Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 09

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nuovamente Roma all'impero orientale, assicurerebbe alla repubblica i
sussidj pecuniarj, e la libererebbe ad un tempo dalla artificiosa
ambizione de' papi e dall'alterigia e dalle violenze de' monarchi
sassoni. Alcuni ambasciatori greci, incaricati apparentemente di altre
incumbenze, furono chiamati a Roma, ove si trattennero fin ch'ebbero con
Crescenzio fissate le basi del patto solenne che doveva precedere questa
grande riunione.
[182] Che fino ai tempi di Carlo Magno, o poco prima, la repubblica
veneta riconoscesse la supremazia degl'imperatori d'Oriente, è
opinione assai probabile, comecchè rigettata dagli storici veneti;
ma dopo i Carlovingi è certo ch'erasi affatto emancipata dalla corte
di Costantinopoli, colla quale conservava strettissime relazioni per
la necessità del commercio che aveva con quella capitale. N. d. T.
(997) Era in allora vescovo di Piacenza un Greco, chiamato Filagato, il
quale aveva seguito in Occidente l'imperatrice Teofania quand'ella sposò
Ottone secondo. Crescenzio mise gli occhi su quest'uomo, siccome il più
opportuno a rimpiazzare Gregorio V[183]. Non mancavano ragioni per
adonestare la deposizione d'un uomo, la di cui elezione poteva ritenersi
forzata; e Crescenzio fece valere questo titolo d'illegittimità; onde
cacciato Gregorio, venne innalzato alla sede pontificia il vescovo
piacentino, che prese il nome di Giovanni XVI.
[183] Era originario di Rossano di Calabria, ed aveva avuto il
favore di Ottone II.
Se i progetti di Crescenzio avessero potuto condursi a termine, se
Filagato poteva mantenersi sulla sede romana, l'intera sorte dell'Europa
e della religione potevano mutarsi. L'Italia poteva assicurarsi
l'indipendenza, equilibrando le forze dei due imperi, ed accrescendo le
sue relazioni coi Greci essere più presto richiamata all'antica coltura,
e forse comunicar loro invece lo spirito di libertà, il coraggio e le
virtù che avrebbero impedita la caduta dell'impero d'Oriente. Del resto
il potere dei papi non rilevavasi mai più. Gl'Italiani non avevano più
per loro l'antica considerazione; i Greci erano gelosi della loro
pretensione all'universale supremazia; e le nazioni settentrionali, che
ne avevano col loro rispetto stabilita la potenza, sarebbersi alienate
da un papa influenzato dai Greci. Ma avanti che le truppe, che dovevano
appoggiare questa rivoluzione, arrivassero da Costantinopoli, Ottone III
entrò di nuovo in Roma, ed ebbe nelle sue forze Giovanni XVI. Invano san
Nilo, abbate d'un monastero vicino a Gaeta, venne in età di novant'anni
a gittarsi ai piedi dell'imperatore e di papa Gregorio per implorare la
loro misericordia; invano rammentò loro che il vescovo gli aveva levati
ambedue al fonte battesimale; invano supplicò d'accordare all'estrema
sua vecchiaja lo sventurato suo concittadino: niente potè piegare il
feroce animo dell'adirato pontefice. Giovanni XVI barbaramente mutilato,
fu dannato a lungo supplicio, il di cui racconto fa fremere la
natura[184].
[184] _Acta s. Nili abbatis apud Baron. an. 996. § 16. 17. et 18._
Intanto Crescenzio, coi vecchi amici della libertà, erasi riparato nella
mole d'Adriano, che fu poi lungo tempo chiamata la Torre di Crescenzio.
Questo solido ammasso di pietre, che sopra un diametro di duecento
cinquanta piedi non presenta altro vuoto od apertura, che un'angusta
scala, resistette all'attacco degli uomini, come aveva resistito a
quelli del tempo. Conoscendo inutile ogni sforzo, l'imperatore finse
alla fine di voler entrare in trattative, e s'impegnò colla reale sua
parola di rispettare la vita di Crescenzio ed i diritti de' suoi
concittadini; ma quando col soccorso della data fede l'ebbe in suo
dominio, fece tagliare il capo a lui ed a molti suoi seguaci[185].
[185] _Arnul. Hist. Med. l. I. c. 11. et 12. t. IV. p. II. — Landul.
Senior Hist. Med. l. II. c. 19. p. 81. — Chron. Monast. Cassin. lib.
II. c. 18. p. 352._
Stefania, vedova di Crescenzio, nascondendo il suo profondo dolore, e
non lagnandosi degli oltraggi ricevuti, faceva ogni sforzo per
avvicinarsi all'imperatore, onde fare una segnalata vendetta del tradito
consorte. Poichè una brutale violenza avea, a suo credere, distrutta la
gloria e la purità di sua vita, stimò che la bellezza rimastale non
doveva omai essere che lo stromento della sua vendetta. Ottone era
tornato indisposto da un pellegrinaggio al Monte Gargano, ove l'avevano
forse condotto i suoi rimorsi. Stefania trovò modo di fargli parlare
della sua abilità nell'arte medica; e sotto i suoi abiti di corrotto
potè ancora sedurlo colle sue bellezze; e come sua amante, o come suo
medico, essendosi guadagnata la sua confidenza, gli diede un veleno che
lo trasse ben tosto a dolorosa morte[186].
[186] _Stephania autem uxor ejus traditur adulteranda Teutonibus._
Arnulph. Med. loco cit. — _Ab uxore, ut fertur Crescentii
Senatoris... qua impudice abutebatur, potionatus._ Chronic.
Cassinense lib. II. c. 24. p. 355. — Landolfo il vecchio dice ch'ella
lo fece avviluppare entro una pelle di cervo avvelenata, e non meno
micidiale di quella del Centauro Nesso.
Gli storici tedeschi proclivi ad onorare la fresca gioventù d'un
principe di ventidue anni, si sforzano d'ingrandire il carattere
d'Ottone III[187]. Pure non rammentano veruna grande azione che possa
meritar credenza ai loro elogi. Ultimo rampollo della casa di Sassonia
morì, senza lasciar figliuoli, a Paterno presso a città Castellana
l'anno 1002 detestato dai Romani che cercavano ogni anno di scuotere
l'ingiusto giogo che voleva loro imporre.
[187] _Annales Hildesemens. apud Leibn. t. I. Brunsvicens. Scrip. p.
721. — Ditmarus Restitutus l. IV. p. 364. et segu. — Sigeberti
Gamblacensis Chronog. p. 825._
In principio dell'undecimo secolo, la città di Roma fu nuovamente
straziata da una contesa, quasi ignota, tra i partigiani della libertà,
dell'imperatore e del papa. Un figliuolo di Crescenzio, nominato
Giovanni, aveva dal padre ereditato l'amore del popolo romano, ed il suo
attaccamento alla causa della libertà. Verso il 1010, aveva restituita
alla repubblica l'antica sua forma, i consoli, il senato composto
soltanto di dodici senatori, e le assemblee popolari. Egli stesso
generalmente indicato col nome di Patrizio, era l'anima della nascente
repubblica; ed un secondo Crescenzio, forse suo fratello, col titolo di
prefetto di Roma amministrava la giustizia e presedeva ai
tribunali[188]. Il viaggio e l'incoronazione a Roma dell'imperatore
Enrico II, l'anno 1013, diminuirono la libertà della città ed accrebbero
il potere di Benedetto VIII, che questo religioso sovrano proteggeva con
tutto il suo credito. Il carattere de' Romani era a quest'epoca un
bizzarro composto di grandezza d'animo e di debolezza, e vedremo
l'inconseguenza del loro carattere manifestarsi di tratto in tratto in
tutto il corso di questa storia. Un movimento generale verso le grandi
cose dava luogo improvvisamente all'avvilimento; e dalla più burrascosa
libertà i Romani passavano alla più umile servitù. Sarebbesi detto che
le ruine ed i deserti portici della capitale del mondo tenessero i loro
abitatori nel sentimento della propria impotenza, ed in mezzo ai
monumenti della passata dominazione lo scoraggiamento della presente
nullità. Il nome de' Romani ch'essi portavano, rianimava spesso il loro
coraggio, come lo rianima ancora in questa età; ma ben tosto la vista di
Roma, del foro deserto, dei sette colli restituiti nuovamente al pascolo
delle mandre, i templi desolati, i monumenti dell'antica gloria caduti a
terra, facevan loro sentire che non erano più i Romani d'altri tempi. Se
la chiesa romana, al contrario di questo spirito vacillante, di tali
alternative di coraggio e di pusillanimità, fosse allora stata quello
che mostrossi in appresso, perseverante nelle sue intraprese, immutabile
ne' suoi progetti, ambiziosa per ispirito di corpo, e per sentimento
della propria eternità, ella avrebbe facilmente trionfato del partito
repubblicano. Fortunatamente per questo le tumultuarie elezioni del
popolo davano alla Chiesa per papi soltanto capi di fazione, la di cui
ambizione non andava più in là della propria famiglia, i di cui vizj
assorbivano tutte le ricchezze, e distruggevano ogni vantaggiosa
opinione. A ciò s'aggiungevano i frequenti scismi che indebolivano
ancora più la santa sede. Quando Enrico III venne la prima volta a Roma
per ricevere la corona imperiale, vi trovò tre papi che si disputavano
la tiara; ed il primo atto d'autorità che dovette fare in Roma, fu
quello di ristabilire l'unità della Chiesa.
[188] _Ditmaris Restit. lib. VI. p. 400. — Mabill. Ann. Benedict. ad
ann 1011._
L'imperatore Corrado il Salico era morto in Utrech il 4 giugno del 1039.
Aveva avuto da Gisla sua sposa un figlio, Enrico III detto il nero,
ch'egli aveva in sua vita già fatto incoronare re de' Romani[189].
Enrico fu riconosciuto ancora dagli Italiani lo stesso anno, o il
susseguente al più tardi. Eriberto, arcivescovo di Milano, passò in
Germania per ultimare con lui la guerra tra la sua metropoli e Corrado.
Ma, a dispetto di tale pacificazione, Enrico III ritenuto in Germania da
una pericolosa guerra ch'ebbe col re di Boemia[190], tardò alcuni anni a
venire a prendere possesso delle due corone di Lombardia e dell'impero.
La sua assenza diede luogo in Milano a nuove turbolenze, di cui
parleremo altrove; e lasciò altresì manifestarsi in Roma il più
scandaloso scisma che fosse mai stato.
[189] Ecco la tavola cronologica del regno dei tre Enrichi della casa
di Franconia, e del regno dei papi loro contemporanei: essa serve di
continuazione alle tavole già inserite ne' due precedenti capitoli.
ANNO
1039 Enrico III re Benedetto IX papa (dopo il 1033)
1044 . . . . . . . Gregorio VI Benedetto IX e Giovanni
antipapi.
1046 . . . . imper. Clemente II Prima spediz. d'Enrico
III in Italia.
1048 . . . . . . . Damaso II
1049 . . . . . . . Leone IX
1055 . . . . . . . Vittore II II. sped. d'Enrico III
d'anni 39 il 5 ott.
1056 Enrico IV re . . . . .
1067 . . . . . . . Stefano IX
1059 . . . . . . . Nicolò II
1061 . . . . . . . Alessandro II Cadolao, o Onorio
II antipapa.
1073 . . . . . . . Gregorio VII
1077 . . . . . . . . . . . . . I. spediz. d'Enrico
IV in Italia.
1084 . . . . imper. . . . . . . Guiberto, o Clemente
III antipapa.
1086 . . . . . . . Vittore III
1088 . . . . . . . Urbano II
1093 . . . . . . . . . . . . . Corrado re d'Italia
figlio ribelle d'Enrico.
1099 . . . . . . . Pasquale II
1101 . . . . . . . . . . . . . Morte di Corrado
1105 . . . . . . . . . . . . . ribellione d'Enrico
V figlio d'Enrico IV.
1106 Enrico V re . . . . . . Enrico IV muore il
7 agosto.
1111 . . . imper. . . . . . .
1118 . . . . . . . Gelasio II Burdino, o Gregorio
VII, antipapa.
1119 . . . . . . . Calisto II
1122 . . . . . . . . . . . . . Pace di Worms.
Non ho indicato che la prima spedizione d'Enrico IV in Italia; principe
guerriero, che ripassò le alpi quasi ogni campagna.
[190] _Sigeberti Gemblac. Chronog. p. 833._
La famiglia de' conti di Tuscolo, che discendeva da Marozia e da
Alberico, avea dato alla Chiesa tre papi l'uno dopo l'altro, Benedetto
VIII l'anno 1012, Giovanni XIX, fratello di Benedetto, l'anno 1024, e
Benedetto IX, nipote dei precedenti, l'anno 1033; gli ultimi due si
erano fatti eleggere acquistando i suffragi del popolo con manifesta
simonìa, ed avevano renduta la dignità papale quasi ereditaria nella
loro famiglia[191]. Uno storico assicurava che Benedetto IX non aveva
più di dieci anni quando, profondendo l'oro, gli si acquistarono i voti
del popolo[192]. Questa estrema giovinezza non è altrimenti avverata; ma
ciò che non è controverso, è la scandalosa condotta di questo pontefice
nel corso di dodici anni, i furti, i massacri, le impudicizie che
lordarono la santa sede. «Inorridisco nel ripeterlo (scriveva papa
Vittore III, allora suo soggetto, e quarant'anni più tardi suo
successore), quale fu la vita di Benedetto poichè fu consacrato, quanto
vergognosa, corrotta, esecrabile; perciò non incomincerò il mio racconto
che dai tempi in cui il Signore si rivolse di nuovo alla sua chiesa.
Poichè Benedetto IX afflisse molto tempo colle sue rapine, assassinj,
abbominazioni il popolo romano, più non potendo i cittadini soffrire
tanta scelleratezza, riunironsi scacciandolo dalla città e dalla sede
pontificia. Innalzarono in sua vece, ma a prezzo d'oro ed a dispetto de'
sacri canoni, Giovanni, vescovo di Sabina, che, preso il nome di
Silvestro III, occupò tre soli mesi la sede della chiesa romana.
Benedetto nato dai consoli di Roma, e che veniva sostenuto da tutte le
loro forze, travagliava la città co' suoi soldati; ed alla fine obbligò
il vescovo di Sabina a tornare vergognosamente al suo vescovado. Allora
Benedetto riprese la perduta tiara, senza mutar punto gli antichi
costumi.... Ma vedendo che il clero ed il popolo sprezzavano le sue
sregolatezze, e tutti erano scandalizzati dalla fama de' suoi delitti;
siccome inclinato ch'egli era alle voluttà, e più desideroso di vivere
da epicureo che da pontefice, trovò l'espediente di rendere, per una
grossa somma di danaro, il sommo pontificato a certo Giovanni arciprete,
che aveva in città opinione d'essere uno de' più costumati e religiosi
chierici. Benedetto ritirossi ne' suoi castelli; e Giovanni, che si fece
chiamare Gregorio VI, amministrò la Chiesa due anni ed otto mesi, finchè
giunse a Roma Enrico re di Germania»[193].
[191] _Vitae Pont. roman. ex Amalr. Augerio, Pandulph. Pisan., et
Catal. Papar. t. III. p. II. p. 340._ e seguenti.
[192] _Glaber. Hist. lib. IV. c. 5._
[193] Enrico III fu coronato a Roma l'anno 1046. Vittore III,
chiamato prima Desiderio, cardinale ed abbate di Monte Cassino, fu
l'immediato successore di Gregorio VII ed eletto papa del 1086,
essendo molto vecchio. Lo squarcio che abbiamo riportato, è preso
dal III libro de' suoi Dialoghi, ed unito come appendice alla
Cronaca di Monte Cassino. _Lib. II. t. IV. p. 396._
Assicurano i suoi biografi che questo stesso Gregorio VI si dedicò
interamente alle armi per ricuperare colla forza i possedimenti
ecclesiastici ch'erano stati tolti alla santa sede; e siccome colui che
non sapeva leggere, ed era estremamente ignorante, ricevette dal popolo
romano un collega che unitamente a lui esercitasse il papato,
occupandosi delle cose del culto mentre Gregorio combatteva[194].
[194] _Amal. Auger. di Vitis Pont. p. 340._ — _Catal. Pap. 342._
Queste cessioni e divisioni fatte prima amichevolmente, non si
mantennero; e quando Enrico III giunse in Italia, Benedetto IX risedeva
a s. Giovanni di Laterano, Giovanni, l'aggiunto di Gregorio, a s. Maria
Maggiore, e Gregorio VI a s. Pietro in Vaticano. Enrico prima d'entrare
in Roma riunì a Sutri un concilio per giudicare questi papi; ma il solo
Gregorio VI si presentò innanzi a quest'assemblea. Il concilio avendo
giudicata illegittima la elezione di lui, siccome quelle degli altri
due, fu nominato ad occupare la santa sede, rimasta vacante, Suggero,
vescovo di Bamberga, proposto da Enrico III, il quale prese il nome di
Clemente II[195].
[195] _Baron, Annal. Eccl. ad ann. 1046. § 3-5. — Pagi Critica ad an.
§ 1._
L'intervento d'Enrico III all'elezione del sommo pontefice rese
all'imperatore l'intero esercizio del diritto ch'ebbero già
gl'imperatori greci e carlovingi di concorrere all'elezione dei papi,
diritto che non vedesi esercitato da Corrado e da Enrico II. Enrico III
acquistò pure a questo riguardo una maggior influenza che veruno de'
suoi predecessori. Fino allora il costume della Chiesa era stato quello
di lasciare ai suffragi de' Romani la scelta del pontefice, e di
aspettare per consacrarlo l'approvazione dell'imperatore: ma Enrico
approfittando della riconoscenza del nuovo papa, del pregiudizio che
l'ultimo scisma aveva arrecato alle elezioni popolari, e dell'appoggio
della sua armata, obbligò il popolo romano a rinunciare al diritto di
presentazione, ed a lasciare in sua mano senza riserva l'elezione de'
futuri pontefici[196].
[196] _Sancti Petri Damiani opuscula, § 27. 36. apud Murat. ad an
1047._
Enrico III non abusò del potere che riduceva in così ristretti limiti le
libertà della Chiesa e del popolo. Clemente II, Damaso II e Leone IX,
ch'egli elesse successivamente, erano uomini religiosi, che riformarono
i costumi del clero e della Chiesa. L'ultimo, cui procurò la tiara, fu
Vittore II, prima vescovo (1054) d'Aichstett, che gli fu indicato dal
monaco Ildebrando, in allora sottodiacono della Chiesa romana. Enrico si
risolvette con difficoltà ad allontanare dal suo fianco questo prelato,
ch'era uno de' suoi principali consiglieri e de' più cari amici[197]; e
quando nel susseguente anno fu Enrico sorpreso dalla mortal malattia che
lo condusse al sepolcro in età di trentanove anni, confidò a questo papa
ed all'imperatrice Agnese l'amministrazione de' suoi stati e la tutela
di suo figlio in età di soli cinque anni. Vittore sopravvisse poco tempo
ad Enrico, ed i suoi successori non corrisposero alla confidenza che
l'imperatore aveva riposta nella santa sede.
[197] _Chron. s. Monas. Cassin. lib. II. c. 89. p. 403._
Fu in fatti dopo la morte d'Enrico III, che i Romani pontefici, benchè
sudditi e creature degl'imperatori, si eressero in loro censori e
padroni. Il successore di s. Pietro ambì apertamente un dominio
universale; ambiziosi prelati si presero cura di destare il fanatismo
del popolo, e per lo spazio di settant'anni d'anarchia la potenza
ecclesiastica e la secolare si fecero guerra non meno colle armi, che
coi delitti. Noi crediamo poterci dispensare dal raccontar di nuovo
circostanziatamente la troppe volte descritta contesa del sacerdozio e
dell'impero, per cagione dell'investiture; e ci limiteremo ad indicare
il carattere dei personaggi che vi rappresentarono le prime parti, e
quale fosse lo spirito del secolo che la vide nascere.
Fino alla prima minorità d'Enrico IV, aveva Ildebrando acquistata
grandissima influenza nella Chiesa e nell'impero. Il carattere della sua
anima lo chiamava a grandi cose; imperciocchè, in onta della società,
non è colle virtù amabili, ma spesse volte coi difetti e coi vizj che si
governano gli uomini. Nel carattere d'Ildebrando trovavasi quell'energia
di volontà che è figlia di smisurata ambizione, tutta la rusticità di un
essere ch'erasi reso nel chiostro straniero all'umana natura, e non
aveva mai amato un suo simile. Siccome questo monaco aveva imparato a
reprimere ogni affetto, le potenze dell'imperiosa sua anima eransi tutte
dirette al conseguimento de' suoi desiderj. Ciò che aveva progettato una
volta, diventava lo scopo delle mire di tutta la sua vita; egli
chiamavalo giusto, vero, ed arrivava a persuader sè medesimo prima di
persuaderlo agli altri, che la sua ambizione era un suo dovere. Egli
aveva veduta la Chiesa dipendente dall'impero, e sostenne che l'impero
era soggetto alla Chiesa; chiamò usurpazioni criminose, ribellioni
sediziose, i tentativi dei laici pel mantenimento d'incontrastabili
diritti; comunicò al clero il suo entusiasmo e la sua convinzione,
dandogli un impulso che si prolungò lungo tempo ancora dopo la sua
morte, e che innalzò i pontefici sopra i re dell'Europa[198].
[198] Veggansi intorno al carattere di Gregorio gli scrittori
ecclesiastici ed ortodossi. _Baron. an. 1073. — Pagi Critica
ibid, — Pandul. Pis. vitae Pont. t. III. p. I. Rer. Ital. p.
304. — Paulus Bernriedens. de gestis Gregorii VII. ib. p. 317._
Prima di montare egli stesso sulla santa sede, Ildebrando diresse per lo
spazio di vent'anni le elezioni del papi. Vivente ancora Enrico III, era
stato fatto depositario di tutta l'autorità del senato e del popolo
romano, e fu allora che fece alla corte imperiale eleggere Vittore: fu
l'anima della corte di Roma ne' pontificati di Stefano IX, Nicolò II ed
Alessandro II; di modo che può far maraviglia come ad ogni vacanza del
trono pontificio, non vi foss'egli elevato prima del 1073, epoca della
sua elezione; e convien credere che il suo duro ed imperioso carattere
gli alienasse i suffragi del popolo.
Ildebrando per mezzo de' suoi predecessori, de' quali era l'unico
consigliere, fece tentare la riforma del clero. Egli sentiva vivamente
che per renderlo onnipossente conveniva accrescere per lui il rispetto
del popolo, ed attaccarlo più strettamente al suo capo. Molti parrochi,
e probabilmente alcuni vescovi erano solennemente ammogliati; i
regolamenti ecclesiastici non ne avevano loro assolutamente tolta la
facoltà[199]; ma il popolo da molto tempo non accordava la sua
ammirazione che alle virtù monacali, e risguardava come degni di maggior
rispetto gli ecclesiastici celibi. Questi ultimi, rinunciando agli
affetti di famiglia, consacravano tutto intero il loro cuore alla
Chiesa; quindi erano più ligi ai papi, più zelanti e più potenti.
Ildebrando risolse di non soffrire uomini ammogliati tra i ministri
dell'altare, e mosso da' suoi suggerimenti, Stefano IX l'anno 1058
dichiarò il matrimonio incompatibile col sacerdozio, che tutte le mogli
dei preti erano concubine, e che tutti coloro che non le abbandonavano,
erano sul fatto scomunicati. Una tanto grave ingiuria fatta ad uomini
rispettabili, e ch'eransi uniformati alle leggi del loro stato, non fu
pazientemente tollerata: il clero di Milano si tenne più offeso degli
altri, perchè allegava l'espressa permissione del matrimonio accordata
da s. Ambrogio a quella diocesi, e l'esempio di due arcivescovi
ammogliati[200]. Riclamò con vigore, resistette, ed oppose a quella del
papa la decisione d'un concilio: ma Ildebrando sprezzò la sua
resistenza, ed i parrochi refrattarj furono denunciati come infetti
d'eresia, quando altro non facevano che difendere le antiche loro
costumanze. Questi nuovi eretici furono chiamati Nicolaiti[201].
[199] Tutti gli antichi storici milanesi assicurano che s. Ambrogio
aveva lasciato al clero della sua diocesi la libertà d'ammogliarsi
una sola volta, e con una vergine. Non pertanto il Pagi _Crit. An.
Eccl. an. 1045. § 7-10._, ed il Puricelli nella sua dissertazione,
_t. IV. Rer. Ital. p. 121_, sonosi sforzati di confutare
quest'asserzione. Stando ad una lettera di papa Zaccaria a Pipino
maggiordomo di Francia, § 11, il matrimonio fu vietato ai vescovi,
prelati e diaconi dal cap. 37. di un concilio africano, restando le
altre classi in libertà di seguire la costumanza delle chiese
particolari. _Cod. Carol. t. III. Rer. Ital. p. II. p. 84._
[200] _Corio Storie Milan. p. I. p. 6._ Galvanei Flam. _Maniss.
Flor. c. 150. t. XI. Rer. Ital. p. 673._ — _Landulph. Sen. Hist. Med.
lib. III. c. IV. t. IV. p. 96._ — Inoltre il quarto volume
tutt'intero del conte Giorgio Giulini, _Memorie della città e
campagna di Milano_, ove tratta l'argomento con molta estensione.
[201] _Baron. Annal. Eccl. ad an. 1059. § 43._
Un colpo assai più ardito fu scagliato l'anno 1059 da papa Nicolò II nel
concilio lateranese contro la podestà secolare. Tutti gli ecclesiastici
erano anticamente nominati dal popolo della loro parrochia; ma i signori
ed i re, avendo arricchita la Chiesa, eransi quasi tutti riservati il
diritto di presentazione ai beneficj, ch'essi o i loro antenati avevano
istituiti; vale a dire, il diritto di scegliere il prete che ne sarebbe
rivestito. Indipendentemente da un contratto tra il donatore e la
parrochia, quando una Chiesa possedeva un feudo, il nuovo prelato, in
forza delle leggi dello stato, non poteva prenderne il possesso senza
esserne investito dal signore che aveva l'alto dominio del feudo. Questa
era la legge feudale, la legge universale, che non ammetteva eccezioni
in favore degli ecclesiastici. Con tali diritti di presentazione e
d'investitura era stata tolta alla greggia, e data alla corona la
facoltà d'eleggere la maggior parte dei pastori; ed è verisimile che
alla corte degl'imperatori, come praticavasi prima nelle assemblee della
parrochia, e si usò dopo alla corte de' papi, si acquistassero i ricchi
benefici a prezzo d'oro. Ildebrando denunciò quest'abuso quale scandalo
infame, quale vergognoso mercato dei doni dello Spirito Santo, cui diede
il nome di Simonia. I Simoniaci furono dichiarati eretici e scomunicati,
e per preservare le Chiese da tale corruzione si proibì ai preti di
ricevere alcun beneficio ecclesiastico dalle mani d'un laico, _anche
gratis_[202]. La Chiesa si arrogò d'un sol colpo la prerogativa di
rinnovare i suoi proprj membri, mentre i re ed i grandi vennero
spogliati del diritto di distribuire i beneficj, de' quali i loro
antenati avevangli lasciata la libera disposizione; di un diritto, che
il primitivo contratto loro riservava come una proprietà ch'essi avevano
posseduto molti secoli, e che tutta la cristianità aveva riconosciuto
legittimo.
[202] _Baron. Annal. ad ann. 1059. § 32-34._
Il canone che proscriveva le investiture non fu da prima applicato
all'elezione dei papi; non avendosi un solo esempio che alcuno
imperatore vendesse questa suprema dignità; e le concessioni fatte dalla
Chiesa ad Enrico III erano troppo fresche per poterle adesso
distruggere; onde il concilio lateranese si limitò a modificarle. Le
future elezioni dei papi, invece di lasciarle, secondo l'antica
consuetudine, al popolo romano, si attribuirono ai cardinali, i quali
non ne avevano per altro l'assoluta esclusiva. Essi dovevano riunirsi
prima degli altri, ond'essere, giusta il decreto, le guide _praeduces_
dell'elezione; il rimanente del clero, ed il popolo dovevano
accontentarsi di seguirli, e doveva l'operazione aver compimento «salvo
l'onore ed il rispetto dovuto al re Enrico futuro imperatore, e
coll'intervento del suo nunzio il cancelliere di Lombardia, cui la sede
apostolica accordò il privilegio personale di prender parte all'elezione
colla propria adesione»[203]. Le vaghe espressioni del canone del
concilio lateranese furono poi il fondamento del diritto esclusivo, che
i cardinali si appropriarono, di nominare i capi della Chiesa. La
riserva, benchè assai più chiara, del diritto monarchico, non impedì che
alla prima vacanza accaduta due anni dopo, non si elegesse Alessandro
II, senza neppur chiedere l'assenso d'Enrico, o dell'imperatrice
reggente[204]. Di modo che la corte irritata nominò in Allemagna un
altro papa Cadolao vescovo di Parma, lo che diede motivo a nuovo scisma.
[203] _Decret. Nicolai II Papae in Chron. Monast. Farfensis. t. II.
p. II. Rer. Ital. p. 645._
[204] _Leo. Ost. Chron. Monast. Cassin. lib. III. c. 21. p. 431._
Nello stesso concilio di Laterano venne espressamente ammesso come
dottrina cattolica il domma della presenza reale nell'Eucaristia. Certo
Berengario, diacono d'Augers, aveva scritta un'opera contro i
propagatori di tale credenza; sosteneva nel suo libro, che la Chiesa non
aveva mai veduto nel Sacramento che una memoria, un simbolo del
sacrificio di Gesù Cristo. La sua professione di fede, che fino a que'
tempi era stata quella della cristianità, fu condannata come un'eresia,
di cui fu forzato a fare l'abjura[205][206].
[205] _Baron. Annal. Ib. § 15 — 23._
[206] L'opinione dell'autore non è quella della chiesa cattolica
vittoriosamente difesa da tante egregie opere, e specialmente da
quella profondissima d'Antonio Arnaldo intitolata: _Perpetuité de la
fois ec._
Durante la minorità d'Enrico IV, i suoi ministri, senza pregiudicarne i
diritti, seppero evitare un'aperta rottura colla santa sede. La fazione
degl'Italiani, che volevano difendere contro il papa la libertà della
Chiesa, formava già un sufficiente contrappeso all'ambizione dei
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