I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 05

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Se ora paragoniamo lo Statuto fiorentino cogli altri italiani,
troveremo vari caratteri che lo distinguono, e che in gran parte
dipendono dal fatto, che in esso le libertà democratiche raggiunsero
l'estremo limite cui era possibile arrivare nel Medio Evo. Non solo
ogni privilegio feudale, a poco a poco, scomparve in esso del tutto;
ma i magnati finirono col trovarsi in una condizione inferiore a
quella dei popolani. Firenze fu, come vedemmo, una delle prime città
italiane che abolirono affatto la servitú nel contado, con la legge
del 1289.[52] E sebbene trattasse gli abitanti della campagna peggio
assai dei cittadini, pure è certo che essi si trovavano in condizioni
di gran lunga migliori che in moltissimi altri Comuni. Prova ne è
quel contratto di mezzeria, che fa del lavoratore della terra un vero
socio del proprietario, e resta sempre un grande monumento di civiltà,
ammirato dai moderni economisti, i quali non seppero mai escogitare
nulla di meglio.[53] La libertà e la forza delle associazioni, la
straordinaria facilità con cui si saliva al governo del Comune,
tutto contribuiva al trionfo della piú larga democrazia. Ma un altro
carattere generale dobbiamo pur notare in questo, come in quasi tutti
gli Statuti italiani, ed è la mira costante a liberarsi dalla ingerenza
dell'autorità ecclesiastica, la quale s'adopera, con una ostinazione
incredibile, a mantenere intatti i suoi privilegi, e vuole aumentarli;
ma li vede, invece, poco a poco ridotti quasi a nulla. Lo Statuto del
1415 dice: «nessuna persona. Università, Chiesa, luogo religioso o
clericale, osi ricusare il fòro del Comune, sotto scusa di beneficio
o privilegio, e quando operi in contrario, si proceda all'arresto,
fino a che non rinunzia a tale privilegio.[54] Nessuna scomunica o
interdizione potrà impedire, né diminuire l'azione dei magistrati, o
l'effetto delle loro sentenze.[55] Ognuno può esercitare liberamente
i suoi diritti su tutti i beni della Chiesa, che le vengano da
laici».[56]

XV
Tornando ora a dare uno sguardo generale agli Statuti italiani,
dobbiamo osservare, che se la storia del diritto statutario presenta
molte difficoltà, pel numero infinito di disposizioni diverse che
troviamo in essi, la diversità di siffatte disposizioni deriva
principalmente da cagioni accidentali e temporanee, estranee allo
svolgimento naturale e spontaneo del diritto, il quale, esaminato
in sé stesso e nei suoi caratteri fondamentali, presenta invece una
grandissima uniformità. Si può però notare che nelle repubbliche del
nord predomina assai piú il diritto longobardo; in quelle del centro
e del sud piglia pronto e rapido ascendente il romano, che finisce
col dominare in tutto, con le alterazioni che abbiamo già notate.
Questo progresso è d'anno in anno piú visibile, e cosí noi assistiamo,
anche nell'esaminare gli Statuti, a quel medesimo contrasto di opposti
elementi, che abbiamo notato in tutta quanta la storia dei Comuni e
della cultura italiana: nelle guerre civili, nelle sanguinose lotte
fra Guelfi e Ghibellini, nell'arte, nella letteratura, in ogni cosa.
Negli Statuti si tratta, è vero, solamente d'idee e di disposizioni
giuridiche; ma queste sembrano combattersi con uguale ardore, mirare al
medesimo fine, che gli uomini governati da esse.
Verso il declinare del secolo XIV, il commercio incominciò a prendere
un grandissimo slancio in Italia, il che portò un nuovo progresso nella
legislazione. Abbiamo infatti una serie di disposizioni con le quali
si raggiunge un'assai maggiore speditezza negli affari commerciali,
si evitano i cavilli legali, si tolgono le ipoteche sui crediti del
mercante, si puniscono severissimamente la frode e i fallimenti dolosi.
In una parola, troviamo chiaramente le origini del moderno codice di
commercio, con cui tali disposizioni assai spesso consuonano.
Ma in tutte queste leggi vediamo sempre le conseguenze d'un Comune
diviso e frazionato in particolari associazioni, che hanno propri
Statuti, propri giudici, vita rigogliosa, e troviamo un potere
centrale che, sebbene veda da ogni lato minacciati, usurpati i suoi
naturali diritti, esercita la sua azione, con poco ordine e senza
uniformità, ma pure non senza forza, spesso anche con violenza. Ora
par sopraffatto, ora invece riesce a sopraffare. Tutta la storia
del Comune dimostra una tendenza continua a porre in armonia questi
elementi politici, sociali, e legislativi, diversi e spesso fra loro
cozzanti, problema che esso non riesce mai a risolvere pienamente, e
finisce quindi col cadere nel dispotismo. Mancava un vero concetto
della unità sociale, mancava nel fatto e nella mente degli uomini
ogni idea della distinzione dei poteri; laonde chiunque assumeva una
parte del potere esecutivo, assumeva ancora non solo una parte del
giudiziario, ma dell'amministrativo e del legislativo, che vi erano
necessariamente connessi. E però, a salvare la libertà pareva che unico
mezzo fosse dividere il governo fra mille mani, facendo in modo che
i partiti, le associazioni, le famiglie, i quartieri della città, le
consorterie servissero le une di freno alle altre. In questa divisione
e suddivisione tutti gli elementi che costituirono piú tardi la società
moderna, furono apparecchiati; ma lo Stato vero e proprio non fu mai
trovato. Ondeggiando in una continua tempesta, scossa da ogni lato,
la nave della repubblica sembrava non aver mai posa né direzione
determinata; non poter mai solcare le acque con fermezza, per mancanza
di zavorra. Non s'arrivò giammai ad un chiaro e sicuro concetto del
diritto, il quale, limitando e determinando la libertà garantita a
ciascuno, assicura quella di tutti.
La vita politica dei Comuni inoltre fu sempre circoscritta nella
cerchia delle città dominanti, restandone esclusi non solo il
contado, ma anche le città vinte o annesse. Ogni forma di governo
rappresentativo era allora ignota. Tutti quelli che godevano dei
diritti politici, alternandosi fra di loro, entravano direttamente
nei Consigli della repubblica, e la piú parte di essi, prima o poi,
salivano al potere. Ciò rendeva necessario avere Stati con confini
assai circoscritti, per non rendere impossibile addirittura il
governarli in un modo qualunque. Solo la Rivoluzione francese, facendo
per la nazione interna, quello che il Comune italiano aveva fatto per
le città, poté proclamare l'uguaglianza civile e politica di tutti
coloro che facevano parte della nazione, i quali finalmente furono
perciò tutti cittadini. La democrazia divenne allora il carattere
predominante delle società moderne, che col sistema rappresentativo,
poterono assicurare la libertà anche nei grandi Stati, conciliando
l'unità e la vigorosa azione del governo centrale con la indipendenza
personale, con l'attività e le libertà locali. Ma il Comune restò
sempre incerto fra gli opposti elementi di cui era composto, e che non
seppe mai comporre in un vero organismo politico.
La storia delle nostre repubbliche si potrebbe infatti ridurre tutta
al diverso predominio che ebbero in esse ora l'una, ora l'altra delle
grandi associazioni che le costituivano. A Firenze dapprima lottarono
fra loro, con varia fortuna, nobili e popolani. Quando le consorterie
dei magnati presero tale ascendente da minacciare le libertà popolari,
e distruggere ogni equilibrio sociale, allora ebbe luogo una grande
riforma degli Statuti, una vera trasformazione del Comune, e con gli
Ordinamenti di Giustizia, di cui ora dobbiamo parlare, furono abbattuti
i nobili e disfatte le loro consorterie. Ma esse erano parte integrante
dello Stato, e però quando vennero sgominate, vi fu un momento di
rapida corruzione e decadenza. Alle passioni, agl'interessi della
casta, succedettero le passioni, gli odi, le ambizioni personali,
anche piú pericolose. Le famiglie cominciarono a combattersi fra loro,
sorsero i potenti ambiziosi, e Corso Donati o qualche altro simile a
lui, sarebbe divenuto subito padrone e tiranno della Repubblica, se non
vi fosse stato un popolo potente, arricchito dai rapidi guadagni del
cresciuto commercio, amico della libertà, nemico dei Grandi. Al dominio
delle consorterie successe perciò il dominio delle Arti Maggiori,
e cominciò la loro lotta con le Minori, che finalmente arrivarono
anch'esse al potere. Piú tardi s'avanzò la gran massa dei Ciompi, i
quali minacciarono di decomporre del tutto la vecchia forma sociale
della Repubblica; e vennero sulla scena nuove ambizioni personali,
anche piú funeste alla libertà, perché piú fortunate. Lottarono fra
loro Albizzi, Pitti e Medici, i quali ultimi trionfarono con Cosimo
il Vecchio, che uccise la Repubblica. Ma tutto questo non ci deve gran
fatto maravigliare, perché una volta che si tengano presenti le origini
del Comune, e gli elementi che lo composero, si vede assai chiaro, che
in sostanza avvenne quello che doveva inevitabilmente avvenire.


CAPITOLO VIII
GLI ORDINAMENTI DELLA GIUSTIZIA[57]

I
La storia di Firenze negli ultimi anni del secolo XIII, richiama tutta
la nostra attenzione per molte ragioni. In quel tempo seguiva una delle
rivoluzioni politiche piú importanti, che ebbe per resultato quegli
Ordinamenti della Giustizia, di cui è tenuto autore Giano della Bella,
e che il Bonaini chiamò la Magna Carta della repubblica fiorentina.
Quando anche il paragone sembri esagerato, è pur certo che questi
Ordinamenti noi li vediamo, ora afforzati, ora modificati, qualche
volta sospesi, restar nondimeno in vigore per piú di un secolo, cosa
che non è di piccolo momento in una repubblica mutabile come quella
di Firenze. Molte delle vicine città prima o poi li imitarono, ed i
Romani mandarono nel 1338 a chiederne una copia, per riordinare con
essi la loro città. Al quale proposito scrisse il Villani: «e nota come
si mutano le condizioni e gli stati de' secoli, che i Romani feciono
anticamente la città di Firenze, e dierono loro legge, e in questi
nostri tempi mandaro per le leggi a' Fiorentini».[58] Da un altro
lato, in quegli anni appunto, si vede sorgere a un tratto, nel seno
della Repubblica, il piú splendido fiore delle arti e delle lettere. La
lingua, la poesia, la pittura, l'architettura, la scultura avevano già
fatto le loro prime prove in varie città d'Italia; ma ora si raccolgono
stabilmente in Firenze, iniziano un'èra nuova nella storia del pensiero
nazionale, sono come una luce che sorge improvvisa ad illuminare non
solo l'Italia ma l'Europa. Importa quindi conoscere, in tutti i loro
particolari, quali furono le fortunate condizioni politiche e sociali,
che fecero di Firenze il centro di cosí maravigliosa attività, il foco
in cui questi raggi vennero a concentrarsi.
Si potrebbe, è vero, osservare che se quei tempi sono per tante ragioni
meritevoli della nostra attenzione, la storia ne è pure notissima.
Narrata da contemporanei come il Compagni ed il Villani, che furono
non solo testimoni oculari, ma spesso anche parte dei fatti che
descrissero, essa venne illustrata con molti documenti originali, e
nuovamente esposta da alcuni dei piú chiari storici moderni. Ma pure,
chi bene la esamina, deve accorgersi che quei tempi non sono poi cosí
noti come pare. Basta infatti leggere gli storici anche piú moderni,
perché mille difficoltà e mille dubbi sorgano nella nostra mente.
Che cosa in vero ci dicono, non solo il Machiavelli, l'Ammirato, il
Sismondi, il Napier; ma il Vannucci, il Giudici, il Trollope, che
scrissero quando era già seguita la pubblicazione di molti e nuovi
documenti originali? — Dopo la battaglia di Campaldino, l'insolenza
dei Grandi era trascorsa in Firenze oltre ogni limite. Ingiuriavano,
opprimevano, calpestavano il popolo. Si levò allora un uomo ardito
e generoso, Giano della Bella, nobile dato al partito popolare,
il quale, essendo dei Priori, propose una nuova legge, che doveva
rimediare per sempre a questi mali, e che fu accettata, sanzionata col
nome di Ordinamenti della Giustizia. Questa legge escludeva i Grandi
o sia i magnati da ogni ufficio politico; permetteva di salire al
governo della Repubblica solo a quelli che effettivamente esercitavano
un'Arte; puniva ogni grave offesa dei Grandi contro i popolani, con
giudizi e con pene eccezionali e crudeli: il taglio della mano, la
morte, piú spesso la confisca. Per le offese minori, v'erano solo
pene pecuniarie. I magistrati avevano facoltà di punire un popolano,
che si mostrasse avverso alla Repubblica o ne violasse le leggi,
col dichiararlo Grande, il che lo escludeva subito dal governo e lo
sottoponeva alle stesse angherie. Ma quello che è piú, quando uno dei
magnati, commessa l'offesa, sfuggiva alla giustizia, doveva in sua
vece pagar la pena il suo parente o consorto.[59] — Cosa unica nella
storia del mondo! esclama, a questo proposito, il Giudici. E chi non
vede, infatti, come questa, che è pure una legge fondamentale nella
storia della Repubblica, sembra invece una vendetta ispirata solo
dalle piú cieche passioni di parte? I dubbî perciò sorgono quasi ad
ogni parola di essa. Come spiegare che Dante si trovava dei Priori,
e con lui altri, che certo non erano artigiani, o solo di nome, se è
vero che gli Ordinamenti escludevano tutti coloro che non esercitavano
effettivamente una delle Arti? Ma, lasciando da parte mille altri
dubbi minori, egli è certo che il sentire che allora si condannava
alla morte un innocente, solo perché parente o consorto d'un colpevole
sfuggito alla giustizia, è cosa che non si può assolutamente capire.
Potremmo intenderla appena in mezzo alla piú oscura barbarie; resta
un mistero ed una contraddizione nel secolo di Dante; confonde tutte
le nostre idee intorno a quei tempi. Il riesaminare adunque un tale
soggetto non può essere senza qualche utilità. Si tratta di determinare
il vero carattere della rivoluzione seguita allora, e della legge che
ne fu conseguenza; di metterle in armonia coi tempi e colla storia di
Firenze.

II
In sul finire del secolo XIII, la Repubblica aveva acquistato in
Toscana ed in tutta Italia una importanza grandissima. La caduta degli
Svevi, la venuta degli Angioini, la vacanza dell'Impero avevano dato
al partito guelfo, che in Firenze era quello della democrazia, un
grandissimo ascendente. Pisa, Siena ed Arezzo, le sue tre grandi rivali
ghibelline, erano state dai Fiorentini, con una diplomazia accortissima
e con la forza delle armi, umiliate e vinte, il che non solo aveva
rialzato in Toscana l'autorità politica della loro Repubblica, ma le
aveva aperto ed assicurato tutte le grandi vie del commercio. Al mare
s'andava per Pisa; a Roma, nell'Umbria, nell'Italia meridionale per
Siena ed Arezzo; al settentrione s'andava per Bologna, città lontana,
guelfa ed amica. Quindi è che il commercio di Firenze prese allora
un rapido incremento, ed essa, che era una repubblica di mercanti,
in mezzo a repubbliche date del pari all'industria ed al commercio,
si trovò a capo di tutta Toscana. Da un altro lato però la cresciuta
potenza degli Angioini cominciava già ad ingelosire i Papi stessi,
che li avevano chiamati, e che ora volgevano l'occhio alla Germania,
per farvi risorgere le pretese imperiali, e cosí mettere un freno alla
crescente ambizione di Carlo d'Angiò, il quale, fatto da essi Senatore
di Roma e Vicario imperiale in Toscana, sembrava volesse seguire
l'audace politica degli Svevi, aspirando alla signoria d'Italia.
In un tale stato di cose, i Fiorentini seppero destreggiarsi con
un'accortezza maravigliosa, ed inclinando ora a destra ora a sinistra,
fecero piú volte piegar la bilancia dal lato che volevano. Si servivano
dei soldati di Carlo, per abbassare le città e i nobili ghibellini;
s'appoggiavano al Papa, per frenare l'albagía di Carlo; e mostravano
di voler favorire l'Impero, quando il Papa parlava da supremo signore
temporale, quasi, nel presente interregno, fosse lui l'erede naturale
dei diritti imperiali. In questo modo la Repubblica, non solo mantenne
salva la sua indipendenza, ma divenne uno Stato rispettato e temuto in
Italia.[60] Tutto ciò era conseguenza dell'attività, dell'accortezza
e intelligenza de' suoi popolani, i quali governavano con una tale
parsimonia nelle spese, con tanta prudenza, che si giunse ad una
prosperità inaudita. «E nota (dice il Villani), che infino a questo
tempo e piú addietro, era tanto il tranquillo stato di Firenze, che
di notte non si serravano le porte alla Città, né avea gabelle[61]
in Firenze; e per bisogno di moneta, per non fare libbra,[62] si
venderono mura vecchie, e' terreni d'entro e di fuori a chi v'era
accostato».[63] Con poche tasse e senza debiti, l'amministrazione
procedeva mirabilmente; non gravava i cittadini, ed aumentava il
benessere comune.

III
Pure, al disotto di questa apparente tranquillità, v'era nel seno
della Repubblica il germe d'una profonda discordia, che di tanto
in tanto scoppiava in sanguinosi conflitti, dei quali era causa
principale il malcontento dei Grandi. È un grave errore il credere,
che gli Ordinamenti di Giustizia li escludessero per la prima volta
dal governo. Questo era una disposizione di lunga mano apparecchiata,
e che, sebbene non fosse ancora rigorosamente eseguita, poteva dirsi
già sanzionata nel 1282, con la istituzione dei Priori delle Arti,
posti a capo della Repubblica. Ma non bisogna credere per questo, che
allora i Grandi avessero di fatto perduto nella Città ogni potere.
Prima di tutto, il nuovo modo di guerreggiare, pel quale gli eserciti
municipali d'artigiani, senza cavalieri, senza uomini d'arme, facevano
pessima prova, aveva reso inevitabile l'aiuto dei nobili, e cominciava
anche a rendere necessario il ricorrere a gente forestiera: Tedeschi,
Francesi e Spagnuoli, soldati di ventura che vivevano per la guerra e
della guerra. A Montaperti (1260) erano stati i Tedeschi di Manfredi
e i nobili ghibellini, esiliati da Firenze, che avevano inflitto una
terribile rotta all'esercito guelfo della Repubblica. A Campaldino
(1289) erano stati Corso Donati, Vieri dei Cerchi e altri Grandi o
potenti di Firenze, che avevano deciso la giornata. Questi lo sapevano
e lo ripetevano di continuo, sprezzando gli artigiani ed il popolo.
Educati alle armi, non distratti dal commercio, erano irritatissimi,
vedendosi esclusi dal governo da gente piú rozza e assai meno di loro
atta alla guerra. Le passioni politiche s'accendevano perciò sempre di
piú, ed essi non avevano né davano pace.
Bisogna poi notare che i Grandi d'allora non erano piú i nobili
feudatari d'una volta, isolati e chiusi nei loro castelli, come tanti
sovrani, dipendenti solo dall'Impero, e nemici della Repubblica. Vinti
nel contado, ed obbligati già da un pezzo ad entrare ed abitare in
Città, le si erano adesso affezionati, ma avrebbero in essa voluto
comandare. Trovandosi circondati per ogni lato da un popolo potente,
associato in Arti, e padrone del governo; sottomessi per forza alle
leggi repubblicane, che non riconoscevano i diritti feudali, s'erano
dovuti, a legittima difesa, associare nelle consorterie o società delle
Torri, regolate meno da leggi che da consuetudini, e però tanto piú
fortemente unite. Questi erano stati in origine, quasi esclusivamente,
vincoli di sangue, che s'andarono sempre piú stringendo collo scomporsi
dell'ordinamento feudale, quando le parentele, per non perdere la loro
forza, si formarono in caste o associazioni separate, che accoglievano
un numero sempre maggiore di soci. Abitavano gli uni vicino agli
altri nei loro palazzi, che stavano accosto ed occupavano spesso una
o piú vie della Città; vivevano insieme co' loro aderenti, uomini
d'arme, palafrenieri, servitori, stallieri, e nei momenti di pericolo
chiamavano anche i contadini dai loro ricchi possessi nella campagna.
Non solamente le loro proprietà restavano sempre nella famiglia o
nella consorteria, e le liti si componevano per mezzo di arbitri;[64]
ma le vendette si deliberavano in comune, e colui che le eseguiva era
sempre messo in salvo dagli amici, ritenendosi tutta la consorteria
responsabile del fatto. Spesso avevano tra casa e casa, o nelle
Corti dei loro palazzi, un arco sotto cui davano la corda a chi loro
piaceva. Della famiglia Bostichi, infatti, dice il Compagni: «Feciono
moltissimi mali e continuoronli molto. Collavano gli uomini in casa
loro, le quali erano in Mercato Nuovo, nel mezzo della Città, e di
mezzodí gli metteano al tormento. E volgarmente si dicea per la terra:
molte corti ci sono; e annoverando i luoghi dove si dava tormento,
si diceva: a casa i Bostichi, in Mercato».[65] Tuttociò continuava
sempre, quantunque si fossero già pubblicate severissime leggi contro i
Grandi. Un popolano era bastonato, ferito o messo alla corda, senza che
l'autore dell'offesa si potesse mai legalmente ritrovare. In campagna
questi medesimi Grandi s'adoperavano in mille modi a tener viva la
servitú, che pure era stata per legge abolita da piú anni, inducendo i
contadini, con la forza o le minacce, a riconoscere, mediante contratti
fittizî, obblighi che non avevano.[66]
E cosí fu che questi cittadini, già potenti per le loro condizioni
sociali, avevano sempre molta forza ed autorità politica nella
Repubblica, non ostante le leggi fatte contro di loro. Esclusi dalla
Signoria, non potevano entrare nel Consiglio dei Cento, e neppure in
quelli del Capitano, nei quali le cose piú importanti si trattavano.
Entravano però in quelli del Podestà, che doveva esser cavaliere,
e però spesso favoriva i nobili ne' suoi giudizî. Nelle ambascerie
erano di continuo adoperati, e nelle guerre pigliavano i primi posti;
ma sopra tutto prevalevano in quella istituzione che dicevasi la
_Parte Guelfa_, i cui principali ufficî erano ad essi piú specialmente
affidati. Fondata, come abbiamo già visto, nel 1267, dopo la cacciata
del conte Guido Novello, essa doveva amministrare tutti i beni
confiscati ai Ghibellini, dei quali s'era fatto _monte_ o _mobile_,
o come diremmo noi capitale. Questi beni dovevano essere adoperati ad
abbassare i Ghibellini ed a sostenere i Guelfi, dei quali Firenze era
capo in Toscana. Fu a questo proposito, che il cardinale Ottavio degli
Ubaldini esclamò: _Dappoi che i Guelfi di Firenze fanno mobile, giammai
non vi torneranno i Ghibellini_; e la sua profezia s'avverò.[67]
Difatti il partito ghibellino a poco a poco scomparve, per le continue
persecuzioni subite dopo il rovescio generale degli Svevi; e la Città,
divenuta allora affatto guelfa, si divise in popolani da un lato,
nobili, potenti o Grandi dall'altro. Questi, esclusi dal governo o
dagli onori, come dicevano allora, non poterono mai essere esclusi
dalla Parte, di cui continuarono invece ad amministrare le ricche
entrate. Essa era ordinata come una piccola repubblica, e nonostante
i molti tentativi fatti per introdurvi, in proporzione sempre
maggiore, i popolani, non vi si poté mai riuscire, e furono invece
sempre sopraffatti, tanto che nello statuto, che ne abbiamo a stampa,
compilato nel 1335, si trova incoraggiata, con premî in danaro, la
nomina di nuovi cavalieri. Ad ognuno di essi, fino a sei per anno,
davasi la somma di cinquanta fiorini in oro, «conciosiacosaché a cosí
magnifica Città si confaccia risplendere per quantità di cavalieri».
E cosí da un lato s'abbassavano i Grandi, e quasi pareva che si
volessero sterminare: da un altro invece essi trovavano sempre forza ed
aiuto.[68]

IV
Con tutti questi vantaggi, se i nobili fossero stati uniti, anche
dopo le battiture avute nel '66 e nell'82, avrebbero potuto ottenere
una rivincita, e dominare il popolo. Ma erano invece divisi e si
combattevano aspramente anche fra di loro. «Aveva grande guerra (dice
il Villani) tra gli Adimari e' Tosinghi, e tra' Rossi e' Tornaquinci, e
tra i Bardi e' Mozzi, e tra i Gherardini e' Manieri, e tra i Cavalcanti
e' Buondelmonti, e tra certi de' Buondelmonti e' Giandonati, e tra'
Visdomini e' Falconieri, e tra i Bostichi e' Foraboschi, e tra'
Foraboschi e' Malespini, e tra' Frescobaldi insieme, e tra la casa
de' Donati insieme e piú altri casati».[69] Né deve recar maraviglia,
che le consorterie cosí forti e potenti fossero gelose le une delle
altre. S'aggiungeva poi, che fra questi nobili guelfi c'erano gli
avanzi del partito ghibellino, con le loro simpatie imperiali, il
che costituiva un altro germe di discordia, e dava animo, eccitava
il popolo a procedere sempre piú oltre nella guerra di sterminio,
che aveva incominciata. Assai meglio ordinato e piú unito; associato
nelle varie Arti, che formavano parte della generale costituzione
dello Stato, esso dimostrava, in ogni occasione, una forza ed unità di
azione, che i Grandi non avevano mai. Cominciava, è vero, a scorgersi
già sin d'allora il germe di qualche gelosia tra le Arti maggiori,
le minori e la plebe; ma questa discordia scoppiò assai piú tardi.
Per ora non se ne vedeva neppure il principio. S'erano formate, tra i
membri d'una stessa Arte o di varie Arti, quelle che allora chiamavansi
_Leghe, Posture, Convegni_, ossieno accordi speciali, fatti anche
per mezzo di regolari scritture. Ma avevano uno scopo piú che altro
commerciale, mirando a tenere abusivamente alti certi prezzi, a fare
monopolî poco legittimi: solo in piccola parte nascevano da passioni o
interessi politici. Non erano permessi dalle leggi, né certo favorivano
la concordia, ma avevano poca importanza.
La Città si trovava cosí sempre piú divisa e suddivisa in gruppi, e
pareva che minacciasse d'andare in frantumi. I popolani erano di certo
sempre i padroni del governo; ma i nobili, sebbene in diverso modo,
erano anch'essi potenti; quindi l'unità e la concordia dovevano di
continuo correre grave pericolo. L'ottenere una maggiore uguaglianza
fra i cittadini, una maggiore unione e forza cosí nella società come
nel governo, doveva essere perciò lo scopo cui, per necessità delle
cose, bisognava mirare, se non si voleva restar sempre sull'orlo di
un precipizio. Da gran tempo infatti la legislazione fiorentina e le
continue rivoluzioni si erano indirizzate a questo fine. La legge del
6 agosto 1289, con la quale si aboliva la servitú, per dare la libertà
ai contadini, fu anch'essa un nuovo passo verso l'uguaglianza. Quelle
del 30 giugno e 3 luglio 1290 proibirono ogni accordo, che in qualunque
modo s'allontanasse dalla costituzione legale delle Arti. La legge
del 31 gennaio 1291 pose un altro freno ai nobili, obbligando tutti i
cittadini, senza alcuna distinzione, a sottostare ai giudici ordinarî,
minacciando pene severissime a chiunque pretendesse d'avere o di volere
impetrare il privilegio di tribunali eccezionali.[70]
Ma ciò che è ancora piú, la pena pecuniaria minacciata in tali casi,
ricadeva sul consorto o parente del colpevole, se esso riusciva a
sfuggire alla giustizia. È questa una legge che deve a noi sembrare
molto strana; ma che pur trova la sua spiegazione in quello che
abbiamo già detto sull'ordinamento che aveva allora la proprietà,
sulla costituzione delle famiglie e delle consorterie. Il patrimonio
domestico rimanendo, in massima parte, indiviso nella famiglia,
l'imporre pena pecuniaria ad uno solo de' suoi membri, senza colpire
gli altri, doveva riuscire di certo non solo assai difficile, ma anche
pericoloso, e per questa ragione la legge tendeva sempre ad obbligarli
tutti in solido. Un tal principio sembrava piú logico ancora quando
trattavasi di pene imposte ai Grandi, che vivevano strettamente
uniti fra di loro nelle consorterie; che in comune trattavano i loro
interessi, deliberavano le vendette, mostrando di volere in ogni cosa
vivere ed essere insieme responsabili. Se la proprietà apparteneva a
tutta la famiglia, ed era perciò sempre questa che pagava; se comune
era anche la vendetta, e le piú gravi offese erano fatte in nome
e per volontà di tutti i parenti, non pareva che vi fosse nulla di
strano nella legge che obbligava l'un consorto o parente a pagare
per l'altro, cominciando dai piú prossimi. E già da lungo tempo, per
queste ragioni appunto, le leggi, dopo aver ordinato l'elenco dei
Grandi, li obbligavano a sodare, cioè a dare, ciascuno, malleveria
non solo direttamente per sé, ma anche l'uno per l'altro parente,
mediante la somma di lire due mila, che a questo fine si depositava.
In tal modo, quando le pene pecuniarie, che generalmente non passavano
mai tale somma, ricadevano sopra un Grande, v'era già il danaro da
lui stesso depositato, o il parente in simil modo vincolato a pagare
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