Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 15

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la cessazione dello scisma[331].
[331] _Petrus Diac. Chr. Monast. Cassin. l. IV. cap. ultimum, p.
602_.
(1138) In un sinodo tenuto in Roma l'anno susseguente, Innocenzo rinnovò
le censure fulminate prima contro Ruggiero ed i suoi aderenti, e per
appoggiarle colla forza s'avanzò alla testa d'una piccola armata fino al
castello di Galluzzo, di cui ne cominciò l'assedio, durante il quale fu
sorpreso ed inviluppato dalle truppe di Ruggiero e di suo figlio, poste
in fuga le sue truppe, ed egli, fatto prigioniero e condotto nel campo
nemico.
La sorte di Napoli venne decisa da questa catastrofe. Innocenzo
prigioniero sacrificò, senza difficoltà, i suoi antichi difensori al
loro più caldo nemico; accordò a Ruggiero l'investitura di Capoa
spogliandone lo sventurato suo amico Roberto; accordò pure al re di
Sicilia l'onore di Napoli e delle sue dipendenze, vale a dire, la
sovranità su questa repubblica, su cui i papi non avevano mai avuto
verun diritto[332]. I Napoletani che avevano perduto il duca Sergio in
una delle ultime battaglie[333], e che non sapevano a chi rivolgersi per
ottenere soccorso, dovettero sottomettersi, cedendo alla necessità.
Mandarono deputati a Benevento ad offrire la corona ducale al re
Ruggiero, da cui furono uniti alla monarchia[334].
[332] Veggasi questa Bolla presso il Baronio _ad an. 1138._
[333] _Romuald. Salern. Chron. p. 190._
[334] _Falco Benev. p. 129._
Il re che fin allora aveva trattati i paesi conquistati con estrema
crudeltà, si mostrò più generoso verso i Napoletani. Confermò tutti i
loro privilegi che non erano in opposizione col potere monarchico, e ne
conservò l'amministrazione municipale, che mantennesi intatta quasi un
secolo[335]. Intanto colla sommissione di Napoli a Ruggiero si spense
affatto la libertà nell'Italia meridionale; e Napoli, perduta la sola
prerogativa che possa rendere grandi le piccole nazioni, diventa
straniera alla nostra storia. Quantunque crescesse in popolazione
allorchè diventò la capitale del regno, le sue ricchezze ed il suo
commercio diminuirono. Le leggi reali di Ruggiero, l'istituzione d'una
nobiltà militare, l'introduzione d'una moneta falsificata posta in corso
con infinito danno del commercio e dell'agricoltura, cavarono dagli
occhi de' Napoletani amare lagrime sulla perdita della loro
libertà[336].
[335] _Falco Benev. ad finem cum nota Camilli Pellegrini._
[336] Il re vietò la circolazione dei _Romesini_, moneta di bassa
lega di Costantinopoli, ossia della nuova Roma; ed in loro vece
coniò dei ducati metà argento e metà rame. _Falco Benev. p. 131._


CAPITOLO V.
_Origine di Venezia, sue rivoluzioni avanti il dodicesimo
secolo — Pisa e Genova nuove repubbliche marittime — Loro rivalità
con Venezia, e loro primi progressi._

Di tutte le repubbliche che fiorirono in Italia, Venezia fu la più
illustre, e quasi la sola la di cui storia sia conosciuta fuori
d'Italia; siccome è pur quella che durò più lungamente. La sua origine
precede di sette secoli l'indipendenza delle città lombarde; la sua
caduta, di cui fu testimonio la presente generazione, è posteriore di
tre secoli a quella della repubblica fiorentina, la più interessante
delle repubbliche de' mezzi tempi.
Poc'anni sono la repubblica di Venezia era il più antico stato d'Europa.
La stessa nazione sempre indipendente, sempre libera, fu tranquilla
spettatrice delle rivoluzioni dell'universo; vide la lunga agonia e la
fine dell'impero romano; in Occidente la nascita dell'impero francese
quando Clodoveo conquistò le Gallie; l'innalzamento e la caduta degli
Ostrogoti in Italia, dei Visigoti in Ispagna, dei Lombardi che
succedettero ai primi, dei Saraceni che spossessarono i secondi. Vide
nascere l'impero de' Califfi, minacciare la totale invasione della
terra, poi dividersi e distruggersi. Alleata per più secoli
degl'imperatori Bizantini, li soccorse a vicenda, e gli oppresse; levò
de' trofei alla loro capitale; ne divise le province, ed aggiunse a'
suoi titoli quello di padrone _d'un quarto e mezzo_ dell'impero romano.
Essa ha veduto cadere quest'impero, ed alzarsi sulle sue rovine il
feroce Musulmano; finalmente vide abbattuta la monarchia francese[337];
e sola irremovibile quest'orgogliosa repubblica contemplò i regni e le
nazioni passare innanzi a lei. Dopo tutte le altre dovette anch'essa
succumbere alla legge universale; ed il governo veneto che legava il
presente al passato, ed univa le due epoche della civilizzazione del
mondo, cessò ancor esso di esistere.
[337] L'autore scriveva nel 1808.
Alla natura del paese che abitarono i Veneziani devesi ascrivere la
cagione della lunga loro indipendenza. Il golfo Adriatico riceve nella
sua parte superiore tutte le acque che scendono dalle Alpi verso
mezzodì, dal Po che trae origine sul pendio meridionale delle montagne
di Provenza, fino all'Isonzo che nasce in quelle della Carniola. La foce
del più meridionale di questi fiumi non è lontana più di trenta leghe da
quella del più settentrionale; ed in questo spazio il mare riceve ancora
l'Adige, la Brenta, la Piave, la Livenza, il Tagliamento, ed un infinito
numero d'altri minori fiumi. Tutti nella stagione piovosa strascinan
seco enormi masse di melma e di ghiaja, in guisa che il golfo che le
riceve, colmato poc'a poco dai loro depositi, non è più mare, ma non è
ancora terra, e si chiama laguna, sotto il qual nome si comprende uno
spazio di venti o trenta miglia dalla riva. La laguna, vasta estensione
di bassi fondi, e di fango coperto d'uno o due piedi d'acqua, che i più
leggeri battelli possono a pena attraversare, viene divisa da canali
scavati, non v'ha dubbio, dai fiumi che si scaricano in mare, ma in
seguito conservati dall'opera degli uomini per l'interesse del
commercio. Questi canali sono strade aperte ai grandi navigli,
abbondanti di sicuri ancoraggi: il mare che si rompe impetuosamente
contro i _murazzi_ e le lunghe e strette isole che circondano la laguna,
è sempre in calma oltre questi limiti, nè i venti possono sommover
l'onde ove non sonovi profondi abissi. Ma i tortuosi intralciati canali
della laguna formano un impenetrabile labirinto per i piloti non
istrutti da lungo studio, e dall'esperienza dei loro andirivieni. In
mezzo ai bassi fondi alzansi alcune centinaja d'isolette che
incominciano al mezzogiorno di Chiozza presso alle foci del Po e
dell'Adige, e stendonsi senza interrompimento fino a Grado oltre le
bocche dell'Isonzo. Alcune non sono divise che da stretti canali, come
quelle su cui è fabbricata Venezia, altre dominano la laguna a
ragguardevoli distanze, quasi bastioni avanzati per difendere gli
approcci di terra ferma. Tali isole non sono generalmente suscettibili
di grande coltivazione, ma così vantaggiosamente situate per la pesca,
per la fabbricazione del sale che vi si raccoglie quasi senza travaglio
in alcuni bassi fondi chiamati _estuari_, per la navigazione e pel
commercio; e coloro che le abitano hanno tanta facilità di commerciare
con semplici barche con tutte le città della Lombardia, coi porti
dell'Istria, della Dalmazia, della Romagna, che questo Arcipelago
dovette in ogni tempo essere popolato da uomini industriosi. Le isole
veneziane non sono meno sicure che comode, fortificate ugualmente contro
gl'insulti de' pirati e contro le armate de' conquistatori; non sono
attaccabili nè per terra nè per mare, e non possono cadere in mano de'
nemici che per tradimento de' proprj abitanti.
Il dotto conte Figliasi provò nelle sue memorie sui Veneti[338], che dai
più rimoti tempi questa nazione che occupava il paese detto poi Stati
veneti di terra ferma, abitava pure le isole sparse lungo le coste, e
che di là ebbe origine il nome di _Venezia prima e seconda_,
applicandosi la prima al continente, la seconda alle isole ed alle
lagune. Ne' tempi dei Pelasgi e degli Etruschi, abitando i primi Veneti
una contrada fertile e deliziosa, dedicavansi all'agricoltura, i secondi
posti in mezzo ai canali, alla foce de' fiumi, ed a portata delle isole
greche, e delle feconde campagne dell'Italia, consacravansi alla
navigazione ed al commercio. Gli uni e gli altri si sottomisero ai
Romani non molto avanti la seconda guerra Punica; ma non fu che dopo la
vittoria ottenuta da Mario sui Cimbri che il loro paese fu ridotto in
provincia romana.
[338] _Mem. dei Ven. primi e sec. del C. Figliasi t. VI._
Sotto il governo degl'imperatori la prima Venezia fu per le sue sventure
rammentata più volte dagli storici. Ricca, fertile, popolata, presentava
agli ambiziosi una preda che si divisero spesso in tempo delle guerre
civili. Questa provincia chiudeva l'Italia dal lato per cui poteva
essere invaso l'Impero dalle nazioni germaniche, scita e schiavona.
Allorchè quest'impero incominciò ad essere debole, tutte le volte che
venivano forzate le barriere del Danubio, i barbari non tardavano a
piombare sopra la Venezia, ed a desolarla colle loro stragi. La
provincia marittima occupavasi della pesca, delle saline, del commercio,
ed i Romani risguardavano gli abitanti come indegni della dignità della
storia, e perciò li lasciavano nell'oscurità, come la loro umile
condizione non invitava i conquistatori al saccheggio, al massacro, alle
devastazioni.
Questa oscurità valeva al certo molto più che il tristo splendore di
Padova e di Verona. Fu un tempo in cui gli abitanti di queste città,
altra volta così opulenti, ma effemminate, deboli, aperte a tutte le
invasioni, sentirono vivamente quanto fosse crudele la loro sorte in
confronto di quella degli isolani, malgrado le privazioni e la vita
laboriosa degli ultimi. I popoli Nomadi che invasero l'impero,
associarono alle loro conquiste una ferocia che la nostra immaginazione
sa appena concepire. Essi non s'appagavano di appropriarsi col
saccheggio tutto ciò che potevano togliere ai sudditi di Roma, ma sembra
che si proponessero di rendere le contrade che invadevano affatto simili
ai deserti di dove erano usciti. Gl'incendi distruggevano i villaggi e
le città, e la carnificina degli uomini, delle donne, dei fanciulli
cancellava le generazioni.
In questa guisa esercitò Attila il suo furore sulle città d'Aquilea,
Concordia, Oderzo, Altino e Padova. Ma la fama annunciatrice delle sue
crudeltà lo precedette, e quegli abitanti della prima Venezia ch'ebbero
tempo di fuggire, si ripararono nella seconda. Uomini, donne, vecchi e
fanciulli, tutti si salvavano nelle isole. Nel mezzo di quelle che
oggidì copre Venezia colle portentose sue case, eravi la borgata di
Rialto, che diede asilo alla maggior parte de' fuorusciti, che poi
cresciuti a dismisura si sparsero in tutte le altre isole, coprendosi
con capanne fatte all'infretta finchè passasse la burrasca
sterminatrice[339].
[339] _Const. Porphir. de Adm. Imp. Par. II. c. 28. p. 70. Biz.
Venet. t. XXII. Andreae Danduli Chr. l. V. c. 5. t. XII. Rer.
Ital. — Marin Sanuto istoria dei duchi di Venez. p. 405. t. XXII.
Rer. Ital. Andrea Navagero storia veneziana, p. 926. t.
XXIII. — Storia civile veneta di Vettor Sandi, l. I. c. 2. t. I. p.
14._
Poichè Attila si ritirò nella Pannonia, tutti quelli che non avevano
portato nel loro ricovero verun mezzo di sussistenza, s'affrettarono di
ritornare alle antiche loro abitazioni: e sopra tutto gli agricoltori
richiamati dai loro campi, dall'amore del suolo natale, dai bisogni
della famiglia, tornarono a coltivare le campagne; ma i grandi
proprietarj, i nobili romani, coloro tutti, che colle proprie ricchezze
avevano potuto procurarsi nelle isole i comodi della vita, e che
rinvennero in quest'asilo la sicurezza non iscompagnata dall'agiatezza,
si astennero dall'abbandonare la recente dimora, per rifabbricarsi le
ancora fumanti case sempre minacciate da nuove orde di barbari. Vero è
che i loro possedimenti continentali ricevevano danno dalla loro
lontananza; ma seguendo l'esempio de' loro ospiti cercarono di supplirvi
col commercio e colla navigazione. In tal maniera abbiam veduto a' dì
nostri una nobiltà rovinata dedicarsi a quella mercatura, che senza
degradarsi non avrebbe avanti potuto esercitare. I disastri delle
province rendevano il commercio più necessario e più lucroso. I
Veneziani dovevano moltiplicare il loro travaglio per somministrare agli
abitanti delle città incendiate le cose necessarie alla rifabbricazione
delle loro case, e le vittovaglie fino al nuovo raccolto. Un assai
maggior numero di marinai e d'artigiani poteva impiegarsi nel commercio,
onde della popolazione povera ma industriosa ch'erasi rifugiata nelle
isole, la miglior parte fu ritenuta in questo asilo coll'allettamento di
maggior lucro, e col godimento di una sicurezza che non poteva trovarsi
altrove. Con ciò s'andò formando in mezzo alle lagune una nuova nazione
risultante dall'unione forzata de' Veneti primi ai secondi; una nazione
di nobili, d'operai laboriosi, e di marinai, i quali tutti dovevano
vivere non dei prodotti della terra, ma di quelli di un'industria attiva
e crescente.
Pare che la piccola città di Rialto ricevesse i consoli, o i tribuni che
formavano il governo municipale di Padova: ma Padova era incendiata, ed
i nobili, i cittadini più potenti, eransi riparati nella seconda
Venezia, e nulla poteva lusingarli a riprendere un soggiorno che la
forza non poteva assicurare, niun particolare vantaggio rendere
volontario. La nuova repubblica faceva bensì parte dell'impero romano,
ma quest'impero impotente, non sussisteva omai più che di nome,
disponendone i barbari, benchè ricevessero ancora come una distinzione
onorevole i titoli delle sue magistrature. Ogni provincia, ogni
straniera popolazione posta nell'interno dell'impero poteva senza
contrasto far valere la propria indipendenza. Ella ne aveva il diritto
tosto che sentivasi abbastanza forte per resistere alle aggressioni de'
barbari; e quantunque i provinciali d'origine romana non avessero
affatto dimenticata l'affezione ed il rispetto dovuto all'antico nome di
Roma, trovavansi però felici di potere scuotere il giogo d'un governo
oppressivo e tirannico; di liberarsi dalle eccessive tasse che non
soccorrevano per altro alla miseria del fisco; di sottrarsi all'odiosa
sorte delle milizie, che non provvedevano alla vergognosa impotenza
delle armate. I Veneziani adunque rimasero liberi allorchè l'invasione
di Attila li ridusse a fondare un nuovo stato; e le disastrose
incursioni dei Vandali, degli Eruli, degli Ostrogoti, resero loro sempre
più cara la libertà.
Abbiam già avuto opportunità di osservare che, fino agli ultimi tempi
dell'impero romano, il governo municipale si conservò democratico.
L'assemblea popolare di ogni città decideva dei comuni interessi, e
sanzionava le leggi locali. Le stesse assemblee nominavano pure i
magistrati annuali incaricati delle funzioni di giudici; ed è probabile
opinione che lungo tempo avanti l'invasione d'Attila questi magistrati
avessero già il titolo di tribuni. Accresciutasi la popolazione di molte
migliaia di fuorusciti, tutte le principali isole ebbero il proprio
tribuno nominato dagli abitanti. Questi tribuni riunivansi alcune volte
per deliberare intorno ai comuni interessi della Venezia marittima; ma
la principale loro incumbenza era quella di giudicare ed amministrare il
popolo conformemente alle istruzioni che da lui ricevevano nelle
generali assemblee d'ogni isola[340]. In tal maniera la nascente
repubblica senza l'opera d'un legislatore, senza rivoluzioni, e quasi
senza deliberare, si trovò regolata da una libera costituzione.
[340] _Vettor Sandi storia civile, l. I. c. 2. e 3._
Quell'ombra d'impero che il patrizio Oreste aveva conservato, innalzando
Augustolo sul trono, fu distrutta da Odoacre come una pompa inutile e
dispendiosa; ed i legami che potevano ancora unir Venezia a Roma, mentre
conservavasi l'impero, furono distrutti da questa rivoluzione. Per altro
allorchè Teodorico fondò il regno degli Ostrogoti, i Romani
riconciliaronsi alquanto col giogo d'un barbaro virtuoso e saggio; ed i
Veneziani vissero in pace con lui, e forse i servigi importanti che gli
resero, possono essere risguardati come un indizio di dipendenza. Il più
antico documento della repubblica è la lettera da Cassiodoro, segretario
di Teodorico, diretta ai Veneziani in nome del re d'Italia[341]. Il
retore per dar risalto alla sua eloquenza dimentica l'argomento della
lettera, e descrive ai medesimi Veneziani, cui è diretta, la strana
apparenza del loro paese, l'industria, l'attività, l'eguaglianza, la
libertà, e le buone loro costumanze.
[341] Questa lettera, che tra le lettere di Cassiodoro è la 24. del
XII. libro, fu inserita nella maggior parte delle storie veneziane;
in quella dell'abbate Laugier, _l. I. p. 149._ nella cronaca di
Dandolo, _l. V. c. 10. p. 88._, ed in Sandi con alcune osservazioni,
_t. I. p. 86. della storia civile._
Dopo aver fatta conoscere la fondazione della repubblica di Venezia,
passeremo a scegliere nella sua storia della prima età de' mezzi tempi i
più importanti avvenimenti, che di quando in quando contribuirono alla
formazione del carattere nazionale, a modificare la costituzione dello
stato, oppure ad accrescere l'influenza del nuovo popolo sul rimanente
dell'Italia. Sarebbe straniera al nostro istituto una regolare e
circostanziata storia de' tempi anteriori al dodicesimo secolo; altronde
tale è la secchezza e l'oscurità degli storici rispetto a que' tempi,
che siamo forzati di passare rapidamente sulla storia de' secoli di cui
ci offrono così confuse ed incerte notizie.
(518 = 627) A' tempi dell'imperatore d'Oriente, Giustino il vecchio, gli
Schiavoni, seguendo la strada tenuta dalle altre barbare nazioni che
invasero l'impero, entrarono nella Dalmazia, e vi si stabilirono. Ma
come quel paese, più volte saccheggiato, non bastava a saziare la loro
avidità, approfittarono dei numerosi porti di mare della fresca loro
conquista, ed adottando le costumanze degli antichi Illirici, di cui
avevano occupato il paese, si diedero alla pirateria. I Veneziani che
coprivano costantemente quel mare con deboli barche, rimanevano più
degli altri esposti ai loro insulti; ma una vita attiva, e l'abitudine
di sprezzare i pericoli del mare avevano rinforzato il loro coraggio.
Quei medesimi popoli ch'eran fuggiti come vili armenti innanzi ai
conquistatori del Nord, armarono i loro piccoli navigli per farsi
incontro agli stessi nemici a molta distanza dalle loro abitazioni: gli
attaccarono senza timore, e gli sconfissero, assicurando la libertà dei
mari; e la rivalità che manifestossi tra queste due nazioni marittime, e
le frequenti loro guerre, che terminarono colla sommissione di tutta la
Dalmazia, accrebbero l'energia de' Veneziani; li costrinsero ad
aggiungere il valore all'industria, e furono la principale cagione della
futura loro grandezza. Questa prima guerra incominciata avanti il regno
di Giustiniano, viene riportata siccome una delle testimonianze
dell'antichità della loro indipendenza[342].
[342] _Vettor Sandi storia civile veneta, l. I. p. 65. — Dandolus
Chronic. l. V. c. 7. p. 84._
(558) Quarant'anni dopo, la discesa de' Lombardi in Italia apportò alle
isole veneziane un doppio vantaggio; non solo perchè obbligò nuovamente
gli abitanti del continente a procacciarsi salvezza in queste isole, ma
perchè gli ottenne altresì un clero indipendente. Il patriarca d'Aquilea
venne a stabilirsi in Grado, ove fondò la sua nuova cattedrale; il
vescovo d'Oderso si trasferì in Eraclea fabbricata dai suoi compatrioti;
quello d'Altino portò la sua sede a Torcello; quello di Concordia a
Caorle, e quello di Padova a Malamocco. E perchè i Lombardi stabilirono
un clero arriano in tutte le città continentali di cui si resero
padroni, e perchè lo scisma tra le chiese delle due comunioni produsse
una sanguinosa guerra tra i patriarchi di Aquilea e di Grado, i vescovi
ch'eransi rifugiati nelle isole non pensarono più ad abbandonarle[343].
[343] _Vettor Sandi l. I. c. 3. § 4. p. 82. — Chr. Danduli l. V. c.
12. e l. VI c. I. p. 95._
La costituzione delle città e delle isole veneziane poteva considerarsi
come federativa; ma i poteri de' magistrati e quelli della nazione, i
diritti della lega e quelli dei popoli legati, non erano bastantemente
definiti, perchè così fatta costituzione assicurasse ad un tempo
l'interna tranquillità dello stato, e potente lo rendesse al di fuori. I
tribuni si abbandonarono alla loro ambizione, le città alle discordie e
gelosie di vicinanza, mentre i Lombardi dalla parte del continente, e
gli Schiavoni da quella del mare approfittavano di queste contese, di
questo stato di anarchia. Pareva che la repubblica fosse affatto
prossima all'estrema sua rovina: se non che un popolo libero ed energico
ha in sè medesimo i principj della sua salute: una rivoluzione che
dovrebbe indebolirlo, il più delle volte gli rende di là a poco un nuovo
vigore.
(697) L'anno 697 si convocò ad Eraclea una generale adunanza di tutti i
membri dello stato, ed i nobili trovaronsi riuniti al clero ed ai
cittadini. Colà, dietro proposizione del patriarca di Grado, la nazione
risolvette di darsi un capo, che col titolo di duca o doge fosse
incaricato del comando delle forze comuni contro gli esterni nemici, e
contro i faziosi dell'interno; il quale, superiore ai tribuni delle
isole riunite, potesse con mano ferma troncare le loro discordie e
punirne le usurpazioni. Ma da questo secolo d'ignoranza non si poteva
sperare una costituzione abilmente bilanciata. I Veneziani, volendo
essere liberi, riservaronsi le loro assemblee generali, la di cui
sovranità s'era universalmente riconosciuta; volendo essere potenti,
diedero al capo dello stato tutti gli attributi di un monarca. Egli
nominava a tutte le cariche, ammetteva o rifiutava gli avvisi de' suoi
consiglieri scelti da lui medesimo, trattava solo la pace e la guerra,
ed infine la sua autorità non aveva limiti. Paolo Luca Anafesto
d'Eraclea fu il primo che la nazione decorasse di così sublime
dignità[344].
[344] _Dand. Chron. l. VII. c. 1. p. 127. Marin Sanuto storia dei
duchi di Venez. p. 443. — Navagero storia veneziana p. 933. — Vettor
Sandi storia civile veneta l. I. c. 4. p. 94. — Laugier hist. de
Venise l. II. p. 189._
Per alcun tempo non ebbero i Veneziani motivo di pentirsi della nuova
forma data al loro governo. Anafesto ristabilì l'interna tranquillità,
respinse gli Schiavoni, e forzò i Lombardi a riconoscere l'indipendenza
della repubblica ed i confini del suo territorio. Il suo successore ne
seguì le tracce, ma non così il terzo, che mal soffrendo gli ostacoli
che talvolta contrariavano la sua volontà, volle rendersi assoluto
signore dello stato, e diede principio ad una funesta lotta col popolo.
In questa lite, in cui le ingiuste usurpazioni erano respinte da feroci
insurrezioni, perdettero la vita il presente doge ed altri suoi
successori. Nel tempo che Venezia era lacerata da questa contesa, il
dominio lombardo in Italia fu abbattuto, e rimpiazzato da quello dei
Carlovingi[345].
[345] _Dand. Chron. l. VII. c. 5. et seq. p. 134._
I Veneziani non odiavano meno i Franchi degli Unni, degli Ostrogoti, o
dei Lombardi. Da tutti questi popoli le province dell'impero erano state
ugualmente rovinate. Gloriavansi i Veneziani d'essere discendenti dai
soli Romani, e davano alla loro repubblica il nome di figliuola
primogenita della repubblica di Roma[346]. Isolati ed indipendenti in
mezzo alle popolazioni della stessa origine fatte schiave, prodigavano
il nome di barbari agli stranieri che opprimevano l'Italia; ed i soli
Greci, inciviliti al par di loro ed attaccati ugualmente al nome ed alla
gloria di Roma, venivano risguardati come degni della loro alleanza.
Prendevano perciò parte alle loro prosperità, e gli assistevano colle
loro forze, come da loro chiedevano essi protezione nelle proprie
avversità, confondendosi, per così dire, innanzi ai loro occhi gli
ufficj della benevolenza con quelli del dovere: e se i Veneziani
rifiutarono d'essere sudditi, vollero almeno essere fedeli alleati
dell'impero di Costantinopoli[347].
[346] Benchè la nazione veneziana non si formasse di Romani
propriamente detti, ma d'Italiani, ben fondata era la pretesa loro;
perciocchè ebbe origine quando sussisteva ancora l'impero, ed ella
si compose tutta di cittadini romani d'origine italiana, senza
mescolanza di stranieri.
[347] Queste dilicate distinzioni non devonsi ricercare tra gli
scrittori bizantini. Costantino Porfirogeneta fa dire ai Veneziani,
che sempre sono stati, e vogliono essere sempre schiavi dell'impero
d'Oriente. _De administ. Imp. p. II. p. 70. Edit. Venet. t. XXII._
Pipino, figliuolo di Carlo Magno, formò l'ardito progetto di allargare
il suo nuovo regno con pregiudizio di Niceforo imperatore d'Oriente:
sperava di levargli la Dalmazia e l'Istria, ed aveva saputo far entrare
ne' suoi interessi Obelerio allora doge regnante di Venezia, cui la
corte francese accordava molti favori. Ma questo magistrato non solo non
potè ridurre i Veneziani a prender parte ad una lite tanto contraria
alle loro inclinazioni, ma non potè pure impedire che l'assemblea
generale convocata a Malamocco non facesse a Pipino conoscere il rifiuto
delle sue offerte, e le relazioni della nazione coi Greci. Di ciò offeso
il principe, rivolse le sue armi contro i Veneziani, bruciando loro le
due città di Eraclea e d'Aquilea, la prima delle quali era stata alcun
tempo la capitale della repubblica fino all'epoca in cui Teodato quarto
doge trasferì la sede del governo a Malamocco[348]. Nè andò molto che,
credendosi nuovamente provocato, fece allestire una flotta a Ravenna, e
provvedutala di truppe da sbarco, s'impadronì di Chiozza e di Palestina,
indi approdò all'isola d'Albiola separata da un angusto canale da
Malamocco. In così difficile circostanza Angelo Participazio, uno de'
principali cittadini[349], consigliò i suoi compatrioti ad abbandonare
le mura della capitale, ed a trasportare a Rialto tutte le loro
ricchezze, essendo la sua situazione più forte assai per essere
quest'isola propriamente nel centro della laguna. I vascelli di Pipino
tentarono d'inseguirli, ma le barche leggieri dei Veneziani, fuggendo
innanzi a loro, seppero attirarli sopra bassi fondi, ove, non potendo
nella discesa della marea manovrare, furono attaccati con vantaggio, ed
abbruciati quasi tutti, o presi dai Veneziani. Pipino, sdegnato ed
umiliato, incenerì le città di cui erasi impadronito, e ritirossi a
Ravenna. Poco dopo i due imperi si pacificarono, ed i Veneziani furono
compresi nell'accordo come fedeli a quello d'Oriente[350].
[348] _Dandolus Chron. l. VII. c. 15. p. 153._
[349] La sua casa mutò nome nel decimo, o nell'undecimo secolo,
prendendo quello di Badoero: essa sussiste ancora.
[350] _Dand. Chron. l. VII. c. 15. p. 23. p. 158. — Vettor Sandi l.
II. c. 4. p. 253. e c. 5. p. 259._
Dopo quest'epoca Rialto rimase la capitale del nuovo stato, cui furono
riunite col mezzo di ponti le sessanta isolette che lo circondavano, e
sulle quali innalzasi oggi la città di Venezia. Il palazzo ducale fu
eretto sulla piazza ove trovasi ancor al presente; ed il nome di
Venezia, fin allora comune a tutta la repubblica, si ristrinse alla sola
capitale. Vent'anni dopo si trasportò d'Alessandria in questa città il
corpo di s. Marco. Raccontasi che i mercadanti, che tolsero questa
reliquia alla chiesa d'Egitto, le sostituirono accortamente quelle di s.
Claudio meno venerate. Dopo tale epoca s. Marco fu il patrono della
repubblica: egli o il suo leone diventarono l'impronta delle sue monete
e lo stendardo delle sue armate; ed il nome di s. Marco s'andò in modo
identificando con quello dello stato, che più di quello della
repubblica, più della ricordanza delle sue vittorie, scuote le orecchie
veneziane, e fa cader le lagrime dagli occhi de' patrioti[351].
[351] _Dand. Chron. l. VIII. c. 2. p. 170._
(837 = 864) Verso la metà del nono secolo una lite manifestatasi fra
alcune famiglie patrizie divise tutta la repubblica. Il popolo prese
parte con furore ad una animosità probabilmente cagionata da sola
rivalità di gloria; la cura dell'esterna difesa dello stato fu
sacrificata all'insensato zelo delle parti, ed il mare Adriatico rimase
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