I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 11

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forestiere, cioè non toscano, e di luogo lontano almeno 80 miglia
da Firenze, di città o terra non sottoposta ad alcun signore. Non
poteva essere cavaliere né _giudice di legge_, e ciò per l'odio sempre
crescente contro i _perversi giudici_, e per la funesta esperienza
che, negli ultimi anni, s'era fatta del Podestà. Durava in ufficio
sei mesi, e doveva menar seco un giudice, due notai, 20 masnadieri
o berrovieri, tutti guelfi e forestieri, due cavalli armigeri. Il
suo ufficio era: difendere il popolo e i deboli contro i potenti, ad
ogni maleficio che occorresse chiamando le compagnie sotto le armi,
per venire subito all'applicazione delle pene. Toccava ora a lui
principalmente provvedere all'esecuzione degli Ordini della giustizia,
ed ogni volta che il Podestà o il Capitano non facevano la parte che
loro era imposta, doveva subito assumerne le veci, secondo le norme
minutamente prescritte dalla nuova legge, che fece d'ora innanzi
parte integrante degli Ordinamenti.[212] Toccava inoltre a lui punire
le falsità e baratterie commesse negli uffici del Comune. E quando
il Podestà non disfaceva i luoghi (salvo sempre le chiese), in cui
s'erano tenute conventicole o adunanze senza legale permesso, doveva
egli provvedere subito, e multare il Podestà stesso in 500 lire. Se
le adunanze si erano tenute contro la libertà ed il governo popolare,
allora c'era addirittura la pena di morte. E questa, trattandosi di
Grandi, veniva inflitta dal Podestà, il quale se non procedeva subito,
era al solito punito dall'Esecutore, che doveva farne le veci. Quando
i colpevoli erano popolani, spettava al solo Esecutore condannarli a
morte, dichiarando Grandi i loro discendenti. E cosí pure i popolani
che aiutavano i Grandi nel commettere maleficî, dovevano dall'Esecutore
essere condannati ad una pena doppia di quella richiesta dalle leggi
comuni. Il sindacato del Podestà e del Capitano che uscivano d'ufficio,
spettava all'Esecutore, il quale, a sua volta, era sottomesso al
sindacato di persone elette dai Priori e dai Gonfalonieri delle
Compagnie.[213]

VI
Intanto il Papa, inquieto nel vedere come gli esuli fiorentini
tenessero sempre piú agitata non solo tutta Toscana, ma la Romagna e le
Marche, insisteva da capo per la pace. Delle nuove trattative era però
incaricato il Cardinal Orsini, uomo egli stesso partigiano e di dubbia
fede. Infatti, andato nel 1307 ad Arezzo, ivi chiamò a raccolta, oltre
gli esuli fiorentini, anche parecchi suoi amici dalle vicine terre
della Chiesa, ponendo cosí insieme 1700 cavalieri ed un gran numero di
fanti. Pare che avesse fatto accordo con Mess. Corso Donati e ricevuto
da lui danaro per l'impresa che meditava. Questi, divorato sempre
dalla sua ambizione, s'era imparentato in terze nozze col ghibellino
Uguccione della Faggiuola, il che lo rendeva ora assai sospetto ai
Guelfi, e però egli, piú che mai scontento ed irritato, era tornato da
capo nimicissimo di Mess. Rosso della Tosa e dei suoi seguaci, i quali,
per naturale conseguenza, s'erano di nuovo stretti coi popolani grassi.
E questi, veduti gli apparecchi che faceva ora il Cardinale, e il nuovo
agitarsi del Donati, raccolsero un esercito di 3,000 cavalieri, 15,000
pedoni, e, senza mettere altro tempo in mezzo, corsero ad Arezzo, dando
per via il guasto alle terre nemiche. Il Cardinale allora, credendo
d'usare un'astuzia di guerra, invece d'affrontare il nemico, si diresse
pel Casentino verso Firenze; ma i Fiorentini, tornando sui loro passi,
arrivarono in città prima di lui. Ed egli, con grande sua vergogna,
rientrò in Arezzo, di dove cominciò a trattare coi Fiorentini, i quali,
mostrando d'accogliere le sue proposte, gli mandarono due ambasciatori
con incarico di trattenerlo a parole, e canzonarlo. «Né fu mai», dice
il Compagni, «femina da ruffiani incantata e poi vituperata, come
costui da quelli due cavalieri».[214] Sicché non gli restò altro
che andarsene con le pive nel sacco, lasciando al solito la Città
scomunicata,[215] di che i Fiorentini si vendicarono col gravare di
nuove tasse i preti, punendo quelli che resistevano.[216]
Piú scontento di tutti rimase allora Mess. Corso Donati, da cui il
Cardinale aveva cavato danari con la promessa di venire in Firenze,
per abbattere il della Tosa ed i suoi amici Neri, senza poi osare
neppur d'appressarsi alle mura. Ma non perciò si dette per vinto,
che meditava anzi nuove e piú audaci cospirazioni. Allontanatosi
per poco da Firenze, forse a cercare danari ed aiuti, vi tornava nel
1308. E sempre piú accecato dalla rabbia, sperando soccorso cosí dal
suocero Uguccione della Faggiuola, che in quel momento era signore
d'Arezzo, come da Prato e da Pistoia, raccoglieva i suoi partigiani
in Firenze. Ad essi esponeva le sue speranze, giurando di voler
rompere gli Ordinamenti della Giustizia, e li incitava a prendere le
armi, per farla una volta finita con quei Neri, ai quali esso aveva
dato tanta forza, che a lui dovevano la vittoria ottenuta, e che ora
cosí iniquamente lo trattavano. Ma non meno grande era contro di lui
l'irritazione del popolo, per la voce già diffusa, che Egli aspettasse
aiuti da Uguccione, valoroso capitano e nemicissimo di Firenze.[217]
E quest'odio per qualche tempo represso, scoppiò improvvisamente,
prima ch'ei si movesse o se ne accorgesse. Il 6 di ottobre 1308, a un
tratto, i Signori sonarono le campane; il popolo si levò a romore, e
corse alle armi coi della Tosa, con gli altri Grandi loro amici, coi
soldati catalani del De la Rat. L'accusa di traditore della patria fu
contro il Donati portata al Podestà Piero della Branca di Gubbio, e
in meno d'un'ora, accusa, bando e condanna erano sanzionati. Subito
dopo i Signori, il Podestà, il Capitano, l'Esecutore, con la loro
famiglia, coi Catalani, le compagnie del popolo e i cavalieri, corsero
a S. Piero Maggiore, ed ivi assalirono le case del Donati. Esso si
difese allora cogli amici cosí gagliardamente, che se Uguccione e
gli altri fossero, come avevano promesso, venuti in tempo, vi sarebbe
stato veramente assai da fare. Sembra che da Arezzo si fossero mossi;
ma che, sentito come già tutta la città s'era levata a tumulto contro
di lui, se ne tornassero indietro. Certo è che nessuno venne, e che
Mess. Corso ben presto si vide abbandonato anche da molti degli amici
fiorentini, che, allontanandosi dai serragli, disertarono la zuffa.
Allora il popolo irruppe, ed egli dové abbandonare le sue case, che
furono subito disfatte. Con pochi dei piú fidi, prese, fuggendo, la via
di Porta alla Croce, inseguito da' cittadini e da' Catalani. Il primo
ad essere raggiunto in sull'Africo, fu Gherardo dei Bordoni, che venne
subito ucciso. Poi gli tagliarono la mano, che andarono ad affiggere
alla porta di Tedici degli Adimari, perché questi era stato colui che
lo aveva indotto ad unirsi col Donati. Pochi momenti dopo il Donati
stesso fu raggiunto a San Salvi dai Catalani, che subito lo uccisero,
come loro era stato ordinato. Altri dicono, invece, che egli tentò
prima di corromperli con promesse di danaro, e non essendovi riuscito,
si lasciò, per non venire nelle mani dei suoi nemici fiorentini, cadere
a terra, dove fu, con un colpo di lancia alla gola, finito. I monaci di
San Salvi ne raccolsero il corpo, ed il giorno seguente lo seppellirono
nella Badia assai modestamente, per non incorrere in odio.[218]
Quale fosse la causa di questo improvviso e irrefrenabile furore di
popolo, è chiaramente espresso nelle lettere che il Comune scrisse
poco dopo ai Lucchesi, presso i quali s'erano rifugiati i Bordoni.
«Sapersi per tutta Toscana, che questa dei Donati era stata una guerra
a morte per consegnare la città di Firenze e la parte guelfa in mano
dei Ghibellini, e sottoporla al loro giogo, con perpetuo esterminio
e morte ultima dello Stato guelfo. Costoro volevano rompere tutti i
confini, e sottoporre la Città al loro dominio, sebbene Mess. Corso e
i suoi sfacciatamente chiamassero invece ghibellina la Signoria».[219]
Cosí questa scriveva nel marzo del 1309. E veramente una volta che i
Neri s'erano divisi fra Donati e Tosinghi, e questi s'erano uniti ai
popolani grassi, dove potevano i Donati trovare aiuto, se non fra i
Ghibellini? Il popolo minuto era debole, e il Papa lontano insisteva
sempre piú pel ritorno degli esuli. Questi si erano uniti ai nobili
di contado, antichi amici del Donati, separandosi da molti di quei
popolani bianchi, che erano stati cacciati insieme con loro, ma che,
a poco a poco, erano ritornati in città; s'erano separati anche dagli
uomini indipendenti come l'Alighieri, il quale, nemico di messer
Corso e fautore degli Ordinamenti di giustizia, era stato finalmente
costretto a far parte da sé. E cosí i Bianchi, esiliati perché amici
del popolo, si trovavano ora amici dei Grandi, d'Uguccione, dei
Ghibellini e del Donati, il quale solo da questa ibrida unione aveva
potuto sperare valido aiuto. E quale fu infatti l'immediata conseguenza
della sua morte? Un altro terribile colpo agli esuli ed alla potenza
dei Grandi, cosí dentro come fuori della città. Ne abbiamo subito,
ai primi del 1309, una prova, vedendo che i fieri e superbi Ubaldini
vennero in Firenze a sottomettersi al Comune, e promisero di guardare
i passi dell'Appennino, dando perciò idonei mallevadori. In conseguenza
di che furono accettati come amici con la condizione «che, in ogni atto
e fazione, dovessero fare come distrettuali e cittadini».[220]
Questo fu il processo con cui dal principio alla fine della sua storia,
il Comune di Firenze andò accogliendo i nobili nel proprio seno. Ma
fu anche il modo col quale i Grandi, quantunque vinti e sottomessi,
ritrovavano in città sempre nuove forze. Essi perciò non tralasciarono
di combattere il popolo e la Repubblica, prima fuori, poi dentro
le mura, se non quando furono da essa distrutti, dal che non siamo
ora molto lontani. E se in mezzo a questa lotta cosí sanguinosa, la
prosperità di Firenze non accenna ancora a diminuire punto, occorre
tener presente due cose. I continui conflitti da noi esposti nascevano
dal bisogno costante d'escludere dal seno d'una repubblica di mercanti,
il corpo estraneo del feudalismo, che minacciava di impedirne il
naturale incremento. Ma queste guerre civili si combattevano fra un
numero comparativamente piccolo di cittadini, che volevano impadronirsi
d'un governo, il quale esercitava allora sulla società un'azione assai
minore di quello che generalmente si suppone. La forza, la direzione
vera della Repubblica stavano assai meno nella Signoria, mutabile
ogni due mesi, che nella costituzione economico-politica delle Arti,
fortemente ordinate e finora almeno sempre concordi fra loro. Lo Stato
moderno che ogni cosa assorbe, le cui scosse scuotono perciò tutta la
società, ancora non esisteva nel Medio Evo. Le repubbliche italiane
erano piccole confederazioni di associazioni, alla cui testa si trovava
un governo centrale cosí debole, che qualche volta poteva essere per un
momento anche soppresso, senza che se ne risentisse gran danno.

VII
La morte di Corso Donati pose fine alla tragedia cominciata con la
cacciata dei Bianchi; ed un nuovo avvenimento mutò ora le condizioni,
non solo di Firenze, ma di tutta Italia. Alberto d'Absburgo era
stato ucciso da suo nipote, il 1 maggio 1308. Si trattava quindi di
eleggere il nuovo re dei Romani, il futuro imperatore. Filippo il Bello
sperava con l'aiuto di Clemente V, d'avere, quando non fosse per sé,
almeno pel fratello Carlo di Valois, la corona imperiale. Ma il Papa
che, trovandosi in Francia, non poteva opporsi direttamente ad un
tale disegno, non voleva di certo neppure favorirlo. Cogli Angioini
in Napoli, con la sede in Avignone, con Roma a lui ribelle, egli
sarebbe restato addirittura in balía di Filippo, quando un Francese
fosse divenuto imperatore. E però favoriva segretamente Arrigo di
Lussemburgo, che risultò eletto il 27 di novembre 1308, pigliando il
nome di Arrigo VII. Nato sulle frontiere della Francia, nella quale era
stato educato, egli serbava in sé qualche cosa di germanico e di latino
ad un tempo. Non aveva veramente nessuna forza e potenza propria, i
suoi stati essendo poca cosa; ma d'un animo nobilissimo e fantastico,
quasi mistico, era tutto pieno d'un alto concetto della dignità e
grandezza dell'Impero universale, che voleva restaurare in Roma.
Non sembrava comprendere punto, che l'unione feudale della Germania
coll'Italia, non riuscita neppure nel primo Medio Evo, era divenuta
impossibile ora che l'Italia aveva quasi distrutto il feudalismo,
base principale del sacro-romano Impero. Nondimeno le speranze che
Arrigo destò nel partito ghibellino, quando cominciò a spiegare
la sua bandiera, furono infinite, e si diffusero con grandissima
rapidità nella Penisola. Pareva che improvvisamente un vero entusiasmo
s'impadronisse di tutti gli animi.
I Ghibellini adesso non erano piú quelli d'una volta, l'idea
dell'Impero s'era in Italia trasformata. L'attitudine presa dai Papi
contro la libertà e l'indipendenza delle repubbliche; la loro lotta
continua contro il Comune di Roma; la lontananza, la debolezza, la
dipendenza di Clemente V dalla Francia; il bisogno già cominciato
a sentirsi per tutto, di creare sulle rovine degli antichi municipi
un nuovo Stato, quale già di fatto si vedeva sorgere in Francia ed
altrove; il risorgimento degli studi classici, che nella Repubblica
e nell'Impero di Roma antica facevano letterariamente intravedere
l'unità e la forza di quello Stato laico, che la realtà delle cose
rendeva necessario; tutto ciò aveva, nella mente degli uomini, alterato
affatto l'idea dell'Impero medioevale. Ora che la Francia ed altre
regioni se n'erano separate, esso non era piú universale, ma solamente
romano-germanico, eppure agli occhi degl'Italiani cominciava ad
apparire, sebbene assai confusamente, come se fosse la resurrezione
dell'antica Roma, che era sempre capo morale del mondo civile, e poteva
divenire centro d'uno Stato italiano confederato. Questa idea fu prima
di tutti formulata chiaramente dall'Alighieri nella sua _Monarchia_,
che divenne allora il programma del partito ghibellino. Trovò di poi
piú largo svolgimento nel _Defensor Pacis_ di Marsilio da Padova, e
piú tardi ancora la vediamo riempire di fantastico entusiasmo Cola
di Rienzo. Il suo tentativo d'una nuova Repubblica romana, italiana,
imperiale, tanto lodato dal Petrarca, fu un sogno, parte scolastico,
parte classico-umanistico, parte feudale e medioevale, che però
conteneva in germe un oscuro presentimento del futuro stato italiano,
che si presentiva, senza ancora capirne la natura. In ogni modo, questo
incomposto amalgama d'idee divenne allora la bandiera dei Ghibellini in
Italia.
A tutto ciò i Guelfi non opposero un altro programma filosofico.
La realtà presente delle cose, il bisogno, l'interesse che c'era
a sostenere la indipendenza delle città italiane dal Papa e
dall'Imperatore, questa fu la bandiera sollevata allora da Firenze
in nome dei Guelfi. La venuta dell'Imperatore rappresentava per essa
il risorgimento del vecchio partito ghibellino, quindi d'Arezzo, di
Pistoia, di Pisa, di tutte le città nemiche, che l'avrebbero circondata
d'un cerchio di ferro, fermando il suo commercio. E però essa chiamava
a raccolta le città guelfe, tutti coloro che volevano difendere la
propria libertà, e non si volevano rendere schiavi dello straniero,
proponendo una confederazione italiana, alla cui testa si pose. Questo
è, infatti, il momento in cui la piccola repubblica di mercanti inizia
una vera politica nazionale, diviene una grande potenza italiana. E
cosí, sotto la forma medioevale d'Impero feudale, universale da una
parte, e sotto quella di confederazione municipale dall'altra, il
concetto nazionale, per la prima volta, cominciava a balenare, sebbene
ancora in nube e da lontano. I due partiti combattevano con ardore pei
loro interessi del momento, e pel giusto presentimento che avevano d'un
nuovo avvenire, senza però avvedersi, che questo avvenire era possibile
solo colla distruzione dell'uno e dell'altro.
Il Papa sembrava adesso favorire Arrigo VII; lo incoraggiava
infatti all'impresa d'andare a Roma a prendere la corona imperiale;
raccomandava agl'Italiani che gli facessero buona accoglienza. Ma
egli (e i Fiorentini lo avevano sin da principio capito) non poteva
desiderare che l'Italia fosse sottomessa all'Imperatore: ricordava
bene ciò che Federico II aveva fatto soffrire alla Chiesa. E però,
seguendo la vecchia politica della Corte di Roma, favoriva nello stesso
tempo Roberto di Napoli, il già Duca di Calabria, per la morte di
Carlo II, divenuto re di Napoli (3 maggio 1309), il quale naturalmente
s'apparecchiava per resistere a tutt'uomo alle pretese d'Arrigo. I
Fiorentini sembravano dapprima stare a guardare; non prestavano però
nessuna fede agl'incoraggiamenti che il Papa mostrava di dare ad
Arrigo. Volevano fare con Clemente piú stretta alleanza, ma questi
era irritatissimo anch'egli dalla loro passata condotta, e ripeteva in
cuor suo, non senza ragione, le parole di Benedetto XI: «Chi potrebbe
mai credere che costoro, combattendo la Chiesa, presumano d'essere
suoi figli?» Nondimeno essi, punto sgomenti di ciò, trattarono con
re Roberto, il quale teneva sempre presso di loro il De la Rat coi
cavalieri catalani, anzi mandava ora anche la sua bandiera. E con
questi aiuti i Fiorentini andarono ripetutamente contro Arezzo; né si
fermarono quando Arrigo intimò loro di rispettarla come terra d'impero.
Ebbero sempre il vantaggio, penetrarono fin dentro la città; ma non
poterono restarvi, si disse allora, per tradimento dei Grandi.[221]
In fronte a tutti gli atti e bandi del Comune scrivevano: — A onore di
Santa Chiesa e della Maestà di Re Roberto, ad abbassamento del Re della
Magna.[222]

VIII
Nel 1310, lasciata al figlio la cura delle cose di Germania, Arrigo
si mosse per l'Italia. Aveva mandato innanzi Luigi di Savoia,
eletto Senatore di Roma, che il 3 di luglio era in Firenze, con due
prelati tedeschi. Questi furono ricevuti in Consiglio; ma alla loro
domanda, che s'apparecchiassero a ricevere con onore l'Imperatore,
Betto Brunelleschi rispose: «Che i Fiorentini mai per niuno signore
inchinaro le corna»; risposta che era certo poco conveniente, ma che
in sostanza esprimeva il sentimento comune. Infatti i messi imperiali,
bene accolti dovunque, nulla poterono ottenere in Firenze, neppure far
sospendere la guerra contro Arezzo. Ed a Losanna, Arrigo ricevette gli
ambasciatori di quasi tutte le città italiane; ma quelli di Firenze
non v'erano. Essa, con grande operosità, si apparecchiava invece alla
difesa; rialzava le nuove mura per altre otto braccia, e circondavale
di fossati da Porta al Prato fino a Porta San Gallo, e da questa fino
all'Arno.[223] Il 30 di settembre Roberto venne da Avignone, dove
il Papa lo aveva coronato re di Napoli, e nominato anche vicario di
Romagna, per tema che Arrigo volesse impadronirsi di quella provincia
da poco alienatasi dall'Impero. Ben presto s'intese coi Fiorentini, e
fece con essi gli accordi per la comune difesa. Ciò non ostante, Arrigo
s'avanzava, intitolando sempre i suoi atti, _in nomine regis pacifici_,
ed assumendo la persona di giudice imparziale e giusto. Invitava a sé
Guelfi e Ghibellini, che tutti voleva ricevere con uguale amplesso. Il
24 di ottobre era a Susa, ed il 6 gennaio 1311, giorno dell'Epifania,
prese la corona di ferro nella chiesa di Sant'Ambrogio di Milano.
Ma colà invece della pace da lui sognata, scoppiò subito la guerra
civile. I Torriani che erano guelfi, furono cacciati dai Visconti
sotto gli occhi stessi d'Arrigo; e da questo momento egli, trascinato
con violenza in mezzo ai partiti, cessava d'essere il pacificatore,
e tornava Imperatore tedesco, straniero, _barbaro_. Si disse che i
Fiorentini avevano mandato danaro a Guido della Torre, per ribellarlo,
il che sarebbe stato causa della sua cacciata. Questo non è certo,
ma certo è invece che essi mandarono danari, lettere, ambasciatori a
Cremona, Lodi, Brescia, Pavia, ad altre città lombarde, per sollevarle
contro Arrigo, e vi riuscirono.[224] Inviarono inoltre ambasciatori
a Napoli, in Francia, sopra tutto in Avignone, dove spendevano e
spandevano per corrompere le genti della Curia, a fin di sapere quando
il Papa diceva davvero e quando fingeva. La loro febbrile attività era
tale per tutto, che il Cardinale da Prato esclamò un giorno, dinanzi
al Re di Francia: «Quanto grande ardimento è quello dei Fiorentini, che
con loro dieci lendini ardiscono tentare ogni signore».[225]
Ma neppure in cosí difficili momenti i Grandi sapevano smettere
in Firenze i loro odi, e di tanto in tanto turbavano la città con
qualche nuova zuffa. Nel febbraio del 1311 i Donati uccisero Betto
Brunelleschi, che tenevano autore della morte di Mess. Corso, di
cui andarono subito dopo a dissotterrare il cadavere a San Salvi,
celebrandogli, ora che l'avevano vendicato, solenni esequie.[226]
L'ordine però fu rimesso assai presto, perché non c'era tempo da
perdere in gare private, e gli animi erano occupati di ben altro.
Ai primi di giugno 1311 fu firmata la lega guelfa fra i Fiorentini,
Pisani, Pistoiesi, Lucchesi, Sanesi, Volterrani, giurando tutti insieme
di resistere con le armi ad Arrigo. Il 26 i Fiorentini mandarono a
Bologna il De la Rat con 400 cavalieri catalani, mentre che i Senesi
ed i Lucchesi mandavano altre genti in servizio del re Roberto in
Romagna, dove esso perseguitava, imprigionava i Ghibellini e gli
esuli Bianchi di Firenze, che allora cercavano ribellare le città
della Chiesa.[227] Ed al re stesso, non appena corse la voce che egli
cercava accordi con Arrigo, scrivevano, invitandolo ad entrar subito
in Roma come aveva promesso, avvertendolo che se esitava, se tentava
accordi coll'Imperatore, essi, che non volevano mezze misure, avrebbero
ritirato le loro genti dalla Lega. «Piú volte la vostra regia potestà
ci ha promesso che col re tedesco non voleva accordo nessuno, che
avrebbe inviato lo sforzo delle sue armi, e personalmente sarebbe
andato in Roma a sterminio del nemico comune».[228] E non fu senza
effetto, perché ben presto Roberto mandò suo fratello Giovanni, il
quale con 400 cavalieri e l'aiuto degli Orsini, cominciò ad occupare
i giunti principali di Roma. Il Re fingeva ancora d'operare come amico
dell'Impero; ma nessuno piú s'illudeva, ed i Fiorentini erano contenti.
Arrigo VII, fisso sempre nella sua idea, senza punto accorgersi
dello straordinario mutamento che intorno a lui seguiva, dopo aver
sottomesso Cremona, trovavasi ad assediar Brescia, che gli opponeva
una piú viva resistenza. Il pacifico sovrano incrudeliva adesso
contro i prigionieri, e faceva morire fra i piú atroci tormenti uno
dei capi guelfi. Ma i Bresciani non cedevano per ciò, ed il fiore
dell'esercito tedesco moriva di malattie o di ferite, e di ferite
moriva lo stesso fratello d'Arrigo. In mezzo a queste stragi, i
Fiorentini scrivevano ai Bresciani: «Ricordatevi che dalla vostra
difesa dipende la salute d'Italia tutta e dei Guelfi. I Latini debbono
in ogni modo aver per nemica la gente tedesca, d'opere, di costumi,
d'animo e volere avversa; impossibile, non che servire ad essa, averla
comecchessia compagna».[229] E nello stesso tempo scrivevano ad altre
città, incuorandole alla difesa, alla rivolta. Invitavano i Perugini a
«scuotere il vassallaggio sotto cui si trovavano, a proclamare la dolce
libertà»; e a tutti ripetevano che essi non si sarebbero mai stancati
di mandar contro Arrigo armi, uomini, danaro.[230] Nello stesso
tempo, per dare maggior forza alla cittadinanza ed alla parte guelfa,
levarono il bando a tutti gli esuli che si potevano credere amici dei
Guelfi, lasciandolo solo contro quelli che ritenevano ghibellini, i
quali arrivavano sempre a parecchie centinaia, e fra di essi era Dante
Alighieri. Questo ribandimento di esuli fu chiamato la riforma di Baldo
d'Aguglione, il quale era uno dei Priori che lo deliberarono il 2 di
settembre 1311.[231]
Intanto Brescia, dopo un'eroica resistenza, s'era dovuta arrendere
a patti, ed Arrigo s'avviò subito a Genova, dove era il 21 ottobre
1311. Ivi fu grandemente addolorato dalla perdita della moglie, ma
non per questo rallentò punto i preparativi necessari a continuare il
suo cammino per la via di Pisa a Roma. E a tali notizie i Fiorentini
raddoppiarono i loro sforzi. Fornirono di genti S. Miniato al Tedesco;
richiamarono da Bologna il De la Rat con i suoi; fecero provvedere
d'uomini Lucca, Sarzana, Pietrasanta, i castelli di Lunigiana, il
Valdarno di ponente.[232] Ma, quello che è assai notevole, neppure in
questi cosí difficili momenti perdevano di vista il loro commercio.
Infatti essi scrivevano allora appunto al Re di Francia, facendogli
conoscere le gravi difficoltà, in cui la venuta d'Arrigo li aveva
messi, e dolevansi che la presente guerra facesse pigliare al Re
provvedimenti che danneggiavano il commercio dei loro mercanti, dai
quali dipendeva in gran parte la prosperità di Firenze: «_cum Civitas
nostra ex predictis Florentinis ex maiori parte consistat_. Voi,» essi
concludevano, «li avete sempre protetti, e nella Maestà Vostra noi
poniamo, dopo Dio, il fondamento principale della nostra speranza,
massime ora che Arrigo minaccia di andare a Pisa, e venir contro
di noi, _qui firmavimus et parati sumus nostram quam a vobis et a
vestris recognovimus, defendere libertatem_». E chiedevano che il Re
provvedesse in modo che, anche durante la guerra, il loro commercio
potesse continuare in Francia senza interruzione.[233]
Intanto l'Imperatore aveva mandato a Firenze nuovi ambasciatori,
Niccolò vescovo di Botrintò e Pandolfo Savelli; ma essi, dopo mille
traversie, che incontrarono per via, arrivati alla Lastra, furono
prima derubati, e poi messi anche a pericolo della vita. Le campane
sonarono a stormo, la loro dimora venne invasa da gente armata, ed a
fatica furono salvati dal Podestà e dal Capitano giunti da Firenze, i
quali li consigliarono a partir subito, il che essi fecero piú che in
fretta.[234] L'Imperatore allora citò (20 novembre 1311) i Fiorentini
a comparire in Genova dinanzi a lui, per scusarsi e prestargli
obbedienza. Ma, non avendo, come era da prevedere, obbedito, pronunziò
(24 dicembre) contro la loro città il bando dall'Impero,[235] di che
essi fecero il conto medesimo che avevano fatto degl'interdetti del
Papa. Richiamarono però da Genova i loro mercanti, continuando ad
armare.
E qui noi abbiamo un'altra fra le tante prove della condotta sempre
turbolenta dei Grandi. In questi giorni appunto, senza curare i gravi
pericoli nei quali la Repubblica si trovava, essi misero colle loro
private vendette la città a soqquadro. Il dí 11 gennaio 1312, Pazzino
dei Pazzi, assai amato dal popolo, e uno dei maggiorenti, andando a
cavallo a caccia, fu raggiunto ed ucciso da Paffiera dei Cavalcanti,
per vendicare la morte al Pazzi attribuita di Masino dei Cavalcanti
e di Betto Brunelleschi. Il corpo dell'ucciso fu portato al Palazzo
dei Priori, ed il popolo indignato, prese le armi, corse sotto il
proprio gonfalone alle case dei Cavalcanti, che furono arse. La
Signoria allora, per metter subito un freno a questi tumulti, esiliò
i Cavalcanti, e nominò cavalieri quattro dei Pazzi, ai quali dette in
premio alcuni beni e rendite del Comune.[236] Cosí anche ora l'ordine
fu subito ristabilito.

IX
Arrigo s'apparecchiava intanto a partire per Roma; nel campo imperiale
i menestrelli cantavano la morte pietosa di Corradino, e la musa
popolare dei Ghibellini continuava a salutare ed esaltare il giusto
giudice, il celeste paciaro. Poeti, letterati, giuristi, filosofi
s'ostinavano a vedere in lui un nuovo redentore, che doveva restituire
a Roma la corona imperiale, all'Italia dar pace e libertà. Cino da
Pistoia esclamava: _Nunc dimittis servum tuum, Domine, quia viderunt
oculi mei salutare tuum_.[237] Ma piú di tutti s'era esaltato Dante
Alighieri, che in questo momento fu come il rappresentante principale
del partito imperiale in Italia. Fin da quando Arrigo s'era avvicinato
alle Alpi, egli aveva scritto una lettera ai principi e governi
d'Italia, esclamando: «Osanna a te, misera Italia, che ormai sarai
da tutti invidiata, perché _Sponsus tuus et mundi solatium et gloria
plebis tuae, clementissimus Henricus, Divus et Augustus et Caesar,
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