezione
al trono di Lombardia, rimasto vacante per la morte d'Ottone III, che
queste due capitali, dichiaratesi l'una per Arduino, l'altra per Enrico
II, s'abbandonarono la prima volta alla loro gelosia, e si procurarono
colle loro rivalità l'attenzione degli storici.
Dopo che le milizie delle due città si furono lungo tempo esercitate
nelle private loro guerre, e che incominciò a risvegliarsi ne' loro
cittadini l'amore della patria e della indipendenza, confidando i
Milanesi nelle proprie forze e mossi dalle istigazioni del loro
arcivescovo, credendo di sostenere coi diritti nazionali la causa della
Chiesa, osarono misurarsi contro un nemico più potente. Abbiamo parlato
in un altro capitolo della loro guerra coll'imperator Corrado il Salico:
nel corso della qual guerra l'arcivescovo Eriberto diede compimento al
loro sistema militare con una invenzione adottata ben tosto da quasi
tutte le città d'Italia. In sull'esempio dell'arca dell'alleanza delle
tribù d'Israele, egli pose alla testa dell'armata uno stendardo d'un
genere affatto nuovo che chiamò il _carroccio_.
Il carroccio era un carro a quattro ruote, cui si aggiogavano quattro
paja di buoi. Dipingevasi di color rosso, e rossi tappeti coprivano fino
ai piedi i buoi che lo tiravano; e di mezzo al carro alzavasi un'antenna
ugualmente rossa, la di cui altissima sommità terminavasi in un globo
dorato. Al di sotto, tra due bianche vele, spiegavasi lo stendardo del
comune, e più sotto ancora verso la metà dell'antenna vedevasi un Cristo
in croce che colle braccia stese pareva benedire l'armata. Una specie di
_piattaforma_ sul davanti del carro veniva occupata da alcuni valorosi
soldati destinati a difenderlo, mentre sopra altra simile stavano sul di
dietro i sonatori colle loro trombette. I sacri misterj celebravansi sul
carroccio prima che sortisse dalla città, e spesse volte vi era addetto
un cappellano che lo seguiva al campo di battaglia. La perdita del
carroccio risguardavasi come l'estrema ignominia cui potesse esporsi una
città; e perciò i più valorosi soldati, il nerbo dell'armata veniva
destinato a custodire il sacro carro, onde il grosso della battaglia
riducevasi d'ordinario intorno a lui[406].
[406] _Arnulph. Mediol. l. II. c. 16. p. 18. t. IV. — Ricord. Malas.
stor. Fior. c. 164. t. VIII. p. 987. — Burchardus epistola de excidio
Urbis Mediol. t. VI. Rer. Ital p. 917. — Può vedersene un buon
disegno in Ludov. Cavitell. Ann. Crem. t. III., Graevi p. 1289._
Dovevasi rendere l'infanteria potente per opporla alla cavalleria dei
gentiluomini, dovevasi darle unione e solidità ed ispirarle confidenza
nella propria forza; e coll'invenzione del carroccio si supplì a tutto.
Non potevano sperarsi rapidi movimenti da una truppa subordinata a
quelli di un carro pesante tirato dai buoi; la ritirata doveva essere
lenta e misurata; e la fuga, a meno che non fosse vergognosa, riusciva
impossibile; le marcie della cavalleria trovavansi legate a quelle
dell'infanteria; le milizie avvezzavansi a sostener l'urto della
cavalleria senza aprir gli ordini, mentre l'urto dell'infanteria doveva
riuscire alla cavalleria tanto più formidabile, quanto era più uniforme
e meglio diretto verso un solo punto. Non sarà fuor di proposito il
notare che i buoi d'Italia camminano più leggermente che i Francesi,
sicchè la loro marcia si conviene meglio a quella dell'infanteria.
L'epoca dell'invenzione del carroccio fu altresì quella della prima
celebre contesa fra i nobili ed il popolo; contesa suscitata, come
abbiamo già detto, dall'arcivescovo Eriberto, il quale abusò del diritto
di supremazia sui gentiluomini dipendenti dalla mensa arcivescovile di
Milano. La gelosia manifestata in quest'occasione dai popoli contro la
nobiltà, è una prova che allora le città non erano soltanto popolate di
timidi e poveri artigiani, ma che i plebei avevano acquistato quel
sentimento di dignità e d'indipendenza verso i signori, che nasce
dall'uguaglianza di ricchezze e d'istruzione. I cittadini sentivano che
tutta la fortuna dello stato non era in mano dei nobili, che questi più
non potevano a voglia loro accollare o togliere la sussistenza alle
classi inferiori della nazione; che l'educazione loro non li rendeva più
atti de' borghesi al governo de' popoli, e che i cambiamenti operatisi
nello stato dall'introduzione del commercio, dal miglioramento della
coltivazione fatta dalla plebe, e dall'ignoranza de' gentiluomini,
avevano ridotte le due classi ad un'eguaglianza di diritti.
Presso i popoli più oppressi e più barbari, il commercio non può essere
affatto distrutto: l'uomo cercherà sempre di provvedere col cambio ai
suoi bisogni, e coloro che s'incaricheranno di facilitarlo, vi
troveranno sempre il proprio vantaggio. Perciò le repubbliche di
Venezia, di Napoli e d'Amalfi, che fino al decimo secolo ebbero un
governo che proteggeva ed animava l'industria, ottennero sulle vicine
popolazioni un immenso vantaggio, esercitandone esse sole tutto il
commercio. I Veneziani erano i mediatori dei due imperi: accolti ed
accarezzati dai Greci portavano agli Occidentali i prodotti delle
manifatture che prosperavano in Costantinopoli e nella Morea, e le merci
indiane ch'essi acquistavano indistintamente dai Greci e dai Musulmani.
Rimontavano poi colle loro barche leggieri i fiumi dell'Italia, e
provvedevano le città fluviali di tappeti e stoffe dell'Asia, di
spezierie delle Indie, e del sale delle proprie saline di cui erano gli
esclusivi provveditori di Lombardia. Ricevevano in cambio grani, cuoi,
lane ed altri prodotti del suolo; ma nelle città loro coltivavano in
oltre le arti meccaniche, e la prima fonderia di campane si stabilì in
Venezia, onde introdussero l'uso delle campane nella Grecia e
nell'Occidente quando le regalarono ai monarchi di Costantinopoli ed a
quelli d'Europa[407]. Lo storico Luitprando che fu spedito ambasciatore
da Ottone il grande all'imperatore Niceforo Foca, nulla vide nel lusso
di Costantinopoli che lo sorprendesse o gli riuscisse nuovo; perchè,
com'egli disse ai Greci medesimi, i magazzini di Venezia gli avevano già
mostrate tutte quelle ricchezze[408].
[407] Veggasi il conte Marsigli. _Ricerche storico-critiche
sull'opportunità della laguna veneta pel commercio, sull'arti e
sulla marina di quello stato 8. vol. 1803._
[408] _Luitprand. de legatione p. 487._
La natura del commercio veneziano nel decimo secolo e la sua prosperità
provano evidentemente la pochissima industria delle altre città e la
loro miseria. Questo commercio non arricchiva i suoi agenti che con
quella specie di monopolio ch'essi esercitavano a danno de' loro
compratori, perchè non essendo fondato sulla moltiplicità delle
produzioni e dei bisogni, ma povero al contrario e limitato a pochi
oggetti, pure dava considerabili profitti. Nè tale commercio era uguale:
i Veneziani somministravano tutte le produzioni delle manifatture, tutte
le merci di lusso, e non ricevevano in cambio che le materie brute o
danaro. Secondo il sistema degli economisti che oggi pretendono di
favorire il commercio col vincolarlo, la bilancia sarebbe stata a solo
vantaggio dei Veneziani, e sempre contraria ai Lombardi. Ma il commercio
degli ultimi era affatto libero; e tale fu l'influenza della libertà,
tali furono i vantaggi per i Lombardi di questa pretesa sfavorevole
bilancia, che in meno d'un secolo ammassarono abbastanza capitali onde
rivalizzare d'industria coi loro corrispondenti. Bentosto le città loro
riempironsi di officine e di manifatture, e trionfando degli svantaggi
d'una posizione mediterranea, il più prospero commercio ravvivò tutti i
loro mercati.
La lingua italiana nacque pure o si sviluppò nelle città insieme al
commercio, vale a dire nel dodicesimo secolo, e l'essere universalmente
adottata contribuì a rimpiccolire le distanze che separavano le diverse
classi della società.
È cosa veramente singolare che non siasi conservato verun documento del
linguaggio adoperato dal popolo d'Italia fino alla fine del decimo
secolo. Il dottissimo Muratori ricercò con infaticabile pazienza tutti i
vecchi archivj, tutti i depositi d'antiche scritture di famiglie e di
comunità, senza che siasi abbattuto a scoprirne una sola dettata in
quell'idioma che chiamavasi _volgare_, diverso dal _latino_ riservato ai
dotti, dal _romano_ che parlavasi nelle Gallie, e dal _tedesco_ dei
popoli venuti dal Settentrione. Pare per altro che la lingua _volgare_
avrebbe dovuto essere non solo quella del comune conversare, ma ancora
quella delle lettere famigliari e del commercio. È dunque a credersi che
gl'Italiani fino ad dodicesimo secolo non sospettassero nè meno che il
loro dialetto potesse scriversi. Per la stessa ragione non si
troverebbero forse dell'età nostra atti o lettere scritte ne' dialetti
limosino, piccardo, normanno, piuttosto che in francese, o ne' dialetti
bolognese e genovese piuttosto che italiano[409].
[409] _Murat. antiq. Ital. t. II. diss. XXXII, p. 989._
Sembra probabile che ne' tempi della potenza romana i provinciali
avessero una viziosa maniera d'esprimersi in latino, e che
s'avvicinassero fin da que' tempi al moderno italiano. La mescolanza
delle nazioni barbare contribuì non poco a corrompere ancor più questo
linguaggio provinciale, introducendovi gli articoli ed i verbi ausiliarj
adoperati nel Settentrione per tener luogo delle declinazioni e delle
conjugazioni latine che rendevano la grammatica troppo complicata[410].
Il _sermone volgare_, che così chiamavasi, dovette essere il dialetto
abituale de' campagnuoli e de' cittadini, ma non dei nobili, i quali,
comecchè d'ordinario niente meglio educati de' loro inferiori, essendo
quasi tutti di razza allemanna, oltre la lingua volgare che dovevano
necessariamente parlare, avevano pure conservato l'uso della tedesca.
Abbiamo veduto che nel secolo nono i Lombardi Beneventani davano ancora
ai loro principi il soprannome tedesco; ma abbiamo una prova che
andavano a poco a poco perdendo l'uso del linguaggio materno nella
pratica tenuta dagli storici del susseguente secolo, che, riferendo
questi soprannomi, vi aggiungevano la spiegazione[411]. Gl'imperatori
francesi e tedeschi portarono in Italia il costume della lingua tedesca,
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