Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 01 (of 16) - 16

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esposto alle piraterie de' Saraceni e dei Narentini. I primi abitavano
la Sicilia e l'Affrica, gli altri erano pirati della Dalmazia, che
riunitisi nella città di Narenta, in fondo al golfo dello stesso nome,
posto quasi in faccia d'Ancona, l'avevano fatta centro delle loro
piraterie[352]. Un secolo più tardi altri pirati stabilironsi in alcune
città dell'Istria, ed una ardita intrapresa richiamò su di loro
l'attenzione e lo sdegno della repubblica.
[352] _Const. Porphir. de Admin. imp. p. II c. 36. p. 85. — Chron.
Dand. l. VIII. c. 3. p. 172._
Per antica consuetudine i matrimonj de' nobili e de' principali
cittadini celebravansi in Venezia lo stesso giorno nella medesima
Chiesa. La vigilia della candellara in cui la repubblica dava la dote a
dodici fanciulle, era il giorno consacrato a questa pubblica festa. Di
buon mattino le gondole elegantemente ornate recavansi da tutti i
quartieri della città all'isola d'Olivolo, o di Castello, posta ad una
delle sue estremità, ove il capo del clero, allora vescovo, adesso
patriarca, teneva la sua residenza. Gli sposi sbarcavano colle loro
spose in mezzo al suono degli strumenti sulla piazza di Castello, e
tutti i parenti e gli amici in abito di gala facevano loro corteggio. Vi
si portavano in pompa i regali fatti alla sposa, ed il popolo affollato
lungo la riva degli Schiavoni, ed in tutte le strade che guidano a
Castello, seguiva senz'armi e senza alcun sospetto questa fastosa
processione.
I pirati istriani, istrutti da lungo tempo di questa costumanza
nazionale, ardirono di sorprendere gli sposi nella stessa città. Il
quartiere al di là dell'arsenale affatto vicino d'Olivolo non era a tal
epoca abitato, nè l'arsenale era ancora stato fabbricato. Gl'Istrioti si
posero di notte in aguato presso quest'isola deserta, nascondendovisi
colle loro barche. La mattina quando gli sposi furono nella Chiesa, e
che seguiti da uomini, donne, fanciulli, assistevano ai divini uffici,
attraversano il canale d'Olivolo, sbarcano armati sulla riva, entrano in
Chiesa i corsari da tutte le porte nel medesimo tempo colle sciabole
sguainate, e prendendo le desolate spose ai piedi dell'altare, le
costringono a montar sulle barche a tal uopo disposte, e con loro
rapiscono le gioje portate dai domestici; ed a forza di remi
s'affrettano di riguadagnare i porti dell'Istria.
Il doge Pietro Candiano III, presente alla cerimonia, dividendo la
rabbia e l'indignazione degli sposi, esce impetuosamente coi medesimi di
Chiesa, e scorrendo i vicini quartieri, chiama ad alta voce il popolo
alle armi ed alla vendetta. Gli abitanti di santa Maria Formosa
riuniscono alcune navi, nelle quali, entrato il doge e gli sposi
irritati, approfittano d'un vento favorevole, ed hanno la fortuna di
sorprendere gl'Istrioti nelle lagune di Caorle. Un solo de' rapitori non
si sottrasse alle vendette degli amanti e degli sposi furibondi: e lo
stesso giorno le belle Veneziane furono condotte in trionfo alla Chiesa
d'Olivolo. Una processione di giovanette, e la visita che il doge faceva
ogni anno la vigilia della candellara alla parrocchiale di santa Maria
Formosa, solennizzarono fino ai tempi della guerra di Chiozza la memoria
di questo avvenimento[353].
[353] _Marin Sanuto stor. dei duchi di ven. p. 461. — Navas. stor.
ven. p. 953. — Laugier hist. de Venise l. III. p. 296._
Ma il doge non si limitò a questo primo castigo; che si dispose a purgar
il mare Adriatico dai corsari che l'infestavano, e venendo a morte,
trasmise col trono ducale ai suoi successori questa importante impresa.
Egli aveva già rese tributarie della repubblica le città di Capo
d'Istria e di Narenta, ma la condotta ora sregolata e talvolta ambiziosa
di suo figlio Pietro Candiano IV, le insultanti usurpazioni di questo
principe, e la sua morte, funesto esempio della vendetta popolare[354],
sospendettero per lo spazio di più anni le spedizioni de' Veneziani.
Agitata da continue guerre civili, non riebbe Venezia l'interna
tranquillità che in sul finire del decimo secolo, ed allora, uscendo
dalle lagune con poderose forze, gettò nelle province d'oltre mare i
fondamenti di quell'impero che conservò fino ai nostri giorni.
[354] _Chron. Dand. l. VII. c. 14. p. 206._
Allorchè Teodosio divise le province romane, assegnò la costa orientale
dell'Adriatico all'impero di Costantinopoli; ma questa divisione fu ben
tosto dalla potenza dei barbari distrutta. Alcuni conquistatori di razza
schiavona, occupando l'Illirico colle loro genti, vi fondarono due regni
indipendenti e nemici di Bizanzo, quello della Croazia al Nord, e
l'altro della Dalmazia al Mezzogiorno. I Greci che non avevano potuto
conservare sotto il loro dominio che alcune città marittime, e non
avevano abbastanza truppe per formarne la guarnigione, ricorsero per
difenderle allo stesso metodo, di cui abbiamo veduto che si valsero
ancora nel regno di Napoli, cioè di accordare agli abitanti il diritto
di armarsi, e quello di eleggersi le proprie magistrature. Dopo avere in
tal modo loro data una patria, ed ispirato il desiderio di difenderla,
si credettero a ragione scaricati dal debito di proteggerle[355]. Le
città marittime dell'Istria dipendenti dall'impero d'Occidente non eran
meno libere delle prime; e per tal modo la costa illirica dall'una
all'altra estremità era sparsa di nascenti repubbliche, e quasi sempre
in guerra coi barbari.
[355] _Const. Porphir. de adm. imp. p. II. c. 29. p. 71. et
seq._ — Questa è l'epoca della prima indipendenza di Ragusi. Veggasi
intorno all'origine di questa repubblica, ed intorno alle sue forze
militari, una nota curiosa del Raguseo Banduri: _Animadversiones in
lib. de administratione imper. p. 36. t. XXII. Bis._
Tra questi i più pericolosi nemici delle città marittime erano i
Narentini, popolo di razza schiavona, che dopo essersi impadronito d'un
porto di mare, infestava colle sue piraterie tutto l'Adriatico.
Fortissima era la città di Narenta e sicuro il suo porto; e trovandosi
tra la Dalmazia e la Croazia, reclutava facilmente ne' due regni i suoi
soldati. I suoi migliori guerrieri erano destinati ad equipaggiare le
flotte che corseggiavano l'Adriatico: lucrosa professione, che in un
secolo barbaro non era disonorante. Tutte le piccole repubbliche
danneggiate da costoro erano separatamente troppo deboli per reprimerli;
onde convennero di collegarsi per mettere a dovere i Narentini, e perchè
fidavansi principalmente alla potenza della repubblica veneziana, ebbero
l'imprudenza di farla capo della lega, comperando i suoi soccorsi e la
sua protezione coll'accordarle quelle prerogative che dovevano ben tosto
porle a sua discrezione. S'incominciarono le trattative col doge Pietro
Orseolo II, e si convenne che i magistrati delle città presterebbero
fede ed omaggio alla repubblica, e le loro truppe marcerebbero sotto i
suoi stendardi contro il comune nemico[356].
[356] _Chron. Dand. l. IX. c. 1. p. 223._
(997) L'anno 997 mosse da Venezia la più gran flotta che avesse fin
allora armato la repubblica. Passò prima a Pola, una delle più potenti
città dell'Istria, e vi ricevette gli omaggi di Parenzo, di Trieste, di
Giustinopoli o Capo d'Istria, di Pirano, Isola, Emone, Rovigno, Umago, e
per dirlo in una parola, di tutte le città dell'Istria. Colà riunì pure
alla sua flotta i rinforzi delle città alleate; indi passò a Zara, la
più antica alleata de' Veneziani in Dalmazia, e vi ricevette ugualmente
gli omaggi delle città di quella contrada, Salone, Sebenigo, Spalatro,
Fran, None, Belgrado, Almissa e Ragusi; e le isole di Coronata, Pago,
Ossero, Lissa, Brazza, Arbo e Cherzo seguirono l'esempio delle prime, e
tranne le due isole di Corzola e di Lezinia, che, più tosto che
rinunciare alla loro indipendenza, s'allearono coi Narentini, tutte le
città illiriche riconobbero volontariamente la supremazia de' Veneziani.
Il doge portò da prima le sue forze contro queste due isole, le quali
sotto certi riguardi chiudevano il golfo di Narenta, ed avendole
sottomesse dopo la più viva resistenza, pose a ferro ed a sangue tutto
il paese de' Narentini, e non accordò loro una vergognosa pace che dopo
averli ridotti a tanta debolezza, che non poterono mai più rifarsi[357].
[357] _Chron. Dand. l. IX. c. 1. p. 227. — Navas. stor. venez. p.
957. — Marin Sanuto vita dei dogi di Venez. p. 467. — Vett. Sandi
stor. civile venez. l. II. c. 9. p. 325._
La presa di Narenta fu per Venezia cosa meno vantaggiosa assai
dell'alleanza cui aveva dato motivo. Le associazioni dei deboli coi
forti sono sempre pericolose; e le città vinte e le vincitrici furono
dai Veneziani ridotte ben tosto alla medesima condizione. Pretori o
podestà tolti dal corpo della nobiltà furono mandati a governarle, ed il
doge prese il titolo di duca di Venezia e di Dalmazia.
Mentre Venezia stendeva il suo dominio sulla costa orientale del golfo
Adriatico, e poneva i fondamenti di quell'alta potenza cui non tardò a
conseguire, due città del mar Tirreno, Pisa e Genova, cominciavano a
scuotere il giogo che avevano lungo tempo sofferto, e sviluppavano i
primi germogli di quella potenza che doveva in appresso contrappesare
quella di Venezia, e con una lunga e sanguinosa rivalità rendere
gl'Italiani degni dell'impero del mare.
(980) Quando Ottone II meditava la conquista della Magna Grecia aveva
fatto chiedere a Pisa un soccorso di navi per portare la guerra nelle
due Sicilie; e questo fatto è il primo che ne mostri la grandezza d'una
città che nel dodicesimo secolo ottenne prima di molte altre
l'indipendenza ed un governo consolare[358]. La foce dell'Arno, meno che
non lo è a' dì nostri ingombrata di arena, formava per i leggeri
vascelli usati allora un porto ugualmente difeso dalle burrasche e
dagl'insulti de' corsari. La navigazione ed il commercio erano già da
qualche tempo l'oggetto che più occupava gl'industriosi Pisani. In tempo
che tutte le isole del mediterraneo erano occupate dai Saraceni quasi
sempre nemici, quando ancora i Veneziani e gli Amalfitani, gelosi
dell'impero del mare, cercavano di escluderne gli altri popoli, le
intraprese marittime richiedevano forse più coraggio, che industria.
Queste risvegliarono il valore della gioventù pisana, e loro ispirarono
l'amore dell'indipendenza. Nell'età di Solone erasi già osservato che
gli uomini di mare sono degli altri più fieri e più entusiasti per la
libertà. Quest'osservazione verificossi nelle città anseatiche ed in
Atene, e spiega pure l'antica prosperità di Pisa, e la rimota origine
della sua indipendenza. Le ricchezze acquistate col commercio si
versarono ben tosto sulle vicine campagne: il Delta dell'Arno, quella
fertile pianura oggi mezzo incolta, fu asciugata e trasformata in
giardini; il porto pisano e quello di Livorno si aprirono alle galere,
ed i molti gentiluomini che abitavano le colline dalla valle di Nievole
fino all'Ombrone, chiesero ed ottennero la cittadinanza pisana, e la
protezione della repubblica.
[358] Anco un secolo prima trovasi un indizio del commercio e della
crescente popolazione di Pisa. L'anonimo Salernitano racconta che
l'anno 871, quando Guaffero, principe di Salerno, preparavasi a
sostener l'assedio minacciato dai Saraceni, affidò la difesa di una
parte dei muri di Salerno a due mila Toscani, che trovavansi in
questa città. Questi erano, a non dubitarne, Pisani, giacchè più
tardi assai cominciarono le altre città toscane a dedicarsi al
commercio, o ad aver marina. _Anon. Saler. Paralip. t. II. p. II. c.
III. p. 256._
Le sette più antiche famiglie di Pisa che formarono alcun tempo un
ordine separato di quella nobiltà, fanno risalire la loro venuta in
Toscana fino ai tempi della discesa in Italia d'Ottone il rosso. A sette
baroni dell'impero si attribuì l'origine di queste sette famiglie; cioè
Visconti, Godimari, Orlandi, Verchionesi, Gualandi, Sismondi e
Lanfranchi[359]. I tre ultimi erano figliuoli dello stesso padre, da
taluno chiamato Lanfranco Duodi, e gentiluomo di Bologna; per cui lo
storico di Pisa Marangoni contandoli per una sola famiglia ne aggiunge
altre due Ripafratta e Gaetani[360]. Pare che costoro spediti fossero a
Pisa del 982, perchè questa città mandasse le sue galere per ajutarlo
nell'impresa di Calabria, che l'imperatore voleva fare. Mentre stavano
occupati in questa missione, Ottone morì. Sedotti dalla bellezza del
cielo e dalla fertilità dell'Etruria, determinarono di rimanervi, ed
ottennero dai Pisani il diritto di cittadinanza, e da quel vescovo
l'infeudazione di alcuni castelli o poderi. I cognomi delle famiglie non
usavansi ancora nel decimo ed undecimo secolo, ma la pratica costante di
dare al nipote il nome dell'avo suppliva a tale mancanza, e serviva a
distinguere i casati; e questo nome d'affezione che si riproduceva ogni
seconda generazione, diventò nel susseguente secolo il cognome della
famiglia. In tal maniera i sette baroni d'Ottone II trasmisero il loro
nome a sette famiglie pisane, che furono lungo tempo le principali della
fazione nobile e ghibellina. Più volte perseguitate e cacciate in
esiglio, non per questo rimasero meno affezionate alla patria ed alla
sua libertà fino all'epoca fatale della caduta di Pisa[361].
[359] Tutti gli autori pisani non vanno d'accordo rispetto al nome
di queste famiglie; ed alcuni fanno entrare in questo ruolo le
Benetti e le Sardi. _Raineri Sardo, Trattato dell'origine delle
famiglie pisane. — Libro della Cancel. Comun. di Pisa, contenente gli
stemmi e distinzioni di diverse famiglie pisane, f. 135, 137._ Io
non conosco questi due libri che dagli estratti
mandatimi. — _Comment. Const. Cajetani II. t. III. Rer.
Ital. — Bernardi Marangoni Scrip. Etr. t. I. p. 316._
[360] Il Gaetani non ammette questa origine della sua famiglia,
facendola per l'opposto venire da Gaeta, cui attribuisce tutte le
vittorie di quei duchi, i quali essendo elettivi non dovettero
appartenere ad una sola famiglia. _Comment. in Vit. Gelasii II t.
III. Rer. Ital. p. 410._
[361] Siccome la tradizione dell'origine di queste sette famiglie
non è appoggiata ad autori contemporanei, potrebbe supporsi
inventata dai genealogisti per compiacere la vanità di alcuni
nobili, se la storia non ci somministrasse ne' cinquant'anni che
succedono a quest'epoca i nomi di tutti questi gentiluomini, e se
molte autentiche scritture non attestassero la loro esistenza ed il
loro potere fino negli ultimi anni dell'undecimo secolo. _Veggasi
Murat. Antiq. Ital Med. Aevi LXIV. p. 1104 — 1161._
Nello stesso tempo che questa città metteva a profitto il fertile
territorio dell'Arno, e le ricche pianure che la circondavano, Genova
situata sopra sterili montagne, fra scogli privi di verzura, e presso un
mare da cui par che fuggano i pesci, e non avendo altro vantaggio che
quello di un porto vasto e sicuro, Genova si occupava con ugual ardore
del commercio e della navigazione: le arti medesime le procuravano le
medesime ricchezze, e le sterili sue montagne la separavano dalla sede
dell'impero e da' suoi oppressori. Questa era rimasta sotto il dominio
de' Greci lungo tempo dopo la prima invasione lombarda; ed anche
allorquando venne in potere de' Lombardi, ne rimase in modo separata,
che trovandosi mal guardata dai suoi nuovi padroni, l'anno 936 fu
saccheggiata dai Saraceni. Ma in sul finire dello stesso secolo la
propria popolazione inclinata alla milizia la guarentiva da somiglianti
sciagure[362].
[362] _Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. I. p. 225. Apud Graevium
Scrip. Ital. t. I._
Pisa non pertanto continuò ad essere alcun tempo più florida e popolosa.
Le sue imprese non chiudevansi entro i ristretti confini della Toscana;
ma i Saraceni, la Spagna, l'Affrica, la Grecia appresero dai Pisani a
rispettare il valore italiano, e l'energia d'una nascente nazione.
I Pisani mantenevano relazioni commerciali coi Greci della Calabria, ed
avevan banco ne' principali loro porti. In quella provincia i sudditi
dell'impero orientale, snervati da lunga servitù, non sapevano difendere
le terre loro e le persone dalle aggressioni de' Musulmani. Una colonia
di Mori, stabilitasi in quella provincia, insultava le città e devastava
le campagne senza trovar resistenza. I mercadanti e viaggiatori pisani
mal soffrivano gli oltraggi fatti agli amici ed al nome cristiano, e
desideravano di porvi riparo: perchè di ritorno in patria eccitarono i
proprj concittadini a prendere le armi contro gl'infedeli. Il loro
entusiasmo si propagò in tutte le classi del popolo; e tutta la gioventù
montò sulle navi, che spiegarono le vele per la Calabria ove dovevansi
assalire i Saraceni.
Intanto un re moro, chiamato Muset, erasi impadronito della Sardegna,
posta quasi in faccia di Pisa, e vi aveva stabilita una colonia di
corsari (1005). Ebbe questi avviso che la più valorosa gente di Pisa
erasi impegnata in quell'impresa cavalleresca, lasciando la città quasi
senza difesa. Le sue galere entrarono una notte nella foce dell'Arno, e
rimontarono il fiume quasi fino all'anteriore sobborgo della città. Gli
abitanti risvegliati da orribili grida, conobbero ad un tempo l'incendio
delle loro case, e lo sbarco de' nemici. Tutti fuggivano in tanta
trepidazione alla campagna, e sola una donna della famiglia Sismondi,
chiamata Cinzica, invece di seguire i fuggitivi, corse al palazzo de'
consoli a traverso de' Musulmani medesimi che occupavano la strada
lung'Arno, ed il ponte che univano il sobborgo alla città. Annunciò ai
magistrati il pericolo della patria, e fece suonare la campana d'allarme
del palazzo, alla quale risposero le altre della città; onde
risvegliatisi i cittadini accorsero alla vendetta; ma i Saraceni,
temendo l'urto delle milizie repubblicane, rimontarono a precipizio
sulle loro navi, ed uscirono dalla foce dall'Arno. Cinzica ebbe una
statua nel distrutto sobborgo, che, rifabbricato di nuovo, assunse il di
lei nome[363].
[363] _Tronci Ann. Pis. ad an. 1105. — Bern. Marangoni Cronaca di
Pisa p. 318._ Il Muratori dubita di questo avvenimento, perchè il
nome di Chinzica essendo arabo, per quanto egli crede, è più
probabile che si desse ad un quartiere d'Arabi, che ad una
Cristiana. Ma il Muratori s'inganna. Il vocabolo Chinzica è tedesco
e non arabo. Un luogo chiamato Chinzica presso Fulda viene ricordato
in molte carte di quell'abbadia. _Antiqu. Fuldens. lib. I. p. 409,
507, 508 ec. t. III. Rer. Germ. Struvii._ E Cinzica Sismondi aveva
sicuramente ricevuto nascendo una di quelle voglie _Hennzeichen_ che
aveva motivato il suo nome. Tutti i nomi delle sette grandi famiglie
di Pisa hanno un'etimologia tedesca.
Intanto la flotta spedita in Calabria aveva avuti prosperi successi
contro i Saraceni ch'erano stati obbligati di concentrarsi in Reggio per
difendere questa città da loro posseduta, nelle di cui vicinanze furono
pur battuti dai valorosi Pisani avanti che la flotta abbandonasse il
mare siciliano[364].
[364] _Ann. Antiq. Pis. t. VI. Rer. It. p. 108 e 168._
Appena rientrati nel porto di Pisa seppero i vittoriosi guerrieri che i
corsari sardi avevano insultata la loro patria, e giurarono di
vendicarla; ma la guerra che ardeva tra Lucca e Pisa, ed altre cagioni a
noi sconosciute, protrassero la spedizione che meditavano, finchè un
nuovo attentato dei Mori di Spagna, sbarcati l'anno 1012 sulle loro
coste, li costrinse a punire tanta insolenza[365]. Papa Benedetto VIII
aveva spedito un legato per eccitarli alla guerra, e fu probabilmente il
pontefice che propose un'alleanza tra Pisa e Genova, riunendo le armi
delle repubbliche rivali contro il comune nemico. Muset vide atterrito
avanzarsi su la Sardegna la più potente flotta che da molti secoli
avesse corso il mar Tirreno. Invano tentò d'impedire lo sbarco delle
truppe, le quali rinforzate dai Cristiani dell'isola, lo attaccarono su
tutti i punti, e lo sconfissero in modo che dovette a precipizio
abbandonare la sua conquista, valendosi per la fuga delle navi che aveva
allestite per corseggiare il Mediterraneo.
[365] _Ib. — Bernardo Marangoni p. 316._
Ma l'antica rivalità non tardò a gittar la discordia tra i vincitori
quando si venne alla divisione della preda. I Genovesi che in principio
della guerra non osavano di sperare così prosperi avvenimenti, avevano
domandato le spoglie per loro, lasciando ai Pisani le terre spogliate
che conquisterebbero. A fronte però di tutto il rigore adoperato
nell'impadronirsi di quanto presero ai Saraceni, videro con estremo
rammarico che la parte loro era troppo lontana dal valore del regno che
rimaneva in potere dei rivali alleati[366]. Cercavano quindi di deviare
dalle stabilite condizioni, e procedettero con tale insistenza, che i
Pisani ricorsero alle armi per far eseguire il trattato, scacciando
dalla Sardegna coloro che gli avevano ajutati ad impadronirsene. Pare
che questa contesa non iscoppiasse che l'anno 1021, allorchè Muset aveva
già perdute le ultime sue fortezze e le nuove truppe che aveva egli
stesso condotte di Spagna[367].
[366] _Benvenuti Imol. Comment. ad Dantis Comœd. Antiqu. It. Medii
Aevi t. I. p. 1089._
[367] _Bern. Marangoni Cron. di Pisa p. 320. — Ubertus Folieta
Gennens. Hist. l. I. p. 236._
Per altro il re moro lusingavasi ancora di riavere la Sardegna; ed ogni
primavera veniva con una nuova flotta ad insultare le guarnigioni della
repubblica, o a tentar di sorprenderle. I Pisani, dopo avere lungo tempo
combattute queste squadre sulle coste dell'isola, risolvettero di
terminare una guerra incominciata diciott'anni avanti, attaccando i
Saraceni nel proprio paese. Corsero vincitori le spiagge dell'Affrica
insultando Cartagine, ed occupando Bona, l'antica Ippona di s. Agostino.
Muset fu costretto a chieder la pace, e, ciò che più gli dolse, a
mantenerla molti anni. Pure negli estremi periodi di sua vita volle di
nuovo tentar la sorte, quando gli altri uomini non cercano che il
riposo. Andò a chieder soccorso ai Mori di Spagna; e di là dirizzando le
vele verso la Sardegna, sorprese le guarnigioni pisane cui non diede
quartiere, e s'impadronì, tranne Cagliari, di tutta l'isola[368].
[368] _Bern. Marang. Cron. p. 324._
A fronte di tanta costanza che la repubblica pisana manifestò nella
guerra contro i Mori, diede in fine segni di scoraggiamento. Il popolo
snervato da lunghe e dispendiose imprese, spaventato dal massacro della
fresca gioventù che formava le guarnigioni sarde, era estremamente
abbattuta; ma la nobiltà che credevasi in ispecial modo interessata a
difendere l'onore di Pisa, rianimò l'ardore de' suoi soldati. Per
possedere ancora la Sardegna bisognava riconquistarla, e la repubblica
si dispose a farlo. Tutti i gentiluomini suoi vassalli contribuirono
uomini e navi; e le cronache ricordano particolarmente i Gherardeschi, i
Sismondi, i Sardi, i Cajetani. Le promisero soccorsi la repubblica di
Genova, il marchese Malaspina di Lunigiana, il conte Bernardo Centilio
di Mutica in Ispagna; offrendosi i due ultimi di andare in persona a
questa guerra sacra. Gualduccio plebeo pisano, assai noto per i suoi
militari talenti, che comandava la flotta alleata, seppe eseguire lo
sbarco delle sue truppe presso Cagliari in presenza del nemico che
l'assediava. Ben tosto si venne alle mani su la spiaggia medesima; e
Muset, quantunque giunto oltre gli ottant'anni, fece prodigi di valore;
ma i suoi Mori, esposti ad un tempo agli attacchi de' Pisani, alle
frecce lanciate dalle navi, ed alle sortite degli abitanti di Cagliari
conservatisi fedelissimi alla repubblica, si abbandonarono a disordinata
fuga. Muset, doppiamente ferito, cadde da cavallo, e fatto prigioniere,
fu condotto a Pisa ove morì tra i ferri, e tutta l'isola tornò in potere
de' Cristiani. Gualduccio di consentimento della repubblica ne divise i
distretti tra i confederati. I Gherardeschi ricevettero in feudo il
circondario di Cagliari, i Sismondi Oleastro, i Sardi Arborea, i
Cajetani Oriseto, i Genovesi Algaria, il conte di Mutica Sassari, ed i
Malespina le montagne. Il rimanente dell'isola, compreso Cagliari,
rimase sotto l'immediata giurisdizione di Pisa[369].
[369] _Ann. Laur. Bonincontri Miniatensis, frag. apud Mur. Scrip.
Rer. Ital t. III. part. I. p. 421._ Questo frammento viene riportato
nelle note alla vita di P. Gelasio II. Gli Annali di Loren.
Bonincontri non furono stampati interamente, e soltanto la parte
posteriore al 1360. _Rer. Ital. t. XXI. Præf. Murat. ad
Bonincontrum._
Nell'undecimo secolo la repubblica di Venezia non prese parte alla
gloria di cui si coprì quella di Pisa colle sue imprese contro
gl'infedeli, perchè tormentata da civili dissenzioni smorzava contro di
sè medesima la sua energia. Due fazioni si combattevano con furore nel
suo seno i Morosini ed i Caloprini, sia che questi nomi appartenessero
prima a due illustri famiglie della repubblica, o pure che queste
famiglie adottassero in appresso il soprannome irrisorio che davansi gli
opposti partiti[370]. Una privata querela aveva loro poste le armi in
mano; ma perchè tra le persone violenti e valorose, credevasi cosa vile
l'abbandonare ai tribunali la difesa del proprio onore, i risentimenti
di due individui divisero le due famiglie, e ben tosto furono cagione
d'una guerra civile. La prima offesa erasi confusa colla moltitudine
delle susseguenti, e si nasceva, e si avea nemici soltanto per il nome
che si portava. Queste contese ebbero fine avanti che terminasse il
secolo undecimo[371], ed in principio del dodicesimo le città marittime
di Pisa, Genova e Venezia, di già abbastanza potenti per essere meno
invidiose, separarono i loro interessi da quelli dell'Italia, e
passarono a procacciarsi gloria, ricchezze, possanza ne' paesi
degl'infedeli. Accadde fatalmente che in così lontani paesi si trovarono
in concorrenza, e la rivalità di gloria facendo loro dimenticare la
comunione degl'interessi, macchiarono più volte di sangue italiano i
mari e le spiagge dell'Asia.
[370] Questi nomi sono greci Μωροζεινοι e καλοπρηνες, che pronunciando
secondo i moderni greci si direbbe Moroxini e Caloprinis: cioè gli
ospiti o i compagni degli sciocchi, e le persone che si prostrano
assai. Forse questi soprannomi equivalgono a quelli di adulatori e
storditi, che davansi le parti nemiche; e forse sono più antichi della
contesa, ed erano già a quell'epoca cambiati in nomi di famiglia.
[371] _Andreæ Danduli Chron. l. IX. c. 2 et seq. p. 238._
In questa oscura epoca in cui la storia delle repubbliche non è composta
che di pochi avvenimenti isolati, affidati per accidente a scritture
estranee all'argomento; o assai posteriori; quella di Genova ha un
grandissimo vantaggio sulle altre, essendosi conservata la sua cronaca
composta da Caffaro, uno de' principali suoi magistrati. Questa cronaca
presentavasi ogni anno ai consoli in pieno consiglio, e quando il senato
l'aveva approvata si riponeva ne' pubblici archivj. Incomincia col 1101,
epoca in cui Caffaro serviva sulla flotta, e viene continuata fino al
1164 in cui lo scrittore morì in età di ottantasei anni. Dopo la sua
morte si continuò da varj pubblici storici fino al 1294. Quantunque tali
racconti pecchino apertamente di parzialità, siccome destinati a
lusingare i magistrati ed il popolo, per onore dei quali scrivevansi, si
può agevolmente separare ciò che gli autori accordarono all'amor proprio
de' Genovesi; ed in allora, malgrado la sua parzialità, non lascia
questa storia d'essere il più curioso ed istruttivo documento di quei
secoli.
La cosa più meritevole d'attenzione è ciò che risguarda il governo di
Genova in que' tempi e le sue rivoluzioni. I supremi magistrati avevano
in Genova, siccome nelle altre repubbliche, il titolo di consoli; ma
variarono nel numero e nella durata. Ne' primi anni del dodicesimo
secolo furono alternativamente ora sei, ora quattro, rimanendo sempre
tre o quattro in ufficio. Del 1122 la durata del consolato si ristrinse
ad un anno, e nel 1130 furono divise le incumbenze di questi magistrati
per farne due ufficj distinti. Allora si chiamarono _consoli del comune_
i quattro o sei capi della repubblica, che, nominati ogni anno dal
popolo, erano incaricati del potere esecutivo, e specialmente del
mantenimento della polizia, dell'esecuzione degli ordini criminali,
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