I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 10

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Dopo la partenza di Carlo di Valois, e le vicende che ne seguirono,
la storia di Firenze entra in un nuovo periodo. Gli esuli si unirono
ai nobili di contado, alle città ghibelline, per ribellarle contro
la Repubblica, ed aprirsi cosí la via a tornare in patria. Questo
naturalmente tenne, per qualche tempo, dentro la città riuniti e
concordi i Grandi della parte nera, i quali sempre piú si vantavano
d'essere i veri, i soli Guelfi, e davano nome di Ghibellini agli esuli.
Pistoia ed il castello di Piantravigne furono primi a sollevarsi,
ma vennero subito sottomessi. E allora, il dí 8 giugno 1302, i capi
degli esuli, fra i quali era anche Dante Alighieri, s'adunarono nella
Chiesa di S. Godenzio sull'Appennino, e fecero esplicita alleanza
cogli Ubaldini, obbligandosi a risarcirli colle proprie fortune, dei
danni che avessero risentito dalla guerra, nelle loro terre in Mugello,
dove il forte castello di Montaccenico doveva essere come il quartier
generale dei nemici di Firenze. E i Fiorentini, senza punto aspettare,
vennero subito a dare il guasto alle terre degli Ubaldini di qua e di
là dall'Appennino.[188] Gli esuli, adoperandosi a tutt'uomo, riuscirono
col favore di Pisa e di Bologna, a mettere insieme un esercito di 800
cavalli e 6000 fanti, e nella primavera del 1303 posero l'assedio al
Castello di Pulicciano, ch'era dei Fiorentini. Ma anche qui furono poco
fortunati. Da Firenze uscirono subito armati «popolo e cavalieri», e
li assalirono. I Pisani non mandarono gli aiuti promessi, gli Ubaldini
non si mossero, i Bolognesi si dissero traditi e si ritirarono; e
cosí i Bianchi, rimasti soli, si dierono alla fuga vergognosamente. I
Neri poterono allora tornare in città vittoriosi, menando seco molti
prigionieri, alcuni de' quali uccisero per via, altri fecero decapitare
dal Podestà. Poi presero improvvisamente il castello di Montale presso
Pistoia, e disfecero quel contado. Cosí pareva che la guerra fosse
finita, e le speranze degli esuli cadute a terra.
Ma fu questo il momento in cui scoppiò da capo la discordia in
Firenze. Già prima v'erano stati segni di malumore e tumulto, per
il che s'era dovuto venire a qualche nuovo esilio, a qualche nuova
sentenza di morte. Ora però le cose pigliarono piú grave aspetto.
L'arrogante superbia di Corso Donati ricominciava a portare i suoi
frutti. Disgustando gli amici, li spingeva a gettarsi verso il
popolo grasso, che essi odiavano. Separato dai nobili di contado,
che stavano cogli esuli, tentava farsi di nuovo capo dei Grandi piú
intolleranti, e cercava favore nel popolo minuto, dicendogli che lo
spogliavano colle imposte, con le quali alcuni dei popolani grassi
s'empievano le tasche. «Veggasi dove sí gran somma n'è ita, che non
se ne può esser tanta consumata nella guerra». E voleva un'inchiesta,
cominciando cosí, come dice il Villani, «a seminare discordia sotto
colore di giustizia e di pietà».[189] Si parlò, si strepitò molto, ma
non si concluse nulla, sebbene s'arrivasse a votare una provvisione
(24 luglio 1303), che dava al Podestà ed al Capitano piena balía
d'indagare e di provvedere. Ma i popolani grassi contro cui l'accusa
era diretta, cominciarono ad irritarsene molto, e per dare un nuovo
colpo ai Grandi, fecero rimpatriare alcuni degli esuli che erano di
popolo, e che non avevano rotto il confine. Poi richiamarono qualcuno
dei Cerchi, avendo in ciò l'approvazione dello stesso Bonifazio VIII,
il quale era molto impensierito dei tumulti che i Bianchi sollevavano
per tutto, anche nelle città della Chiesa.[190] E cosí Corso Donati,
«ripescando», secondo la felice espressione del Del Lungo, «i Grandi
dal crogiuolo»,[191] poté accogliere intorno a sé piú di trenta
famiglie, fra le quali alcune anche di popolani, e qualche ribandito.
V'erano parecchi dei Tosinghi, i quali tenevano pei Bianchi, e uno
di loro, il valoroso Baschiera della Tosa, si trovava fra gli esuli.
V'erano i Cavalcanti, stati suoi antichi nemici, famiglia ricchissima e
numerosissima, che aveva perciò gente di tutti i partiti, piú assai dei
Bianchi che dei Neri, e possedeva nel centro di Firenze uno sterminato
numero di case, botteghe, fondachi, dati in affitto ai mercanti, coi
quali si trovava quindi in buone relazioni. Cosí questo dei Donati non
era piú un partito; si poteva piuttosto dire un'accozzaglia di gente,
che Messer Corso teneva unita coll'odio contro il popolo. Infatti egli
andava ora ripetendo, che essi «erano prigioni e in servitú d'una gente
di popolani grassi, anzi cani, che gli signoreggiavano, e toglieansi
gli onori per loro».[192] In sostanza però i veri Grandi, quelli cioè
che di nome e di animo eran tali, s'accostavano quasi tutti a lui, e
quelli che non potevano tollerare i suoi modi insolenti, preferivano
piuttosto starsene di mezzo a guardare. Con lui era anche l'arcivescovo
Mess. Lottieri della Tosa, che s'armava nel suo palazzo. Di fronte a
costoro era sorto però un gruppo di famiglie come gli Spini, i Pazzi,
qualcuno dei Frescobaldi, i Gherardini, ed alla loro testa si trovava
Mess. Rosso della Tosa, ambiziosissimo anch'egli, il quale, pigliando
l'attitudine stessa già tenuta da Vieri dei Cerchi, s'accostava al
popolo grasso. E valendosi dei piú arditi suoi seguaci, specialmente
dei Bordoni, popolani Neri, che nelle sue mani divenivano, come dice
il Compagni, «tanaglie par pigliare il ferro caldo»,[193] faceva ogni
giorno attaccare il Donati nei Consigli.

II
Parevano cosí nuovamente tornati quei tempi che avevano preceduto
la venuta di Carlo di Valois. Da un lato infatti Rosso della Tosa,
unito co' suoi al popolo, difendeva la Signoria; da un'altra il
Donati, favorito dai Capitani di Parte, di continuo la minacciava ed
assaliva. Da capo i cittadini s'armavano e s'azzuffavano ogni giorno;
da capo seguivano rubamenti, ferite, omicidi, incendi nella città e
nel contado. Perfino dalla torre del vescovado una manganella tirava
contro gli avversari di Corso Donati. La Signoria ed il Podestà erano
ridotti all'impotenza. E la cosa arrivò a tale, che si ricorse allo
stranissimo partito di dare per sedici giorni il governo in mano dei
Lucchesi, acciò si provassero a ricondurre la quiete in città. Essi
ristabilirono l'ordine, senza però punire alcuno, sicché quando furono
partiti, le cose tornarono come prima. Si cercò anche di nominare una
Signoria (sempre ben inteso di popolani), d'accordo fra le due parti;
ma erano tentativi che non menavano a nulla.[194] Ciò che portava la
confusione al colmo, e la rendeva permanente, era che, se la divisione
tra Grandi e Popolani aveva costituito davvero due partiti, quella fra
i Grandi, che ora agitava la città, era promossa dalla sola ambizione
di Corso Donati e di qualche altro; non aveva nessuna ragione politica;
non era guidata da nessun principio e da nessun interesse generale. Col
Donati infatti v'erano, come vedemmo. Grandi di tutti i colori, v'erano
anche ribanditi che avevano amici o parenti fra gli esuli, né mancavano
alcuni popolani. E nel partito avverso, che difendeva la Signoria,
non poteva neppure esservi molta coesione, perché v'erano potenti e
popolani, tra i quali l'accordo non fu mai sicuro. Se gli avversari
della Signoria erano uniti dalla volontà e dall'ambizione di messer
Corso, i fautori erano piú che altro uniti dall'odio contro di lui. E
però, a cagione di questo carattere personale dei partiti, ne seguivano
divisioni e suddivisioni sempre mutabili, sempre crescenti; passaggio
irrequieto, perpetuo, da un gruppo all'altro.
A tutto ciò s'aggiungeva ora la morte di Bonifazio VIII (11 ottobre
1303), cui successe Benedetto XI, assai piú mite e di carattere
incerto. Questi avrebbe voluto ad ogni costo ristabilire la pace
in Firenze, e farvi tornare gli esuli, perché essi tenevano agitato
il suo Stato, ed egli era già in Roma stessa talmente avversato dal
popolo e dall'aristocrazia, che subito dopo l'elezione aveva dovuto
rifugiarsi a Perugia, sui confini cioè dell'agitata ed irrequieta
Toscana. Né poteva, in mezzo a tante calamità, aspettarsi ora alcun
aiuto dalla Francia, perché aveva iniziato un processo contro gli
autori dell'attentato d'Anagni, che, tramato appunto da quel Re, era
stato causa della morte di Bonifazio VIII. Per tutte queste ragioni,
sollecitato dai Bianchi dentro e fuori di Firenze, il 31 gennaio
1304, vi mandò a far la pace il Cardinale da Prato, che era in voce
di ghibellino. Questi arrivò il 10 marzo, e voleva contentar tutti:
Grandi, popolani, esuli. Bianchi, Neri di Corso Donati e Neri di Rosso
della Tosa. Ma quello che piú commosse gli animi e portò la confusione
al colmo, fu il suo pensiero di far tornare gli esuli e pacificarli con
la città. Tuttavia coloro che meno vi si opposero erano i popolani,
i quali vedevano in ciò un modo d'indebolire i Grandi, tenendoli fra
loro sempre piú divisi. Invece Rosso della Tosa, con parecchi de'
suoi, era avversissimo al ritorno degli esuli, perché gli pareva che
ne verrebbe rafforzata la parte degli avversari, i quali già a molti di
essi s'andavano avvicinando. Corso Donati, pigliando pretesto dal male
della gotta che lo aggravava, stavasene per ora di mezzo a guardare. Ma
i Cavalcanti favorivano con ardore l'accordo, anzi sembravano esserne
i promotori.
Il Cardinale, avuta piena balía dal popolo, si provò subito a
concludere paci, e riuscí a farne una tra il Vescovo e Mess. Rosso
della Tosa, che ne era consorto. Fece poi nominare Mess. Corso Capitano
di Parte Guelfa, e riordinò le antiche milizie del popolo, sotto 19
gonfalonieri delle compagnie, secondo l'antica usanza. Ma sebbene
a comandarle avesse fatto nominare alcuni dei Grandi, questi molto
si dolsero della riforma, dicendo che egli dava cosí nuova forza al
popolo, e che era ghibellino, ed avrebbe finito coll'abbandonare la
città in mano dei Bianchi, i quali richiederebbero i beni che loro
erano stati confiscati, per essere amministrati a benefizio della Parte
Guelfa. Ma il Cardinale non si curava di questi lamenti, e si ostinava
a tenere adunanze per venire ad accordi. Il 26 aprile infatti si fecero
in piazza S. Maria Novella parecchie paci tra Neri donateschi e Neri
tosinghi. E furono celebrate con molte feste, fra le quali una assai
solenne ne apparecchiò la Compagnia del Borgo S. Frediano, annunziando
per tutta la Città, che chi voleva aver nuove dell'altro mondo,
poteva venire la sera del 1º maggio sull'Arno, dove le avrebbe avute.
E mediante fuochi d'artifizio, s'apparecchiò una rappresentazione
dell'Inferno, con barche piene di gente, che dovevano figurare i
condannati alle varie pene. La folla accorse numerosissima lungo il
fiume, e sul ponte alla Carraia, il quale, essendo allora di legno,
sprofondò con danno gravissimo di molti feriti e morti, che andaron
davvero nell'altro mondo. Questo parve a tutti un funesto augurio di
nuove calamità, e cosí fu.

III
Intanto coloro che piú erano avversi al ritorno degli esuli, con
sottile astuzia consigliarono al Cardinale d'andar prima a pacificare
Pistoia, dicendogli che, se essa rimaneva come ora in mano dei
Bianchi, la pace in Firenze sarebbe stata sempre fittizia. E quando
egli andò, avversarono l'opera sua in modo che, non solamente dove
tornarsene senza nulla aver concluso, ma volendo entrare in Prato, si
vide dalla sua stessa città natale chiudere le porte in viso. Di tutto
ciò il Papa fu adiratissimo, ed il 29 maggio scriveva ai Fiorentini
una lettera piena di sdegno.[195] Ma essi erano in tale disordine e
tumulto che, avendolo pregato di trovar loro un Podestà, di quattro
che ne propose, non uno volle accettare. Pure il Cardinale persisteva
impassibile nella sua idea d'accordo, e fece, sotto sicurtà, venire
a Firenze dodici sindachi dei fuorusciti, sei dei Bianchi e sei dei
Ghibellini, perché s'intendessero con dodici eletti in città, due per
Sesto, uno dei donateschi, l'altro dei loro avversari.[196] Questi
ventiquattro cittadini erano tutti dei Grandi, e diffidavano tanto
gli uni degli altri, che i dodici fuorusciti, sebbene avessero avuto
dal popolo buona accoglienza, e fossero, sotto la pubblica fede,
alloggiati in casa Mozzi, dove abitava il Cardinale stesso, pure,
temendo d'essere da un momento all'altro tagliati a pezzi, volevano
andarsene via. Ma furono dagli amici consigliati, invece, ad armarsi
ed asserragliarsi nelle case dei Cavalcanti, con l'aiuto dei quali
avrebbero potuto, occorrendo, respingere e domare gli avversarî colle
armi. I Cavalcanti parevano a ciò assai ben disposti, e cominciarono a
trattare. Ma dopo avere cosí sollevato un sospetto e un odio infinito
nei loro nemici, si ritrassero a un tratto, scontentando fieramente
anche gli amici. I fuorusciti allora partirono, il dí 8 giugno 1304,
piú che in fretta.[197] E subito s'andava ad alte voci gridando contro
il Cardinale, che egli aveva tradito la città con questi suoi oscuri
maneggi, e s'aggiungeva ancora che aveva incitato i fuorusciti ad
accostarsi alle mura, armata mano. Si mostravano le lettere col suo
suggello, e s'affermava che i fuorusciti erano pel Mugello venuti
fino a Trespiano, tornandosene indietro solamente quando seppero che
i meditati disegni erano andati in fumo. Il Villani dice che queste
erano calunnie;[198] ma anche dalle Epistole attribuite a Dante
Alighieri si deduce che il Cardinale voleva davvero il ritorno dei
fuorusciti, ed aveva perciò trattato con loro.[199] Adesso però egli
era finalmente stanco, e partissene il 10 giugno, lasciando al solito
la Città interdetta, ed esclamando: «Dappoiché volete essere in guerra
e in maledizione, e non volete udire né ubbidire il messo del Vicario
di Dio, né avere riposo né pace tra voi, rimanete con la maledizione di
Dio, e con quella di Santa Chiesa».[200]
La condizione dei Cavalcanti e dei loro amici divenne in questo momento
terribile davvero. La loro presente unione coi Donati non bastava a far
dimenticare l'odio antico, che si era sopito un momento, ma solo per
favorire il ritorno dei Bianchi, a danno dei Tosinghi. I quali infatti
restarono isolati, perché abbandonati anche dal popolo grasso, che,
stanco delle continue guerre civili, e persuaso dal Cardinale, aveva
favorito l'accordo fra Donati e Cavalcanti. Ma quando questi, giunti
al punto di concluderlo, s'erano inaspettatamente tirati indietro,
allora risorse subito l'odio antico, ed essi si trovarono fra due
fuochi. Messer Corso frenava per ora lo sdegno, non volendo troppo
avvicinarsi ai Tosinghi, e col pretesto della gotta se ne stava ancora
da parte, lasciando fare ai suoi. Ma l'odio di Rosso della Tosa era
irrefrenabile, addirittura feroce contro i Cavalcanti, i quali lo
avevano veramente messo sull'orlo della totale rovina. Laonde non era
appena partito il Cardinale, che già Firenze pareva alla vigilia d'una
catastrofe. I Cavalcanti videro il pericolo in cui si trovavano; ma
erano numerosi, arditi e potenti. I Gherardini, i Pulci, i Cerchi del
Garbo stavano con essi; molti amici avevano anche nel contado e fra
gli esuli bianchi; né mancavano d'aderenze fra i popolani grassi, non
pochi dei quali abitavano nel centro di Firenze le loro case. Quelli
però che ora s'armavano contro i Cavalcanti, non erano i popolani, ma
i Grandi. I Cerchi del Garbo cominciarono ad azzuffarsi di giorno e
di notte coi Giugni. In aiuto dei primi vennero subito i Cavalcanti
cogli amici loro, e furono vittoriosi, tanto che poterono da Or S.
Michele arrivare, senza quasi trovar resistenza, fino alla piazza
di San Giovanni. Ma quando s'erano cosí allontanati dalle proprie
case, si manifestò in queste un grave incendio. I nemici v'avevano
appiccato un fuoco lavorato, che da piú giorni a questo fine andavano
apparecchiando. Il primo a metterlo, cominciando dalle abitazioni
dei suoi propri consorti, fu Neri degli Abati, priore di San Piero
Scheraggio; poi lo vennero saettando molti altri, fra i quali troviamo
lo stesso Simone della Tosa e Sinibaldo di Mess. Corso Donati.[201]
Era il 10 giugno del 1304, e soffiava un forte vento di tramontana;
l'incendio si diffuse perciò rapidissimamente in Calimala, Mercato
Vecchio, Or S. Michele; e cosí arse, con le case dei Cavalcanti, tutto
il centro, «tutto il midollo e tuorlo e cari luoghi della città di
Firenze»,[202] come dice il Villani. Esso aggiunge che, tra palazzi,
case e torri, ne andarono in rovina piú di millesettecento, con
infinita rovina delle mercanzie ivi raccolte, giacché quelle che non
arsero, vennero, nello sgomberarle, rubate, continuandosi a combattere
ed a saccheggiare anche in mezzo alle fiamme.[203] Paolino Pieri dice
nella sua Cronica, che fu distrutto un decimo della Città, il sesto
per valore. Molte famiglie, molte compagnie furono disfatte; ma piú
degli altri soffrirono i Cavalcanti, i quali rimasero come esterrefatti
dinanzi al fuoco, che bruciava tutto quello che avevano. Eppure tale
era l'odio concepito contro di essi, che anche dopo aver subito cosí
crudeli calamità, vennero come ribelli cacciati di Firenze.

IV
Ma quale fu la conseguenza politica di questi fatti? In sui primi,
essendosi i Donati e i della Tosa uniti a disfare i Cavalcanti e
loro amici, si temette che i Grandi, rafforzati dalla unione e dalla
vittoria, volessero tentar di disfare gli Ordini della Giustizia, e
prendere in mano il governo. Né, secondo il Villani, sarebbe stato
impossibile riuscirvi in mezzo a quel generale sgomento. Ma avrebbero
dovuto essere concordi davvero, e si vide che erano invece, «per le
loro sette divisi e in discordia, e però ciascuna parte s'abbracciò
col popolo, per non perdere stato».[204] La divisione dei partiti
rimase in sostanza la stessa. Da una parte, cioè, Grandi in guerra
fra loro, che cercavano nel popolo aiuto contro i propri nemici, e
dall'altra il popolo, che dalla discordia dei Grandi cercava trarre
vantaggio. Gravissime perdite di certo avevano nell'incendio subito
anche i mercatanti; ma la loro ricchezza era di sua natura tale, che
rapidamente si riproduceva, mentre che quella dei Grandi non si poteva
rifare dei danni assai maggiori che aveva sostenuti. Tale infatti era
allora la prodigiosa prosperità del popolo fiorentino, che, anche dopo
tanta distruzione, noi non vediamo segno alcuno che faccia apparire
diminuita la sua ricchezza. Troviamo invece assai decaduta la potenza
dei Grandi, i quali nel primo cerchio, cioè nel centro della città, là
dove erano le antiche famiglie, scomparvero quasi del tutto. E però non
senza ragione il Capponi afferma nella sua _Storia_, che «d'ora in poi
ogni signoria di nobili può dirsi interamente diradicata, e i nuovi
ordini assodati».[205] E cosí anche questa sventura riuscí, come era
sempre seguito in Firenze, a vantaggio del popolo.
Per tutti questi dolorosi fatti, e per ciò che il Cardinale da Prato
aveva riferito al Papa in Perugia, vennero colà chiamati alla sua
presenza dodici dei Grandi piú autorevoli in Firenze; e fra di essi
erano Mess. Corso Donati e Mess. Rosso della Tosa, una volta nemici,
ora divenuti amici d'un giorno. Andarono con gran seguito, formando una
compagnia in tutto di cinquecento uomini a cavallo. E questo parve agli
esuli il momento piú opportuno per ripetere il tentativo di tornare in
patria. Si disse, al solito, che il Cardinale li aveva incoraggiati,
assicurando che avrebbero trovato favore; si aggiunse ancora che aveva
istigato Pisa, Bologna, Arezzo, Pistoia, la Romagna tutta ad aiutarli.
Ma se da un lato alcuni dei piú fieri avversari degli esuli s'erano per
un momento dovuti allontanare da Firenze, è certo da un altro lato che
la forza dei loro nemici doveva essere non poco cresciuta per la strage
dei Cavalcanti e dei Gherardini. E se le Arti Maggiori si erano prima
indotte a favorire il ritorno degli esuli, massime di quelli che erano
popolani, non si poteva sperare che volessero continuare a favorirli
ora che essi si avanzavano col favore dei Pisani, dei Ghibellini di
Toscana e di Romagna. La loro alleanza coi nemici della Repubblica, la
riuniva naturalmente contro di essi.
Pure gli esuli parevano ora pieni di speranza, perché coi nuovi aiuti
erano riusciti a formare un esercito di 9000 fanti e 1600 cavalieri,
coi quali s'avanzarono il 19 luglio sino alla Lastra, dove ne
aspettavano altri, che dovevano venire da Pistoia, sotto il comando
di Tolosato degli Uberti, valoroso capitano ghibellino, d'un'antica
famiglia fiorentina sempre odiata dai Guelfi, ai quali ricordava la
disfatta di Montaperti. Non vedendolo arrivare, gli esuli si decisero
non ostante ad avanzare; ma l'indugio d'un giorno era bastato a far
sí che non fosse piú possibile pigliar Firenze alla sprovvista. Si
presentarono infatti solo 1200 cavalieri, in attitudine pacifica, con
rami d'olivo in mano; e passato il cerchio non ancora finito delle
nuove mura, si fermarono dinanzi alle antiche, nel podere detto di
Cafaggio, tra San Marco e i Servi. Ivi, trafelati, senz'acqua, esposti
al sole del 20 luglio, aspettarono invano che le porte s'aprissero.
Alcuni altri di loro, riuscendo a sforzare la porta degli Spadai,
entrarono in Città, e s'avanzarono sino a S. Giovanni, dove invece
d'amici trovarono 200 cavalieri e 500 fanti, che li respinsero, facendo
alcuni prigionieri, oltre parecchi morti e feriti. E questo fu il
segnale d'una ritirata, che si mutò presto in fuga generale. Infatti
quelli che erano in Cafaggio, già estenuati dal caldo e dalla sete,
gettarono a terra le armi, e si ritirarono inseguiti da «masnadieri
di volontà». Molti ne morirono di ferro o trafelati; altri furono
derubati, presi e poi appiccati agli alberi. Prima dei fuggiaschi
arrivò alla Lastra la notizia della rotta, e cosí anche quelli che
s'erano colà fermati, si dettero alla fuga, né poté per via trattenerli
Tolosato degli Uberti, il quale, avendoli incontrati, tentò invano di
ricondurli all'assalto. Tutto questo è, fra gli altri, narrato dal
Villani, il quale si trovò presente ai fatti seguiti in Città.[206]
Dante Alighieri non venne alla Lastra, perché s'era poco prima separato
quasi con violenza dai suoi compagni d'esilio, disgustato probabilmente
delle loro ibride alleanze con tutti i nemici di Firenze, dei segreti
accordi iniziati con Corso Donati e i Cavalcanti, addolorato dalle
stragi cittadine, che per la vana speranza di far tornare alcuni degli
esuli, erano state cosí ciecamente provocate.[207]
La vittoria della Lastra dové certo dar nuovo ardimento e nuovo potere
ai Grandi. Cosí forse si spiega come è che appunto ora alcuni di essi
chiedano d'essere cancellati dalle Arti,[208] cosa affatto nuova in
Firenze, dove era stato solito invece vederli spogliarsi dei loro
titoli, mutar casato, chieder d'essere scritti alle Arti. E se ne ha
conferma ancora in un altro fatto assai grave, che seguí il 5 di agosto
1304. Uno degli Adimari commise un maleficio, e fu menato nel palagio
del Podestà, per essere condannato. Ma i suoi consorti, armata mano,
assalirono quel magistrato, mentre che con i suoi famigli tornava dai
Priori, e dopo averne ferito o ucciso parecchi, trassero dalle prigioni
il colpevole. Laonde Mess. Gigliolo da Prato, Capitano del popolo, che
allora faceva anche da Podestà, perché, a cagione dei continui tumulti,
nessuno aveva voluto ancora accettare quest'ufficio in Firenze, se ne
andò via sdegnato. E i Fiorentini, se vollero amministrar la giustizia,
dovettero contentarsi d'eleggere dodici cittadini, due per Sesto, uno
dei Grandi ed uno dei popolani, che facessero le veci del Podestà.[209]
Tuttavia la guerra di fuori, ben presto ricominciata, fece tornare una
momentanea calma in Firenze.

V
Gli esuli ritornarono a scorrere la campagna, sollevando i vicini
castelli; e i Fiorentini si mossero subito per sottometterli. Fra
questi castelli primo fu quello delle Stinche, ribellatosi per
opera dei Cavalcanti. Esso venne facilmente preso (agosto 1304), e i
prigionieri furono condotti nelle carceri nuove, che d'allora in poi si
chiamarono le Stinche. Piú grossa guerra si dové fare contro Pistoia,
che si ribellò nel 1305 in favore di parte bianca, con l'aiuto degli
Aretini e dei Pisani, ed era comandata da Tolosato degli Uberti. Ne
seguí un lungo e rigoroso assedio, posto dai Lucchesi e dai Fiorentini,
sotto gli ordini di Roberto duca di Calabria, il quale, chiamato
come capitano della lega, era venuto con molti fanti e 300 cavalieri
catalani.[210] L'assedio durò tutto l'inverno, e nell'aprile del 1306 i
Pistoiesi, estenuati dalla fame, dovettero arrendersi. Le loro torri e
e le mura furono disfatte, il loro territorio diviso tra i Fiorentini
ed i Lucchesi. Invano Clemente V s'era adoperato a far cessare questa
guerra, che portò un altro duro colpo ai Ghibellini di Toscana. Egli
era francese, aveva trasferito ad Avignone la sede pontificia, e non
conosceva l'Italia, che non poteva amare un Papa straniero, il quale
abbandonava Roma. Infatti ai suoi messi di pace, venuti al campo, i
Fiorentini non dierono ascolto, né si curarono dell'interdetto contro
di loro pronunziato. Il duca di Calabria si ritirò; ma fu solo per
gettar polvere negli occhi, avendo lasciato al campo le sue genti col
capitano Pietro de la Rat. E cosí la guerra venne condotta a termine.
Né fu piú fortunato l'altro legato di pace, il cardinal Napoleone
Orsini, che in Toscana e nella Romagna non solamente fu male ricevuto,
ma venne derubato, e si trovò anche in pericolo della vita. Delle sue
scomuniche, de' suoi interdetti, dei suoi consigli di pace ridevano
tutti. I Fiorentini ormai volevano andar fino in fondo, e non avevano
finito la guerra di Pistoia, che incominciarono quella contro il forte
castello di Montaccenico, rocca principale degli Ubaldini, da cui
dominavano tutto il Mugello, e dove era il quartier generale degli
esuli. Il castello finalmente fu preso a tradimento, provocato con
danaro sparso fra gli Ubaldini stessi, e venne demolito dai Fiorentini,
che subito deliberarono di fondare colà le due terre di Scarperia e di
Firenzuola, «per fare battifolle agli Ubaldini, e torre i loro fedeli»,
rendendo liberi da ogni vassallaggio tutti coloro che entravano in
quelle due piccole città, a tale scopo fondate. La prima pietra di
Scarperia fu messa subito, il 7 settembre 1307; la costruzione di
Firenzuola cominciò invece assai piú tardi (1332).
Ma a che cosa s'arrivava, qual fine raggiungeva la Repubblica con
queste continue guerre, cui anche i Grandi pigliavano parte; con
questa sottomissione delle città ghibelline; con questa demolizione
di castelli in tutto il territorio? Da una parte cresceva rapidamente
il suo predominio politico in Toscana, e si aprivano nuove vie al suo
commercio; da un'altra la potenza dei Grandi fuori di Firenze veniva
distrutta con l'aiuto di quelli che erano dentro, e che, accecati
dall'odio contro gli esuli, non sapevano quel che si facevano. Gli
antichi popolani avevano demolito i castelli, che una volta arrivavano
fin quasi alle mura di Firenze; avevano costretto i baroni a venire
in città, sottoponendoli alle leggi repubblicane, fiaccando il loro
orgoglio, escludendoli dal governo. Valendosi delle loro discordie,
li spinsero piú tardi a distruggersi fra di loro; e finalmente si
facevano ora da essi aiutare per combattere i nobili piú lontani, e
demolirne i castelli nel Casentino, nel Valdarno, in Mugello, il che
tutto ritornava sempre a vantaggio del popolo e delle Arti. Infatti nel
1306, quando continuava ancora la guerra contro Pistoia, i Fiorentini
rinnovarono le compagnie del popolo armato sotto 19 gonfalonieri. E
questa fu la costituzione del «buon popolo guelfo», riforma, secondo il
Villani, fatta perché «i Grandi e possenti non presumessero di pigliare
forza e baldanza, per le molte vittorie ottenute contro i Bianchi ed i
Ghibellini».[211]
Ma ciò, non era tutto, che anzi la parte sostanziale della nuova
riforma fu la legge del 23 dicembre 1306, con la quale vennero
rafforzati gli Ordinamenti, e fu creato l'Esecutore di Giustizia, che
doveva curarne una piú rigorosa applicazione. Il fine della legge
era chiaramente espresso nelle sue prime parole, che la dicevano
fatta «a conservare la libertà del Popolo di Firenze, ed a rompere la
superbia de li iniqui, la quale tanto è cresciuta che piú oltre, con
gli occhi riguardando, non si puote passare». Le Arti, in sostanza,
non davano quartiere ai Grandi, neppure quando combattevano insieme
con essi i nemici comuni. L'Esecutore doveva essere popolare e guelfo,
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