Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 06

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[100] _Benvenuti de s. Gregorio hist. Monfer. t. XXIII, p.
325._ — _Guichen, hist. genolog. di Savoja l. V, tavola III ed
VIII._ — _Sigon. ad ann. 967, lib. VII._
Vedremo nel susseguente capitolo quali furono le differenze ch'ebbe
Ottone il grande colla Chiesa[101]; e vedremo altrove i motivi della
lunga guerra ch'egli e suo figliuolo sostennero contro i Greci per il
possedimento della Calabria e del ducato di Benevento. Questi sono i
soli avvenimenti del regno di Ottone in Italia, di cui gli storici
abbianci conservata distinta memoria. Dopo aver consumata la conquista
del regno lombardo, Ottone era tornato in Germania l'anno 965. Ripassò
in Italia l'anno susseguente, e risedette successivamente in Ravenna, in
Pavia, in Roma, in Capoa fino al 972; nel quale anno rivide la Germania,
ove morì presso a Maddeburgo il giorno 7 di maggio l'anno 978.
[101] Una tavola cronologica del regno dei primi imperatori tedeschi e
delle loro spedizioni in Italia parmi necessaria per far conoscere
quanto poco influissero nel governo di questa contrada, e per supplire
alla brevità della mia narrazione.
EPOCHE DEL REGNO DELLA CORONA SPEDIZIONE
IN ITALIA. IMPERIALE. IN ITALIA.
_entrata_,
_ritorno_,
_morte_
Ottone I 961 962 1º 961 965 ...
... 2º 966 972 973
Ottone II 962 con
suo padre 967) 1º 967 972 ...
solo 973) 2º 980 ... 983
Ottone III 983 996 1º 996 996 ...
... 2º 997 1000 ...
... 3º 1000 ... 1002
Ardovino marchese
d'Ivrea concorrente
con Enrico II ... ... ... 1015
Enrico II 1004 1014 1º 1004 1004 ...
... 2º 1013 1014 ...
... 3º 1021 1022 1024
Corrado II 1024 1027 1º 1026 1027 ...
... 2º 1036 1038 1039
(973 = 983) Gli succedette suo figliuolo, nominato pure Ottone, che il
padre aveva chiamato a parte dell'impero l'anno 967. Una guerra civile
mossa contro di lui da Enrico il rissoso, duca di Baviera, obbligò il
giovane Ottone a rimanere in Germania fino al 980. Passò dopo in Italia,
ove morì del 988. Allorchè parleremo delle repubbliche marittime, e di
quelle della Magna Grecia, dovremo dire alcuna cosa intorno alle guerre
che nel corso del poco illustre suo regno ebbe Ottone II a sostenere
contro le medesime.
(983 = 1002) Ottone morendo lasciava un fanciullo sotto la tutela di
Teofania sua consorte, della propria madre Adelaide, e dell'arcivescovo
di Colonia. Travagliato questo giovane principe, durante la sua età
minorenne, dalle guerre civili ch'ebbe a sostenere contro il duca di
Baviera Enrico il litigioso, non venne poi in Italia che del 996, ove
morì nel fiore dell'età sua l'anno 1002. In esso, che fu Ottone III, si
spense la famiglia di Sassonia, dopo aver posseduto quarantun'anni il
regno unito dell'Italia e della Germania.
In questo spazio di tempo i principi della casa di Sassonia dimorarono
venticinque anni fuori d'Italia, quantunque durante la loro assenza il
governo generale della nazione rimanesse in qualche modo sospeso:
imperciocchè non promulgavasi senza l'imperatore veruna legge criminale,
non riunivasi l'assemblea della nazione, non eravi guerra pubblica, non
leva d'uomini per l'impero, non tasse per il monarca. E siccome la
sovranità nazionale non poteva restar inerte, così rifondevasi nelle
province. I signori ed i prelati emanavano editti, le città leggi
municipali. I feudatarj nominavano i giudici dei villaggi; il popolo i
consoli ed i pretori nelle città. Ogni corpo si rivendicava il diritto
di difendersi, ogni cittadino diventava soldato: per ultimo magistrati
eletti dai loro eguali determinavano per le spese municipali una tassa
quasi volontaria, ed un consiglio che veniva chiamato consiglio di
confidenza, amministrava il danaro della città.
Il sentimento che i popoli attaccano all'idea astratta di patria, è
composto dai sentimenti di riconoscenza per la protezione che accorda,
d'affezione per le sue leggi e costumanze, e di partecipazione alla sua
gloria. Ma lo stato era in modo diviso, che ogni cittadino non poteva
conoscere se non la protezione dei magistrati della sua città; siccome
non poteva conoscere che le leggi, le usanze e la gloria della sua città
e delle di lei armi. Talchè abbandonando l'idea indeterminata di membro
d'un impero che non conosceva, e col quale non aveva alcun rapporto che
incomodo non fosse, ogni cittadino s'avvezzava a circoscrivere alla sua
città l'idea di patria e tutta la sua patria. In tal maniera formossi
nell'opinione degli uomini una strana rivoluzione, e fin qui senza
esempio; imperciocchè quantunque la prosperità e la libertà siano state
sempre il retaggio esclusivo delle piccole nazioni, come appartengono ai
grandi stati il despotismo, i grandi abusi, i traviamenti
dell'ambizione, le guerre senz'oggetto e le paci senza riposo; non erasi
ancor veduto, e forse non si vedrà mai più un popolo rinunciare agli
attributi di grande nazione, alla gloria attaccata ad un nome
collettivo, alla grandezza, alla potenza, per cercare la libertà nello
scioglimento del suo legame sociale.
La subordinazione feudale veniva scossa da ogni rivoluzione dell'impero
in modo che più stranieri rendeva sempre gli uni agli altri i membri
dello stato. La morte di Ottone III liberò le città dalla riconoscenza
dovuta alla famiglia del grande Ottone, e la guerra civile, eccitata
dall'elezione del suo successore, diede loro motivo d'esperimentare le
proprie forze, e di conoscere che non avevano omai più bisogno d'un
protettore straniero.
(1002) Saputasi in Germania la morte d'Ottone III, il marchese di
Turingia, il duca di Germania, ed Enrico III, duca di Baviera figliuolo
d'Enrico il rissoso, si disputarono la corona. Dopo una breve guerra
civile, rimase all'ultimo ch'era nipote del fratello del grande Ottone,
e fu coronato a Magonza sotto il nome d'Enrico II re di Germania[102].
Benchè non fosse per gl'Italiani che Enrico I, non contando questi
Enrico l'uccellatore, il quale non fu loro re, noi indicheremo questo
principe ed i suoi successori dello stesso nome col numero adoperato dai
Tedeschi, per evitare la confusione d'un doppio numero.
[102] _Chron. Ditmari Epis. Merzepurgii l. V. p. 365. ap. Leibn.
Scr. Brunsv. t. I._ — _Ann. Hildeghemenges. Ib. p. 721. an.
1002._ — _Her. Cont. Chr. p. 270._
Intanto la dieta de' signori italiani riunitasi in Pavia eleggeva re di
Lombardia Arduino marchese d'Ivrea[103]. La convenzione dalla nazione
italiana contratta colla casa di Sassonia non aveva più vigore dopo che
questa famiglia aveva cessato di esistere; i regni d'Italia e di
Germania erano affatto l'uno dall'altro indipendenti; e veruna legge
obbligava ad affidarne l'amministrazione allo stesso monarca. A fronte
di così evidenti ragioni l'elezione d'un re lombardo si risguardò dai
Tedeschi come un atto di ribellione; per cui si disposero a
riconquistare l'Italia: e continuando in questa loro strana pretensione,
trattarono sempre gl'Italiani come un popolo nemico o ribelle, che
dovevasi atterrire con rigorosi castighi, e tenere sotto il giogo. Gli
Ottoni furono i protettori della libertà delle città, e gli Enrichi
colla diffidente loro durezza sforzarono queste città medesime a
rivolgere contro di loro quelle forze che avevano ricevute dalla
libertà.
[103] Arnul_. Hist. Med. l. I. c. 14. et 15. t. IV. Rer.
It. — Landul. Seni. His. Med. l. II. c. 19. p. 82._
Arduino era stato eletto in Pavia, e tanto bastava perchè i Milanesi si
dichiarassero contro di lui; imperocchè Pavia e Milano si disputavano il
primo rango tra le città lombarde, e sentivansi di già abbastanza forti
ed indipendenti per potersi abbandonare alla vicendevole loro gelosia. A
ciò s'aggiungeva che Arnolfo arcivescovo di Milano aveva particolar
motivo d'essere scontento di Arduino. Egli arrivava dopo chiusa la dieta
di Pavia, da una ambasceria a Costantinopoli, speditovi da Ottone III;
onde risguardò come illegittima l'elezione d'un re senza l'intervento
del primo prelato della nazione. (1004) Approfittando dei soccorsi
dell'arcivescovo e della città di Milano, Enrico di Germania,
riconosciuto re da una nuova dieta di Roncaglia, si affrettava di venire
in Italia per la strada di Verona. Arduino, abbandonato dalle proprie
truppe che si dispersero prima di misurarsi col nemico, si vide
costretto di rifugiarsi nelle fortezze del suo marchesato; lasciando che
il suo rivale s'avanzasse senza incontrare ostacoli fino a Pavia, ove
ricevette dall'arcivescovo di Milano la corona d'Italia.
Lo stesso giorno dell'incoronazione, le indisciplinate truppe d'Enrico
diedero nuove ragioni agli abitanti di Pavia d'attaccarsi al suo rivale.
I Tedeschi riscaldati dal vino insultarono i cittadini in modo che
trovaronsi costretti di reprimere colle armi gli oltraggi d'una
soldatesca indisciplinata. Ad Enrico venne da' suoi cortigiani
rappresentato questo tumulto siccome _un furor di plebaglia, e
l'esplosione d'un'arroganza di schiavo_[104], che dovevasi reprimere
colla forza; ma la ribellione era più estesa, ed il pericolo maggiore
che non era annunciato. Enrico trovossi assediato nel palazzo che le sue
guardie difendevano a stento. Per liberarlo, e sottomettere i Pavesi
ribellati, non potendo, per essere state barricate le strade, avanzarsi
la truppa d'Enrico accampata fuori di Pavia, mise il fuoco alla città.
L'incendio allargandosi rapidamente favoriva il massacro; e la superba
capitale dei Lombardi fu bentosto un mucchio di ruine sparse di sangue,
da cui Enrico s'allontanò subito colla sua armata. Frattanto i Pavesi
rifabbricarono la loro città; e consacrando le nuove mura, giurarono di
vendicarsi dei Tedeschi; e proclamato di nuovo Arduino, dedicarono le
loro armi e le fortune loro al rialzamento del suo trono[105].
[104] _Ditmarus Chron. l. VI. p. 377. Scrip. Br. t. I._
[105] _Arnulph. Med. lib. I. c. 16. p. 12._
Enrico, cui stava infinitamente più a cuore la conservazione della
Germania, che l'apparenza di uno sterile potere in Italia, lasciò
passare dieci anni senza portarvi di nuovo le sue armi. D'altra parte
Arduino, mancante di truppe e di danaro, poco profitto ritraeva da' suoi
talenti e dal suo coraggio. Vercelli, Novara, Pavia, e probabilmente
quasi tutte le città del Piemonte riconoscevano i suoi diritti alla
corona: ma queste città non potendo assoldare milizie, rifiutavansi di
ricevere il re entro le sue mura per non ricevere col re le sue truppe
indisciplinate, ed un potere dispotico. Arduino perciò riparavasi nelle
fortezze del suo antico marchesato, e non rammentava ai popoli la sua
dignità reale, se non con qualche donazione ai monasteri; soli documenti
che siano a noi pervenuti del suo regno. Pareva che le città si fossero
parzialmente incaricate di difendere i diritti dei due concorrenti.
Milano attaccava frequentemente colle sue milizie i limitrofi vassalli
di Arduino, mentre i cittadini pavesi guastavano il territorio milanese:
tutti s'esercitavano nelle armi, tutti s'abbandonavano alla gelosia
ond'erano animati verso i loro vicini, tutti s'accostumavano a non
risguardare per loro patria che la propria città, ed adottavano il nome
dei re piuttosto per giustificare le loro guerre, che per voglia che
avessero di abbracciar la causa de' monarchi per cui apparentemente
combattevano.
Enrico II fu in Italia nel 1003 e nel 1014, e ricevette a Roma la corona
imperiale dalle mani di Benedetto VIII, senza che giammai si scontrasse
colle armate di Arduino (1015). Ma dopo il ritorno d'Enrico in Germania,
il re lombardo, sorpreso da grave malattia, depose spontaneamente le
insegne reali, e si fece monaco nel monastero di Frutteria per
prepararsi alla morte[106].
[106] _Mur. an. 1015. — Arn. Hist. Med. l. I. c. 16. p. 13._
Del 1024 gl'Italiani tentarono ancora di liberarsi dalla tedesca
dipendenza, approfittando della mancanza del re, cui, per essere divisi
i voti degli elettori, non veniva dato alcun successore. Perciò
gl'Italiani offrirono successivamente la corona di Lombardia a Roberto
re di Francia, ed a Guglielmo duca d'Aquitania[107]. Ma questi due
principi, avendo saggiamente riflettuto alla debolezza della monarchia
italiana, ai pericoli, ed alle spese che sarebbe loro costato l'acquisto
d'un onore illusorio, rifiutarono un dono che avrebbe rovinati gli
antichi loro sudditi. L'arcivescovo di Milano che aveva la direzione di
questi trattati, risolvette di passare egli stesso in Germania e trattar
la pace a nome della sua nazione con Corrado il Salico duca di
Franconia, ch'era stato eletto da una dieta tedesca, ed il di cui nome
va unito alle ultime leggi che compirono il sistema feudale[108].
[107] _Id. ad an. 1025. t. VIII. p. 557. — Notæ ad Arn. Med. l. II.
c. p. 14._
[108] Questo Corrado II, per i Tedeschi, perchè ebbero un Corrado I
dal 911 al 918, era primo per gl'Italiani.
(1024) Corrado II discendeva in linea femminina da Ottone il grande, lo
che gli diede un titolo per aspirare alla corona. Il suo predecessore
Enrico II era morto senza figliuoli; ed una delle virtù, che lo fece
degno con Cunegonda sua moglie dell'onor degli altari, vuolsi che fosse
la fedeltà con cui mantenne fino alla morte il voto di verginità emesso
di consenso della sposa[109].
[109] _Leo Ostiensis Chron. Monac. Cassinensium, lib. II c. 46. p.
368._
(1026) Poichè Corrado ebbe pacificata la Germania, e stabilita la sua
discesa in Italia, spedì, secondo l'usanza che di fresco era invalsa,
deputati a prevenire tutte le città della sua venuta, chiedendo loro il
giuramento di fedeltà, ed il pagamento delle tasse, che in questa sola
circostanza erano devolute al tesoro reale. Tali imposte chiamavansi nel
barbaro latino di que' tempi _federum_, _parata_, e _mazionaticum_. Il
primo consisteva in una determinata quantità di vittovaglie destinate al
mantenimento del re e della sua corte, che d'ordinario venivano
rappresentate da una somma di danaro. Il secondo era un tributo col di
cui prodotto riparavansi le strade ed i ponti de' fiumi che doveva
attraversare il re. Il terzo serviva alle spese dell'alloggio de'
cortigiani e dell'armata reale durante il loro viaggio[110].
[110] _Carol. Sigon. de Regno It. lib. VII. p. 175. — Alho Fris. de
Gestis Frid. I. lib. II. c. 12. p. 709._
Corrado venne fino a Roncaglia, pianura posta in riva al Po presso a
Piacenza, ove alla venuta degl'imperatori riunironsi sempre le diete
italiche. Pareva che d'improvviso sorgesse una città in mezzo a deserta
campagna. Piazze e strade tirate a filo separavano il padiglione reale,
quelli de' signori, e dell'armata, ed una muraglia circondava tutti
questi quartieri. I negozianti che vi accorrevano da ogni banda,
costruivano le loro botteghe fuori delle mura, e formavano i sobborghi
della città, che avevano l'aspetto d'una magnifica fiera. Il padiglione
del re ergevasi nel centro del suo campo; innanzi al quale vedevasi
appeso ad un'antenna uno scudo, cui tutti i feudatarj invitati
dall'araldo facevano a vicenda la sentinella. La funzione di vegliare
armati le prime notti teneva luogo di revista dell'armata, e gli assenti
potevano essere condannati alla perdita del feudo, per non avere
soddisfatto al loro dovere di accompagnare il re nella sua spedizione. I
primi giorni della dieta erano dal re consacrati a decidere le cause
private, onde tenersi in possesso dell'esercizio del potere giudiziario.
Riceveva ne' susseguenti giorni le ambascerie delle città, regolandone i
rapporti colla monarchia, e terminando le vicendevoli loro controversie.
Finalmente negli ultimi giorni della dieta il re s'occupava
degl'interessi de' signori, e delle quistioni attinenti ai feudi.
La dieta che del 1026 fu preseduta da Corrado il Salico viene indicata
da alcuni storici quale epoca importantissima d'un cambiamento nella
legislazione feudale, credendo che la prima costituzione che trovasi nel
quinto libro dei feudi si promulgasse in quest'epoca[111]. Per la legge
di Corrado il Salico tutti i beneficj militari furono dichiarati
ereditarj di maschio in maschio; e si costrinsero i signori di
rinunciare all'abusivo diritto di privare de' proprj feudi i loro
vassalli; tranne il capo di fellonia, ed anche in allora dopo un
giudizio de' loro pari. Poi ch'ebbe scorsa l'Italia, e rinnovate con
pubbliche udienze ed importanti giudizj la memoria dell'autorità
imperiale, Corrado ritornò colla sua armata in Germania.
[111] _Sigon. de Reg. l. VIII, ad an. p. 194. — Denin. Rivol. d'It.
l. X. c. 2. p. 76._ — Può differirsi questa costituzione anche al
1037, e pare che questa sia l'opinione del Muratori. Ma è probabile
che nella sua prima discesa in Italia Corrado regolasse con una
legge un oggetto che da lungo tempo eccitava le lagnanze de'
feudatarj.
Nè appena fu lontano, nuovi disordini mostrarono i vizj del sistema
feudale, che questo monarca aveva inutilmente cercato di correggere.
(1027 = 1036) Le città del centro della Lombardia godevano, gli è vero,
d'una libertà assai estesa, ed i grandi, e specialmente i prelati,
avevano scosso il giogo dell'imperatore, ed emancipatisi quasi affatto
dalla sua autorità: ma i gentiluomini, i capitani, i valvasori, che
formavano l'ordine equestre, lungi dal partecipare della libertà degli
altri ordini, vedevano peggiorata la loro condizione. Pareva che la
nazione non formasse un solo corpo che nelle diete o udienze di
Roncaglia; ma ancora a queste i gentiluomini intervenivano senza
missione, senza privilegi, senza alcun appoggio per riclamare contro la
soverchieria de' grandi feudatarj, o contro le usurpazioni delle città.
Terminata la dieta, scioglievasi ancora lo stato, ed i signori de'
castelli ritornavano ne' loro dominj per difendervisi, e farsi giustizia
colle proprie armi e con quelle de' loro vassalli. Le campagne venivano
affatto rovinate da queste guerre private, e tutto posto in estrema
confusione.
Il ladroneccio che accompagnava le guerre della nobiltà, fu sotto
Corrado più tosto sospeso che represso dalle ammonizioni di alcuni
uomini pii, i quali pretendevano, e fors'anche credettero di buona fede,
aver loro il cielo rivelato che Dio ordinava agli uomini d'ogni credenza
una tregua di quattro giorni per settimana dopo la prima ora di giovedì
fino alla prima ora del lunedì. Tutti gli uomini, per qualsiasi errore
da loro commesso, dovevano in questi quattro giorni essere in libertà di
occuparsi de' proprj affari; e guai a coloro che durante la _tregua di
Dio_ facessero qualche vendetta contro i proprj nemici o contro quelli
dello stato. Questa pace si predicò la prima volta l'anno 1033 dai
vescovi d'Arles e di Lione, e nella stessa epoca fu introdotta in
Italia[112]; ove non ebbe mai intera esecuzione. Erano gl'Italiani, fra
tutti i cristiani, i meno superstiziosi, e meno degli altri disposti a
prestar fede ad un ordine emanato dal cielo.
[112] _Landulp. Sen. l. II. c. 30. p. 90. — Ducangius in Glossario
Latin. voce_ Treva.
Le private guerre dei gentiluomini furono in breve seguite da una guerra
più generale ch'essi di comune accordo dichiararono ai prelati, ch'erano
per lo più loro signori, ed in pari tempo agli abitanti delle città. I
valvasori non potevano vedere senza gelosia questi uomini, nati loro
eguali o inferiori, godere dell'autorità sovrana, i primi come principi,
gli altri come repubblicani. Lagnavansi in ispecial modo dell'orgoglio
d'Eriberto, arcivescovo di Milano, il quale senza avere verun rispetto
alla costituzione di Corrado, spogliava de' suoi feudi qualunque de'
suoi vassalli avesse la sventura di cadere nella sua disgrazia. Allorchè
seppero che l'arcivescovo aveva ingiustamente oppresso un gentiluomo,
tutti i vassalli della sede milanese presero ad un tempo le armi, ed il
loro esempio fu seguito da tutti i gentiluomini della Lombardia[113].
Dall'altra parte i cittadini che erano stati soverchiati più volte dalla
nobiltà, e che credevano partecipare della grandezza de' loro prelati,
presero le armi per difenderli. La prima battaglia si diede nelle
contrade di Milano, ove dopo un'ostinata resistenza i gentiluomini
dovettero abbandonare la città. Ma giunti in campagna trovarono molti
ausiliarj che si posero sotto le loro insegne; e la città di Lodi,
invidiando la grandezza di Milano, dichiarossi a favore de'
gentiluomini, i quali nella battaglia di Campo Malo ruppero i Milanesi
(1035 = 1039) comandati dall'arcivescovo. Chiamato da questi disordini
nuovamente in Italia, l'imperator Corrado convocò la dieta in Pavia,
onde provvedere a tanti mali. Incominciò dall'ordinare l'arresto
dell'arcivescovo Eriberto, e dei vescovi di Vercelli, di Cremona, di
Piacenza[114], ed appoggiò caldamente le lagnanze dei valvasori; ma ogni
sua pratica riuscì inutile al ristabilimento della pace. I prelati,
fuggiti alle guardie imperiali, riguadagnarono le loro città, e
trovarono i cittadini pronti ad armarsi per la loro difesa. Corrado
volle inseguirli, e fu respinto dai Milanesi, e costretto di rinunciare
all'assedio di quella città[115].
[113] _Anno 1035. Arnul. Hist. Med. l. II. c. 10. p. 16._
[114] _Sig. Gemblacens. Chron. p. 833. — Her. Cont. p. 279. — Annales
Hildeshemens. p. 728._
[115] _Arn. Med. l. II. c. 13, p. 18. — Land. Serv. II. c. 25._
Ad accrescere la confusione prodotta da questa guerra civile s'aggiunse
una nuova scissura. I gentiluomini insorti avevano pur essi dei vassalli
con giurisdizione militare, che in allora chiamavansi _valvassini_, i
quali tenevano schiavi, ossia servi attaccati alla _gleba_. Queste due
classi di uomini, in tempo che gli altri ordini della società
impugnavano le armi per l'indipendenza, si credettero ugualmente in
diritto di riclamarla, e presero le armi contro i loro signori,
chiedendo la libertà generale.
A quest'epoca tutti i ranghi della società trovaronsi in guerra gli uni
contro gli altri: ma l'eccesso medesimo dell'anarchia produsse
finalmente una pace vantaggiosa a tutta la nazione; i diritti di ciascun
ordine furono stabiliti con precisione; la costituzione di Corrado
intorno alla successione dei feudi fu adottata dalla nazione; quasi
tutti gli schiavi furon posti in libertà; e soppresse o addolcite assai
le più umilianti condizioni annesse alla dipendenza feudale[116].
Finalmente, bramando i gentiluomini di avere una patria, si
determinarono quasi tutti di fars'inscrivere alla cittadinanza delle
città vicine; ossia, per valermi della frase di quell'età, di
raccomandare le persone ed i feudi loro alla protezione delle città. È
assai verisimile che questa generale pacificazione si effettuasse l'anno
1039 nell'istante in cui le armate trovandosi a fronte in vicinanza di
Milano, la notizia della morte di Corrado il Salico le consigliò a
deporre le armi[117].
[116] _Const. Conv. Sal. Imp. l. V. tit. I. lib. Feudorum. — Cod.
Longob. t. I. p. II., Rer. p. 177._
[117] _Arnul. lib. II. c. 16. p. 18._


CAPITOLO III.
_La chiesa e la repubblica romana nella prima metà de' mezzi
tempi — Dissensioni tra i papi e gl'imperatori. — Regni di Enrico
III, Enrico IV, ed Enrico V, dal 1039 al 1122. — Pace di
Wormazia._

Tre principi della casa di Franconia, il figlio, il nipote ed il
pronipote di Corrado il Salico, occuparono la sede imperiale dopo la
morte di questo sovrano fino ai tempi in cui le repubbliche, che formano
l'argomento di quest'opera, ebbero conseguita l'indipendenza; epoca in
cui noi cominceremo a tener dietro alle particolarità della loro storia.
Ma prima di descrivere compendiosamente i regni dei tre Enrichi di
Franconia, convien rimontare alquanto a dietro, e far conoscere ai miei
lettori qual fosse, al principio de' mezzi tempi, lo stato della Chiesa
romana, che protetta dai tre primi Enrichi perseguitò gli ultimi due;
quale lo stato della città di Roma, di cui gl'imperatori contrastarono
ai papi la sovranità; mentre fino dal principio dell'età di mezzo si
andava in silenzio formando una nuova repubblica romana, che talvolta
tenne nella sua dipendenza i pontefici dominatori della cristianità.
Non è facil cosa il render ragione dei motivi che dissuasero i Lombardi
dall'occupar Roma quando Alboino conquistò il rimanente dell'Italia. Le
città marittime potevan essere agevolmente soccorse dai Greci di
Costantinopoli; Ravenna, Venezia e Comacchio erano difese dalle paludi
che le circondavano; Napoli, Gaeta, Amalfi, e le città della Calabria,
dalle montagne; ma Roma era posta in un paese affatto aperto. I
Lombardi, padroni dei ducati di Toscana, Spoleti e Benevento, chiudevano
tra i loro dominj l'antica capitale del mondo, che, difesa dalla lunga
muraglia che Aureliano aveva innalzata per comprendere nella città il
campo Marzio, presentava un circondario immenso, che la popolazione di
Roma, estenuata da continue disgrazie, non era in grado di difendere.
Gl'imperatori greci, o per debolezza o per timore di cimentare l'onore
delle loro armi, non vi tenevano più guernigione. Affidavano il governo
della città ad un prefetto, di poi chiamato duca, che dipendeva
dall'esarca di Ravenna, onde gli storici greci, vergognandosi forse di
confessare che i loro sovrani lasciavano l'Italia abbandonata,
s'astennero dal parlare di Roma pel corso di due secoli, dal principio
fino alla fine della dominazione lombarda[118].
[118] Teofilatto Simocatta che vivea ne' tempi dell'invasione
lombarda, scrisse la storia del regno di Maurizio dall'anno 582 fino
al 602, tenendo dietro alle più minute particolarità, senza che
nella sua storia si trovi, per quanto io sappia, una sola volta il
nome de' Lombardi, di Roma, o d'Italia. _Scrip. Byzan. t. III._ Dopo
di costui, pel corso di quasi quattro secoli, i Greci non ebbero
alcuno storico, ma soltanto alcuni aridissimi cronisti.
Ad ogni modo Roma non fu giammai occupata dai Lombardi, ed i fuorusciti
delle altre province d'Italia, venuti a cercare asilo in questa città,
ne accrebbero poi la popolazione, e la resero capace di opporsi colle
proprie forze agli attacchi de' successori d'Alboino. I papi
incoraggiavano i Romani a difendere la loro patria, ed a mantenersi
fedeli ai sovrani di Costantinopoli[119]. Erano i papi nominati dal
clero, dal senato e dal popolo romano; ma non potevano essere consacrati
senza il formale consentimento dell'imperatore d'Oriente[120]. Essi
mantenevano sempre due _apocrisiarj_, o nunzj alla corte di
Costantinopoli, ed a quella dell'esarca di Ravenna, per assicurare il
sovrano della loro dipendenza, per provvedere di comun accordo alla
difesa di Roma, e per la regolare amministrazione della Chiesa.
[119] Finchè lo credettero utile all'ingrandimento della loro sede
ed alla personale loro considerazione. Ma quando trovarono del loro
interesse il sottrarla alla sudditanza de' Greci, non si fecero
scrupolo di darla in mano ai Franchi. N. d. T.
[120] I Romani si dispensarono una sola volta dal chiedere l'assenso
imperiale, e fu in occasione dell'elezione di Pelagio II l'anno 577,
perchè la città era in modo circondata dai Lombardi, che non poteva
aver comunicazione con Costantinopoli. _Anast. Bibl. in vita Pelagii
II. t. III. Rer. Ital. p. 133._
I Romani, vedendosi trascurati dagl'imperatori, s'andavano sempre più
affezionando ai papi, che di questi tempi erano anch'essi quasi sempre
romani, e per le loro virtù rispettabilissimi. Risguardavasi la difesa
di Roma come una guerra religiosa, perchè i Lombardi erano tutti o
arriani, o ancora pagani; ed i papi per proteggere le chiese ed i
conventi contro la profanazione de' barbari, impiegavano le ricchezze
della chiesa di cui erano amministratori, e le elemosine che ricevevano
dalla carità de' fedeli occidentali: di maniera che il crescente potere
del papi sulla città di Roma aveva per fondamento due titoli troppo
rispettabili, le virtù ed i beneficj.
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