Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 07

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Poche storie sono così oscure come quella di Roma e delle province che i
Greci possedettero in Italia fino al regno di Carlo Magno, perchè nè i
Romani nè i Greci ebbero di que' tempi alcuno scrittore delle cose loro.
Le vite dei papi sono opera del secolo nono, e più tosto fatte per
edificazione de' fedeli, che per istruire gli storici[121].
[121] Le vite dei papi furono raccolte da Anastasio bibliotecario,
che morì avanti l'anno 882. Si chiama _liber pontificalis_ questa
raccolta, che fu pure attribuita a papa Damaso II. Fu probabilmente
l'opera di molti scrittori. Veggansi intorno a tal libro le
dissertazioni d'Emmanuele Schelestrat, e di Giovanni Ciampini.
_Script. Ital. t. III. p. 1._
Con tutto ciò in tal periodo di tempi si consumò una rivoluzione ch'ebbe
la più durevole influenza non solo sulla sorte di Roma, ma su quella di
tutto l'Occidente. La riforma, e se così amiamo chiamarla, l'eresia
degl'Iconoclasti alienò l'animo de' sudditi latini dai loro sovrani,
impegnò i papi a distruggere l'autorità che gl'imperatori avevano in
Roma, e fu la principal causa dell'indipendenza della città e della
sovranità della Chiesa.
La pura e filosofica religione di Gesù Cristo aveva fino dai primi
secoli della sua esistenza sofferte grandissime alterazioni, e per il
degradamento del popolo che la professava, e per la perdita d'ogni virtù
pubblica, e per la corruzione dello spirito e del gusto. Le sottigliezze
de' filosofi e l'ignoranza de' plebei avevano pure ugualmente
contribuito ad alterarne la semplicità, facendo rientrare il paganesimo
tutto intero in quella religione che sembrava averlo distrutto[122].
[122] Ciò deve intendersi sanamente rispetto a molte ceremonie, agli
abiti, ed a certe opinioni specialmente de' platonici e degli
eclettici, che si trovarono, o si suppose di trovarle conformi alle
dottrine evangeliche. N. d. T.
Il più notabile cambiamento che soffrì il cristianesimo ebbe origine
dalla pretesa scoperta di un'imagine di Gesù Cristo, poscia della
Vergine, che si attribuirono a celeste artefice, da che non vi aveva
avuta parte la mano di alcun uomo. Tali imagini ch'ebbero il loro nome
da questa circostanza[123], dopo essere state l'opera del miracolo, non
tardarono a farne ancor esse. Vittorie riportate sui nemici dello stato
e della religione; i Persiani respinti dalle mura di Edessa; infermità
risanate, e tutto ciò che può essere soltanto attribuito alla divinità,
fu l'opera loro. Ben tosto si attribuì la stessa possanza ad altre
imagini, comechè non ne fosse contestata, come delle prime, la celeste
origine: e la religione cristiana, che per più titoli poteva essere
incolpata d'avere retrogradato verso il politeismo, trovossi per
quest'ultimo passo cambiata in vera idolatria[124]. Si riguardarono le
statue e le imagini come aventi nella materia di cui erano formate
qualche cosa di divino; ed ebbero forse più onori per sè medesime che
presso i pagani, indipendentemente dall'oggetto rappresentato[125].
[123] Αχειροποίητος, fatto senza ajuto delle mani.
[124] Coloro che amano le belle arti, non incolperanno giammai la
Chiesa d'aver permesso il culto ragionevole e preso in buon senso
delle sacre imagini, cui l'Italia deve in gran parte il rinnovamento
delle arti. N. d. T.
[125] Dai Cristiani ignoranti; non altrimenti.
Intanto quasi nella medesima epoca un popolo barbaro ricevette da un
ambizioso conquistatore un nuovo sistema di teismo. L'islamismo più
d'ogni altra religione appoggiavasi sulla dottrina dell'umanità, e della
spiritualità di Dio; onde i Musulmani manifestarono sempre un eguale
orrore per l'associazione della creatura al culto dovuto soltanto al
creatore, e per la rappresentazione sotto forme materiali dell'Essere,
che i sensi non possono concepire, che lo spirito non può misurare. I
Musulmani rimproverarono i Cristiani d'idolatria, rivolsero contro di
loro gli argomenti ed il ridicolo, di cui gli antichi apologisti
cristiani eransi utilmente serviti contro i pagani; e questa
controversia diventava tanto più umiliante per gli Ortodossi, in quanto
che la loro professione di fede trovavasi in aperta contraddizione colla
pratica, e che l'odio del nome d'idolatra era ancor vivo nel loro cuore
quando essi medesimi meritavano di più il nome d'idolatri[126].
[126] Ειδωλα λατρεῖν vuol dire prostrarsi innanzi alle
rassomiglianze. Il rimprovero adunque formato dall'unione di questi
due vocaboli, non è già che gl'idolatri tengano le pietre o i marmi
in luogo di Dei, ma solamente per imagini della divinità, alle quali
rendono un culto.
I Musulmani fecero ancor di più per disingannare i Cristiani, li
vinsero. Il _Labano_ miracoloso dovette fuggire innanzi a loro, ed
Edessa fu presa a dispetto della sua trionfante imagine. Essi
distrussero i quadri e le reliquie coll'altare che le portava,
dimostrando l'impotenza dei pretesi agenti della divinità, dei santi,
degli angeli, dei semidei de' cattolici e delle loro imagini[127].
[127] Jejud, nono Califfo della razza degli Ommiadi, fece
distruggere tutte le imagini della Siria nel 719 o in quel contorno,
e precisamente nell'epoca in cui cominciava lo scisma
degl'Iconoclasti. Quindi gli Ortodossi rimproveravano i Settarj di
seguir l'esempio de' Saraceni e degli Ebrei. _Trag. Mon. Johann.
Jerosolym. Sc. Byzant. t. XVI. p. 235._
Queste disfatte avevano già da qualche tempo scossa alquanto la credenza
del popolo, allorchè una razza di montanari, che nell'Asia minore
conservava la sua indipendenza[128], l'amore delle armi, ed una
religione più vicina all'antico cristianesimo, ottenne di porre sul
trono di Costantinopoli uno de' suoi capi. Fu questi Leone l'Isaurico, o
l'iconoclasta, il quale segnalò il suo regno coi più violenti attacchi
contro le recenti superstizioni, il culto cioè delle imagini, ed i
progressi del monachismo. Quantunque provasse ancora in Oriente una
resistenza che pose il suo trono in pericolo, è certo che una assai
ragguardevole porzione del popolo professava le opinioni di Leone, il
quale aggiungeva al vigore del suo carattere una grande abilità[129].
L'Occidente era in pari tempo più addetto al culto delle imagini, e più
indipendente dall'imperatore. I Romani rifiutaronsi assolutamente di
sottomettersi agli editti di Leone, ed il papa d'allora, Gregorio II,
dopo avere tentato invano di richiamare gl'iconoclasti alla credenza
della Chiesa, autorizzò i Romani a rifiutare all'imperatore i consueti
tributi[130][131]. Intanto Ravenna e tutte le città dell'Esarcato
aprivano le porte a Luitprando re de' Lombardi, di modo che non
restavano più dell'Italia, sotto il dominio dell'impero orientale,
fuorchè le città marittime della magna Grecia.
[128] L'Isauria faceva parte della Cilicia.
[129] Del regno di Leone l'Isaurico e de' suoi successori
iconoclasti non sappiamo che quanto ne scrisse Teofane, il quale fu
perseguitato da questa setta. _Theop. Chronog. t. VI. Byz. p. 260. e
seguenti._ Cedreno si ristrinse a copiare, od a compendiare Teofane,
_t. VII. Biz. p. 355_.
[130] _Theop. in Chronog. p. 269. ad an. 9. imp. — Georgii Cedreni
Hist. Compend. p. 358._
[131] Lascio che il lettore istrutto giudichi se il dissenso da una
opinione religiosa giustificar possa la defezione di Gregorio II dal
legittimo sovrano. Il totale abbandono in cui la corte di
Costantinopoli lasciava le sue città d'Italia poteva somministrar
loro un più onesto titolo di procacciarsi un miglior protettore. N.
d. T.
Gregorio II erasi in varie circostanze fatto conoscere il protettore
della sua greggia, l'aveva difesa contro le invasioni de' Lombardi,
parte coll'opinione di santità che gli dava grandissimo favore presso
Luitprando, parte coi tesori della Chiesa ch'egli seppe utilmente
impiegare nell'assoldar truppe. Sottraendosi all'ubbidienza di Leone
l'Isaurico, Gregorio accusò Marino duca di Roma, e Paolo esarca di
Ravenna d'aver tentato per ordine del loro principe di farlo
assassinare[132]; e senza scacciarli da Roma li privò d'ogni autorità. E
per tal modo mediante la sua influenza, e col consenso del re de'
Lombardi, si stabilì in Roma verso l'anno 726 un simulacro di
repubblica, che sussistette oscuramente dopo il regno di Leone Isaurico
fino alla distruzione del regno lombardo, ed all'incoronazione di Carlo
Magno.
[132] _Vita Greg. II ex Anastas. Biblioth. t. III. Rer. Ital. p. 1.
p. 156._
Fu specialmente durante il pontificato di Gregorio III dal 731 al 741
che la repubblica romana sotto l'influenza del papa si governò come
stato indipendente. Allora si videro i nobili, i consoli ed il popolo
associarsi ad un concilio che condannava gl'iconoclasti: allora i Romani
rialzarono le loro mura, fortificarono Civitavecchia, fecero alleanza
coi duchi di Benevento e di Spoleti contro Luitprando re dei Lombardi, e
finalmente stipularono con quest'ultimo un trattato in nome del ducato
romano[133].
[133] _Vita Greg. III ex lib. Pont. Anast. bibl. t. III. Rer. Ital.
p. 158. Vita s. Zachariae ib. p. 161._
Si domanderà forse qual era il governo di questa repubblica o ducato; ma
ciò non è facile a sapersi, perchè i Romani ed il papa cercavano di
evitare ogni dimostrazione o positiva dichiarazione, onde non alienare
assolutamente l'imperatore, cui pure prestarono ajuto per ricuperare
l'Esarcato di Ravenna; e dopo di aver rimandato in Sicilia il patrizio
destinato a governarli, ricevettero nuovamente in diverse occasioni gli
ufficiali della corte di Costantinopoli, reclamarono la loro protezione
contro i Lombardi, e chiesero, quantunque inutilmente, truppe a
Costantino Copronimo per difendersi. Dal suo canto l'imperatore pareva
disposto a contentarsi di un'ombra di potere, ed a scaricarsi senza
strepito della difesa di una città, per la sua posizione difficile a
difendersi. Il papa come capo della Chiesa, come padre dei fedeli,
godeva di un altissimo credito e presso i cittadini, e presso i nemici
dello stato. Veniva spesso accordato alla santità del suo carattere
quello che sarebbesi rifiutato alle prerogative del suo rango.
Finalmente i nobili romani avevano imparato dai Lombardi loro vicini a
far rispettare la loro indipendenza, ed avevano terminato col non
ubbidire nè all'imperatore, nè al papa, nè al proprio senato. Come
padroni de' castelli possedevano essi tutto il territorio del ducato di
Roma, e quando dimoravano nella capitale si risguardavano quali principi
superiori alle leggi; ed il loro potere era proporzionato al numero de'
loro vassalli e satelliti. Di mezzo a tale conflitto di giurisdizione,
il papa capo del clero, patriarca di tutto l'Occidente, depositario dei
tesori del cielo, che facilmente cambiava con quelli della terra, il
papa si mostrava il solo difensore del popolo, il solo pacificatore
delle discordie de' grandi. I progressi dell'ignoranza avevano
accresciuta la sua potenza; egli era diventato quasi un semidio in terra
specialmente pei barbari di fresco convertiti, e lontani dalla sua
persona; formava centro di tutta la Chiesa, e solo egli poteva far in
modo che nazioni lontane, il di cui popolo ne conosceva appena il nome,
dessero prova del loro cristianesimo colla carità verso i Romani. La
condotta de' pontefici ispirava rispetto, siccome i loro beneficj
meritavano la riconoscenza. Forse eran essi superstiziosi, ma questa
debolezza si trasforma in virtù in faccia ai popoli ugualmente
superstiziosi: di costumi puri e severi, nè il lusso, nè la possanza gli
avevano ancora corrotti.
Gregorio III fu il primo che invocò la protezione de' Francesi a favore
della Chiesa e della repubblica romana; egli chiese a Carlo Marcello,
maestro del palazzo, soccorso contro Luitprando[134]. Quest'esempio fu
seguito dagli altri papi qualunque volta i Lombardi minacciavano
l'indipendenza di Roma. Oltre le lettere dei papi, ne esiste una dello
stesso Apostolo s. Pietro, che papa Stefano II indirizzò a Pipino, Carlo
e Carlomanno, ed a tutta l'universalità de' Francesi per riporre la
Chiesa di Dio ed il popolo sotto la speciale loro protezione[135].
[134] L'anno 741. Veggansi le prime due lettere del codice Carolino,
_t. III. p. II. Rer. Ital. p. 75 e 77_.
[135] La terza lettera del codice Carolino _p. 92_.
In compenso di tale protezione i papi accordarono alcune grazie ai re di
Francia. Zaccaria approvò la traslazione della corona di Francia da
Childerico a Pipino[136], e Stefano II incoronò quest'ultimo a Parigi
l'anno 764[137]. In appresso il medesimo papa elevò al rango di patrizj
romani Pipino, ed i suoi due figliuoli; ed a nome della Chiesa, de'
duchi, conti, tribuni, popolo ed armata di Roma, gli scrisse per
impegnarlo a difendere contro Astolfo una città di cui erano creati
magistrati[138].
[136] _Amalrici Augerii Vitae Pont. Rom. t. III. p. II. p.
78._ — _Frodoardus de Pont. Rom. poema ib. p. 79._
[137] _Anast. Bibl. Vita Stefani III. t. III. p. I. p. 168._ Lo
stesso papa vien chiamato da quest'autore Stefano III, e dagli altri
II.
[138] Lettere 4. 5. e seguenti del cod. Carol. p. 96.
I papi avevano lo stesso diritto di nominare un patrizio romano, come di
trasferire da una ad un'altra famiglia la corona di Francia. Il patrizio
era un ufficiale nominato dagl'imperatori greci: uno risiedeva in
Sicilia, ed un altro d'ordinario in Roma, ov'erano capi del governo. Ma
forse Pipino aveva un miglior titolo alla dignità reale nell'elezione
del popolo francese, che al patriziato in quella del popolo romano; ma
nella pericolosa situazione in cui trovavasi il popolo di Roma, poteva
il papa scusarsi se a qualunque prezzo gli assicurava un protettore.
Intanto queste trattative corruppero i pontefici, i quali dando ai
Carlovingi diritti ch'essi medesimi non avevano, ricevevano in compenso
terre e ricchezze delle quali i Carlovingi non avevano diritto di
disporre. Pipino costrinse Astolfo, re de' Lombardi, a restituire
l'Esarcato e la Pentapoli non già all'imperatore di Costantinopoli cui
appartenevano, e che faceva riclamare dai suoi ministri, ma bensì a s.
Pietro, alla Chiesa romana rappresentata dai suoi pontefici, ed alla
repubblica. Pare che lo storico di Stefano II adoperasse quest'ultimo
vocabolo per indicare il governo di Roma e delle province, che dopo
essersi staccate dall'impero greco rimanevano indipendenti; imperciocchè
lo storico termina l'elogio di questo pontefice con tali parole: «il
quale coll'ajuto di Dio dilatò le frontiere della repubblica e del
popolo sovrano, che formava la greggia confidata alle sue cure[139].»
[139] _Annuente Deo rempublicam dilatans, et universam Dominicam
plebem etc. Anast. Bibl. Vita Steph. III. t. III. p. 172. anno 755._
L'atto della donazione di Pipino non si è conservato, di maniera che non
conosciamo con esattezza le condizioni di così fatta concessione, in
forza della quale la Chiesa acquistò per la prima volta una dominazione
temporale[140][141]. Ma la storia ne istruisce che tale donazione non
ebbe mai effetto. Astolfo permise bensì che l'atto di donazione, e le
chiavi delle città donate si deponessero sull'altare di s. Pietro; e
varj ostaggi giunsero pure a Roma coll'inviato di Pipino; ma la Chiesa
non ebbe il godimento della sovranità di queste province, ed abbiamo
molte lettere dei papi nelle quali si lagnano che nè Astolfo, nè
Desiderio suo successore non avevano ancora dato alla Chiesa ed alla
repubblica romana il possesso delle città promesse[142], o pure che
avendone accordata taluna, se l'erano all'istante ripresa. E quando in
appresso, dietro le istanze della Chiesa, Desiderio lasciò queste città
in libertà, invece d'essere governate dal papa, passarono sotto
l'arcivescovo di Ravenna come rappresentante degli esarchi[143]: e
finalmente allorchè, chiamato da Adriano, Carlomagno conquistò l'anno
774 il regno dei Lombardi, confermò la carta di donazione di suo padre
senza però darle esecuzione; onde Adriano l'andava avvisando di dar
esecuzione a quanto, per la salvezza dell'anima sua, aveva promesso di
fare in favore della Chiesa e della repubblica de' Romani[144].
[140] La pretesa donazione di Costantino è stata con tanta evidenza
distrutta, che il nostro storico ha potuto, senza renderne ragione,
chiamar prima quella di Pipino. N. d. T.
[141] Il _liber pontificalis_ ne dà i nomi delle città cedute, cioè
Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Cesena, Sinigaglia, Iesi,
Forlimpopoli, Forlì, castel Sussubio, Montefeltro, Acceraggio, monte
di Lucaro, Cera, castel San-Mariano, Bobbio, Urbino, Cagli, Luceolo,
Gubbio e Comacchio. _Anast. Bibl. p. 171._
[142] _Ecclesia sancta Dei et respubblica Romanorum. Epist. 7. 8. et
9. cod. Caral. p. 104. etc._
[143] _Agnelli lib. pontif. p. II, in vita Sergii archiepiscopi c.
4. t. II. Rer. Ital. p. 174._
[144] _Codex Carolinus epistola 69. p. 213., et passim._
Ma se le donazioni delle sovranità fatte da Pipino, Carlomagno e Luigi
il buono, si ridussero a semplici atti d'ostentazione, che que' principi
non ebbero mai intenzione d'eseguire, essi però arricchirono la Chiesa
con più utili beneficenze, dandole _l'utile dominio_ di una parte
dell'Esarcato e della Pentapoli, cioè i frutti e le rendite delle terre,
mentre la sovranità delle stesse province era riservata alla repubblica
romana, al patrizio, e per ultimo all'imperator d'Occidente. Altronde
all'utile dominio veniva pure annessa l'ubbidienza di moltissimi
vassalli, talchè il papa, che già da gran tempo veniva risguardato come
il primo cittadino di Roma, diventò pure il primo e più potente
barone[145].
[145] Costantino Porfirogeneta nel decimo secolo dice che i papi erano
sovrani di Roma. _De Thematibus, l. II. Th. 10. p. 22_. Ρώμη
ἰδιοκρατορίαν ἔχειν, καὶ δεοπόζεθαι κυρίως, παρά τινος κατὰ καιρὸν
Πάπα; pure ancora nel decimo secolo non era il papa che il più potente
signore di Roma.
Le dignità che danno potere e ricchezze diventano l'oggetto dei desiderj
degli ambiziosi, e ben tosto loro preda. Dopo le prime donazioni di
Pipino si videro aspirare alla cattedra dì s. Pietro persone affatto
diverse da quegli austeri sacerdoti che l'avevano fino a quei tempi
occupata, e gli annali della Chiesa incominciarono a macchiarsi dei
delitti del capo dei Cristiani. Due fratelli Stefano II, e Paolo I,
ch'ebbero successivamente il papato dal 762 al 766, vengono accusati
dagli storici della chiesa di Ravenna d'ingiustizia, di rapina, di
crudeltà[146]. Dopo la morte di Paolo, un antipapa s'impadronì colle
armi della sede pontificia; il legittimo papa Stefano III ebbe parte
all'assassinio di alcuni de' principali dignitarj della sua chiesa[147];
e tutto il clero adottò le abitudini ed i feroci costumi dei
gentiluomini del suo secolo.
[146] _Agnellus in lib. pont, vita Sergii. t. II. p. 172._
[147] _Vit. Steph. III. in Anas. Bib. p. 174._ — _Vita Stadr. p.
180._
Ne' tempi della barbarie, mentre l'ignoranza rende la fede più costante,
le passioni indomabili e feroci distruggono affatto la morale. Le
stragi, i tradimenti, gli spergiuri sono avvenimenti comuni nella storia
di quegli uomini cui il nono ed il decimo secolo accordarono il nome di
_Grande_. Ma dopo così enormi delitti, una magnifica penitenza attestava
la religione ed il pentimento del colpevole. L'ambizione del clero
mostrò ai grandi delinquenti una ignota strada per espiare i loro
delitti, e far dimenticare i loro furori; e questa fu quella delle
donazioni alla chiesa per la salvezza dell'anima del donatore[148].
Pipino e Carlo Magno avevano con somiglianti liberalità gittati i
fondamenti della potenza papale: comecchè essi non avessero soltanto
arricchita la santa sede, ma ancora l'arcivescovo di Ravenna in maniera
di poter gareggiare col papa, e poco meno anche l'arcivescovo di Milano,
e molti monasteri. Tutti i loro successori ne imitarono l'esempio, ed i
principali baroni, seguendo la pratica de' loro sovrani, fecero pagare
ai loro eredi i misfatti che avevano commessi: per lo che avanti il
dodicesimo secolo abbiamo più atti di donazioni fatte alle chiese, che
di contratti di qualunque altro genere presi cumulativamente. Di modo
che quando Ottone il grande entrò in Italia, le più ricche città, le
province più popolate venivano possedute dal clero; mentre i grandi
feudi laici erano spenti o divisi. Di quest'epoca i principali e più
potenti sovrani ecclesiastici erano il patriarca di Aquilea, gli
arcivescovi di Milano e di Ravenna, i vescovi di Piacenza, di Lodi,
d'Asti, di Bergamo, di Novara, di Torino, l'abbate di monte Cassino, il
più potente signore del ducato di Benevento, che fino all'età nostra
conservò il titolo di primo barone del regno di Napoli, e l'abbate di
Farfa nella Sabina[149]. Inoltre la maggior parte de' vescovi avevano
acquistato, in forza di un atto di qualche re o gran signore, la
giurisdizione della città in cui risiedevano, e non eravi un solo
vescovo, un solo monastero dell'un sesso o dell'altro, che in alcun
territorio o villaggio non possedesse diritti feudali.
[148] _Pro remedio animae meæ_, e simili, era la più usitata formola
con cui i grandi delinquenti colla donazione di poche terre a
qualche chiesa o monastero presumevano d'avere ampiamente
soddisfatto alla divina ed umana giustizia per gli assassinj
commessi nel lungo corso della loro vita; di modo che le più ricche
donazioni sono d'ordinario un sicuro testimonio della scellerata
memoria del donatore; come le donazioni non meno frequenti _propter
nimiam sui corporis dulcedinem mihi praestitam_ fatte dai principi
alle loro amiche colla maggiore pubblicità, ne attestano la
scostumatezza. N. d. T.
[149] _Murat. Antiq. Ital. diss. LXXI. t. V. p. 56._
Alla podestà temporale erano uniti quei doveri che allontanarono affatto
gli ecclesiastici dalle primitive loro funzioni. Quando un vescovo, un
abbate era conte d'una città, sotto questo titolo riuniva la prerogativa
di giudice e di generale; essendo incaricato del governo civile del
contado in tempo di pace, e della sua difesa in tempo di guerra. Come
castellani, gli ecclesiastici credevansi permesso di sostenere un
assedio assai prima che ardissero di porsi in campo alla testa di
un'armata. Ma nel secolo nono avevano già appreso a marciare contro il
nemico. L'imperatore Luigi II lo ordinò loro nel decreto che pubblicò
per l'impresa di Benevento l'anno 866[150]: e lo stesso papa Giovanni X
guidò l'anno 915 le truppe della lega ch'egli aveva riunite contro i
Saraceni.
[150] Questo bando viene riferito da Camillo Pellegrino. _Hist.
princ. Longob. t. II. p. I. p. 265._
I tre Carlovingi, spinti da quello spirito religioso che gli aveva
indotti ad arricchire il clero, credettero di santificare
l'amministrazione de' loro stati, fidandola agli ecclesiastici. Il
cancelliere, il principale ufficiale della corona, era quasi sempre un
prelato[151], ed i vescovi e gli abbati intervenivano al consiglio del
re ed agli stati della nazione. Durante il regno di Pipino, e parte di
quello di Lotario, Adelardo abbate di Corbia ed il monaco Wala suo
fratello furono i veri sovrani d'Italia. Dopo costoro altri
ecclesiastici occuparono in consiglio il loro luogo; e fu osservato, che
non rifiutaronsi di dirigere le guerre snaturate che i figli di Luigi il
buono fecero al padre. Il favore del sovrano, il potere, le ricchezze
corruppero in ogni tempo coloro che le possedevano, e non era da
supporsi che il clero sarebbesi conservato incorrotto, quando si fosse
riflettuto che a quell'epoca lo spirito della religione cristiana era
guasto affatto dalla più grossolana superstizione; che i di lei
ministri, scelti tra i secolari, dovevano essere partecipi dei vizj del
secolo; che i grandi signori erano solleciti di collocare tra il clero
alcuno de' loro figli, perchè la fortuna farebbe che in tale stato
servisse loro d'appoggio; che invece di far ammaestrare nelle lettere
ecclesiastiche questi nuovi canditati della Chiesa, venivano, come
giovani cavalieri, addestrati al maneggio delle armi e dei cavalli; che
l'avidità con cui si spogliavano le chiese dei loro beni, uguagliava la
profusione con cui erano state arricchite; che il re Ugo non era stato
il primo a provvedere a forza di beneficj ecclesiastici i suoi sicarj ed
i suoi bastardi; e finalmente molti sovrani deposti, molti grandi
signori ch'erano incorsi nella disgrazia de' loro superiori, venivano
forzati a ricevere la tonsura; onde il corpo del clero composto di così
fatta gente non poteva possedere le virtù proprie del suo stato. A torto
si è voluto opporre alla santità della religione la disordinata vita del
clero del nono e decimo secolo, quando appena sarebbe bastato un
miracolo per santificare gl'impuri elementi di cui era di que' tempi
composto il clero.
[151] Gli ecclesiastici erano di que' tempi le sole persone che
sapessero poc'o tanto leggere e scrivere, onde non è maraviglia se
loro venivano affidati gl'impieghi che richiedevano di saper leggere
e scrivere. N. d. T.
Abbiamo un'assai circostanziata storia de' papi contemporanei
degl'imperatori Carlovingi. Tale storia scritta da un bibliotecario
della corte romana, è generalmente parziale per i papi[152]. Lo scandalo
cominciò soltanto in sul declinare del secolo nono. Ma prima di
osservare la Chiesa lordata dalla dissolutezza di alcuni giovinastri,
vuole la giustizia che ci fermiamo all'epoca più onorevole del
pontificato di Leone IV.
[152] Le vite dei pontefici furono scritte da Anastasio
bibliotecario fino alla morte di Niccolò primo accaduta l'anno 867.
Le vite d'altri pontefici fino all'889 furono aggiunte da un altro
bibliotecario detto Guglielmo. Da quest'epoca fino al 1050, in cui
comincia la raccolta del cardinal d'Arragona, avvi un vuoto che non
è stato possibile di riempire.
Poco dopo la morte di Carlo Magno non tardarono i Saraceni ad accorgersi
della debolezza della sua immensa monarchia, e cominciarono a
saccheggiare le province marittime dell'Italia. Papa Gregorio IV era
stato costretto l'anno 833 a fortificare contro di loro la città
d'Ostia[153]; che pure non impedì loro di rovinare le città littorali,
per lo che gli abitanti di Civitavecchia dovettero salvarsi nelle
foreste; e l'audacia de' Saraceni crebbe a segno, che nell'847 osarono
di tentar l'assedio della stessa Roma, saccheggiando le basiliche di s.
Pietro in Vaticano e di s. Paolo, poste fuori delle mura. Nella stessa
epoca morì papa Sergio II, onde i Romani, per non trovarsi senza capo,
in così difficili circostanze, elessero papa Leone IV prete romano, uomo
di somma riputazione, e lo consacrarono senza aspettare l'approvazione
dell'imperatore[154]. Quantunque i Saraceni si fossero già allontanati
da Roma, Leone, volendo assicurarsi da ogni insulto, fece rifabbricare
le muraglie della città, ed accrescerne le fortificazioni. Il monte
Vaticano, che fin allora era fuori del circondario di Roma, fu cinto di
mura, e dal suo nome chiamato la _città Leonina_[155]. Rifece
Civitavecchia rovinata dai Saraceni[156], e coll'ajuto delle repubbliche
di Napoli, di Amalfi e di Gaeta, che sotto la protezione greca eransi
rese libere, attaccò una nuova flotta saracena, obbligandola a ritirarsi
con grave perdita. A queste gloriose azioni i suoi biografi aggiungono
il racconto di alcuni miracoli, uno de' quali rese la memoria di Leone
IV più illustre, che la fondazione della città cui diede il proprio
nome. Il borgo dei Sassoni che prolungavasi tra la città Leonina ed il
quartiere di Transtevere fu in parte consumato da un terribile incendio
arrestato dalle preghiere di Leone[157]: argomento della egregia opera
di Raffaello conosciuta sotto il nome dell'incendio di Borgo, che vedesi
nella quarta stanza del Vaticano.
[153] _Anast. Bibl. in vita Greg. IV. p. 206._
[154] Vita Leon. IV. Anast. Bibl. _p. 231_.
[155] _Ibid. p. 240._
[156] _Ibid. p. 245._
[157] Vita Leon. IV. Anast. Bibl. _p. 233_.
Dalla deposizione dell'ultimo monarca Carlovingio fino al regno d'Ottone
il grande, l'autorità dei principi che portarono momentaneamente il
titolo d'imperatore, fu sempre vacillante e controversa. Frattanto Roma
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