I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 19

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private preparatorie; ma anche nei Consigli della Parte Guelfa, come in
quelli del Podestà, Grandi e popolani erano insieme, ed avevano perciò
continua occasione di parlar fra loro delle cose di Stato, e discutere
proposte di leggi.
[122] _Ibidem_, I, 15.
[123] Questa narrazione abbiamo tratta dal Villani e dal Compagni,
cercando metterli fra loro d'accordo, cosa non punto agevole,
perché differiscono in molti particolari. Abbiamo perciò cercato di
raccogliere quelli almeno che si trovano nelle due narrazioni, e non si
contraddicon fra loro. COMPAGNI, I, 16 e 17; VILLANI, VIII, 8.
[124] VILLANI, loc. cit.
[125] La celebre provvisione riferita dal del Migliore, _Firenze
illustrata_ (Firenze, Ricci, 1821), vol. I, pag. 6, e riportata tante
volte da tanti scrittori, è certo assai bella; ma non è stato possibile
trovarne l'originale, e la sua forma fa credere che una mano piú
moderna l'abbia per lo meno modificata.
[126] Archivio fiorentino, Carte Strozziane-Uguccioni, 127. Questo
documento fu trovato dal sig. Salvemini che ce lo ha gentilmente
comunicato.
[127] Questo Daddoccio si era immatricolato nell'arte del cambio il 11
Dicembre 1283, e il 1º Dicembre 1287 pagava la sua rata d'associazione.
(Strozz. Ugucc. 1283 11 Dic.)
[128] _Nuova Antologia_ di Roma, 1 dicembre 1888.
[129] Molte giuste osservazioni ed importanti notizie, a questo
proposito, troviamo in L. CHIAPPELLI, _L'Amministrazione della
giustizia in Firenze_ (_Arch. Stor. It._, Ser. IV, vol. XV, pag. 35
e segg.), e FRANCESCO NOVATI, _La Giovinezza di Coluccio Salutati_
(Torino, Loescher, 1888, Cap. III, pag. 66 e segg.). Mi sembra però
che, colle loro acute e dotte indagini, questi due scrittori si siano
fermati a mettere in evidenza la corruzione dei giudici, senza notare
le origini di questa corruzione ed il suo grande aumento nel secolo
XIV. Le origini si debbono, io credo, cercare nelle mutate condizioni
dei Podestà, Capitani del popolo, cancellieri, notai, giudici, ecc.
E certamente quello che di essi si diceva nel secolo XIV non si
sarebbe potuto dire nei tempi di Pietro della Vigna, di Rolandino dei
Passeggeri o di quei molti Podestà del Medio Evo, i quali erano tanto
potenti, che cercavano e spesso riuscivano a farsi tiranni dei Comuni.
Essi non erano allora gente da piegarsi a far da ciechi strumenti delle
altrui voglie partigiane; operavano piuttosto per conto proprio. Forse
alla decadenza politica dell'ufficio del Podestà, al suo venire perciò
piú facilmente in balía dei partiti, si deve, a cominciare dal 1290, la
riduzione del suo ufficio da un anno a sei mesi (AMMIRATO _ad annum_).
Lo stesso si dové fare, come era naturale, anche pel Capitano.
[130] _Cronica_, I, 13, pag. 57.
[131] G. VILLANI, VIII, 17.
[132] Di Calimala o dei panni forestieri, raffinati e tinti a Firenze;
dei Cambiatori o Banchieri; della Lana; di Porta S. Maria o della Seta;
dei Medici, Speziali e Merciai, cui andavano uniti anche i Pittori: a
quest'arte s'era ascritto Dante Alighieri.
[133] LASTIG, _Entwicklungswege und Quellen des Handelsrechts_:
Stuttgart, Enke, 1877 pag. 251 e segg. Questo autore, fra molte altre
giuste osservazioni, nota che gli Ordinamenti fissano a ventuno il
numero delle Arti, numero che d'allora in poi restò sempre inalterato,
e che nei loro Statuti l'anno 1293 è continuamente ripetuto come il
loro anno normale, «wiederholt geradezu als Normaljahr» (pag. 244).
Vedi anche a pag. 267 e segg.
[134] G. VILLANI, lib. VIII, cap. 2 e 39.
[135] V. _Il Comune di Roma nel Medio Evo_, nei miei _Saggi Storici e
Critici_: Bologna, Zanichelli, 1890.
[136] VILLANI, VIII, 12. V. anche la provvisione 6 luglio 1295, piú
sopra citata.
[137] VILLANI, VIII, 12.
[138] _Del Lungo_, _Dino Compagni e la sua Cronica_, I, pag. 162.
L'autore suppone che fosse del numero anche Dante Alighieri.
[139] Di ciò parlano molto i cronisti. Il Compagni, (pag. 86-7) dice
che i Cerchi «accostarsi a' popolani e reggenti»; piú oltre aggiunge
che «ad essi s'avvicinarono tutti quelli che erano dell'animo di Giano
della Bella» (pag. 106). Lo Stefani (IV, 220) dice che il popolo «per
parte tenea pe' Cerchi, la maggior parte perché erano mercatanti».
[140] Su di ciò il prof. DEL LUNGO dà, in piú luoghi della sua opera,
particolari notizie.
[141] VIII, 38.
[142] Le mire di Bonifazio VIII e le sue trame coi Neri, furono messe
in nuova luce, con sottili indagini e nuovi documenti, dal signor GUIDO
LEVI, nel suo bel lavoro: _Bonifazio VIII e le sue Relazioni col Comune
di Firenze_, pubblicato prima nel Vol. IV dell'_Archivio Storico della
Società Romana di Storia Patria_, e poi a parte: Roma, Forzani, 1882.
Io cito l'edizione a parte.
[143] LEVI, Documento I.
[144] V. FICKER, _Forschungen_, IV, n. 499, pag. 506, e LEVI, pag. 49.
[145] Le parole qui sopra riferite si trovano in testa a una delle
copie del documento ricordato dal sig. LEVI (pag. 49, nota 2), e furono
da lui premesse, come motto, al suo lavoro.
[146] Tutto il brano si legge nel LEVI, pag. 51, nota 2.
[147] LEVI, pag. 48-49, e doc. III.
[148] Bondone Gherardi e Lippo di Ranuccio del Becca.
[149] LEVI pag. 39-40. Secondo una lettera del Papa, pubblicata dallo
stesso signor Levi, doc. IV, i tre accusati erano: «Simonem Gherardi
familiarem nostrum, nostraeque Camerae mercatorem; Cambium de Sexto
procuratorem in audientia nostra; Noffum de Quintavallis, qui tunc ad
Curiam nostram accesserat».
[150] LEVI, Doc. II
[151] LEVI, pag. 66.
[152] Anche il VILLANI (VIII, 39) lo paragona al fatto del Buondelmonti.
[153] LEVI pag. 42; DINO COMPAGNI, Cronica I, XXII, nota 9.
[154] G. LEVI, Doc. IV.
[155] VILLANI, VIII, 40.
[156] VILLANI, VIII, 40.
[157] DINO COMPAGNI, I, pag. 96-7.
[158] Il DEL LUNGO, colla sua solita diligenza, notò che gli
esuli furono allora tutti dei Grandi. Il LEVI (pag. 59) ripetendo
l'osservazione, trova singolare un tal fatto, «quando il mal seme
della discordia si era appreso all'intera cittadinanza». Ma si spiega
facilmente, mi pare, dopo quello che ho detto piú sopra.
[159] VILLANI VIII. 40, COMPAGNI, I. 21.
[160] PERKENS, _Histoire de Florence_, vol. III, pag. 31.
[161] VILLANI, VIII. 43.
[162] _Idem_, VIII. 42.
[163] Il signor Levi ha qui posto assai bene in chiaro, distinguendoli,
i vari fatti che i cronisti confusero insieme.
[164] _Cronicon Parmense_, in MURATORI R. I. IX. 843.
[165] DEL LUNGO, vol. I, pag. 230; Dino Compagni, lib. II, 8, nota 3.
[166] VILLANI VIII, 43 e 49; e DEL LUNGO. Vol. I, pag. 206.
[167] VILLANI VIII. 56. Lo ricorda anche il Boccaccio, dicendolo «di
mercante divenuto cavaliere».
[168] Il FRATICELLI, nella _Storia della Vita di Dante_ (Firenze,
Barbèra, 1861), a pag. 135 e seg. pubblicò i frammenti delle Consulte
in cui Dante prese parte, i quali, piú correttamente e compiutamente,
furono ripubblicati poi dall'Imbriani nel suo scritto: _Sulla Rubrica
dantesca del Villani_ (prima nel _Propugnatore_ di Bologna, anni 1879
e 80, e poi a parte: Bologna, 1880). DEL LUNGO, pag. 209.
[169] Fraticelli e Imbriani, op. cit.
[170] Uno dei primi che negaron fede a questa ambasceria, fu il prof.
V. Imbriani nel già ricordato scritto: _Sulla Rubrica dantesca del
Villani_. Piú tardi il mio amico e collega, professor Bartoli, nel
volume V, della sua _Storia della letteratura italiana_, avendo, con
molta dottrina, ripreso in esame tutta la vita di Dante, non negò
esplicitamente l'ambasceria, ma espose i dubbi che su di essa potevano
muoversi. In fine del volume pubblicava ancora uno studio del prof.
Papa, il quale, piú giovane e piú ardito, recisamente la negava.
Il prof. Del Lungo invece l'aveva, con la sua ben nota dottrina,
sostenuta. La questione ha molta importanza nella vita di Dante, ma ne
ha assai poca nella storia generale di Firenze, perché, in sostanza,
se l'ambasceria vi fu, essa non ebbe nessun resultato pratico. Pure,
senza presumere di farmi giudice nella lunga lite, dirò le ragioni per
le quali io credo all'ambasceria.
Se G. Villani non ne parla, ne parla Dino Compagni (II, 25), alla cui
autenticità credono il Bartoli, il Papa e il Del Lungo. E quindi chi
di essi vuol negare l'ambasceria, senza negare affatto l'autenticità
del Compagni, suppone che appunto in questo luogo, vi sia una
interpolazione, la quale però in nessun caso potrebbe essere posteriore
al manoscritto del secolo XV, in cui la notizia si ritrova. Restano
però sempre quasi tutti i biografi. Infatti, Leonardo Bruni, che era
nato nel 1369, parla assai esplicitamente dell'ambasceria; Filippo
Villani, che era nipote di Giovanni, e che nel 1401 spiegava la _Divina
Commedia_, per incarico della Repubblica, parla d'una legazione di
Dante _ad summum Pontificem, urgentibus Reipublicae necessitatibus_.
Assai piú indirettamente e vagamente vi accenna il Boccaccio. È vero
che questi non è uno storico autorevole, e che gli altri due non sono
contemporanei. Ma, quando si è riconosciuto tutto ciò, e si è ammesso
ancora che alcuni di essi hanno potuto copiare l'uno dall'altro, e si è
ammessa l'ipotesi di una interpolazione fatta nel Compagni, durante il
secolo XV, resta pur sempre il fatto innegabile che, in tempi a Dante
abbastanza vicini, coloro che studiavano le sue opere e ne scrivevano
la vita, che potevano conoscer meglio di noi, credevano all'ambasceria.
Che ragioni abbiamo per negarla, senza nuovi documenti, noi che
siamo cosí lontani? Non si sarebbe mai, dice il prof. Papa, mandato
ambasciatore a Bonifazio VIII un suo avversario, che era l'autore della
Monarchia. Ma prima di tutto, il tempo in cui fu scritta la Monarchia
rimane finora sempre disputabile e disputato. Molti la credono, come il
prof. Del Lungo, scritta assai piú tardi. Dante allora, per quanto ne
sappiamo, era sempre guelfo, sebbene non fosse di certo favorevole alle
pretese di Bonifazio, per combattere le quali il governo fiorentino
lo mandava. Non v'è quindi nulla fin qui, che renda incredibile
l'ambasceria.
C'è però un'altra ragione, addotta in ultimo dal prof. Papa, la quale
secondo lui risolverebbe con certezza la questione. Se Dante fosse
davvero, come dicono il Compagni e l'Aretino, andato ambasciatore
a Roma, e rimasto colà, per ripartirne senza tornare a Firenze, la
condanna d'esilio non avrebbe mai potuto dire, come dice, che egli era
stato per mezzo del nunzio citato a comparire. — Lo Statuto voleva, che
agli assenti o forenses la citazione venisse fatta per lettera. Dunque
la citazione fatta per mezzo del nunzio, prova che Dante si trovava
certamente in Firenze, e però non era andato a Roma. — A mio avviso
questa obbiezione non può avere il peso che vorrebbe darle il prof.
Papa. Lascio da parte, che non è possibile fare assegnamento di sorta
sulla scrupolosa osservanza delle forme legali per parte di coloro che
osavano condannar Dante come barattiere, e lasciavano rubare, ferire,
assassinare i Bianchi, senza darsene pensiero alcuno. E lascio da parte
che, come tutti sanno, nei tumulti fiorentini, specialmente allora, le
leggi venivano assai generalmente violate cosí nella forma come nella
sostanza. Ma io non credo che, secondo lo Statuto, il Podestà fosse
in nessun modo tenuto a citare per lettera l'Alighieri assente. Il
_forensis_ non è l'assente, colui cioè che _extra civitatem manet_, è
invece, secondo lo Statuto, colui che non ha domicilio nella Città, nel
suo contado o nel distretto. È verissimo che al _forensis_ la citazione
doveva farsi per lettera; ma non cosí all'assente, a colui cioè che
trovavasi lontano, ma aveva il domicilio in Firenze, come sarebbe stato
il caso di Dante, se trovavasi a Roma. Secondo lo Statuto era allora
necessario andare alla casa, _dimittere cedulam_, e poi affiggerla alla
porta. Infatti esso, che sempre menziona esplicitamente la presenza
personale, quando è richiesta, qui invece non ne parla. Anzi aggiunge
che, ove venisse provato che il citato _maneret extra civitatem_,
allora la citazione doveva farsi pubblicamente, nella piazza di San
Giovanni ed in quella d'Or S. Michele, e poi doveva affiggersi la
cedola al Palazzo del Podestà. (Statuto, Lib, I, rub. 74, _De officio
nunciorum_; Lib. II, rub. 2, _De officio iudicum maleficiorum, et de
modo procedendi in criminalibus_; ed anche Lib. II, rub. 68 e 69).
Dante adunque non era _forensis_, e se andò allora a Roma, era solo
assente; la sua ambasceria, deliberata nel settembre, dové presto
finire, perché un nuovo e contrario governo entrò in ufficio l'8
novembre; la sua condanna d'esilio fu pronunziata il 27 gennaio
dell'anno seguente. Egli fu con altri tre citato a comparire, per
scusarsi e difendersi. Non essendo venuto, come non vennero gli altri,
e come non sarebbe nessuno di loro venuto, quando anche si fosse
trovato in Firenze, furono condannati, come sarebbe in ogni caso
seguito. Cosí, a stretto rigore, non può dirsi neppure che questa volta
fosse stata violata la forma legale, sebbene in quei giorni venissero
senza scrupolo di sorta calpestate la giustizia, le leggi e l'umanità.
Non vi sono dunque, come ammette il prof. Bartoli, ragioni per dire
addirittura che l'ambasceria non era possibile. E se il silenzio del
Villani par singolare, se l'affermazione del Compagni si vuol credere
che sia stata interpolata, riman sempre vero che all'ambasceria si
credeva in tempi che a Dante erano assai vicini, e da uomini che della
sua vita sapevano piú di noi. Per queste ragioni, pure ammettendo il
peso dei dubbi piú volte esposti, io, fino a prova in contrario, credo
all'ambasceria.
[171] Vedi la lettera in DEL LUNGO, vol. I, Appendice VI, pag. XLV e
XLVI.
[172] COMPAGNI, II, 8.
[173] VILLANI VIII, 49. Il Compagni dice che vide le lettere bollate.
[174] _Purg_. XX, 72-5,
[175] VILLANI, VIII. 49, pag. 53.
[176] _Idem_, VIII. 49. Molti altri particolari si trovano nelle
cronache del Compagni, di Paolino Pieri, Neri degli Strinati ed altri.
[177] Vedi in DEL LUNGO, (Vol. I, Appendice, Doc. VI, pag. XLV) la
lettera del 12 novembre al Comune di S. Gimignano.
[178] V. la _Provvisione_ in Del Lungo, vol. I, pag. 290.
[179] COMPAGNI, _Cronica_, II, 20 e 21.
[180] Lettera del Papa nel POTTHAST, _Regesta Pont. Rom._, pag. 2006.
[181] V. le notizie e documenti raccolti dal prof. Del Lungo noi suo
scritto: _Dell'Esilio di Dante_: Firenze, Successori Le Monnier, 1881.
Qualche cosa intorno a ciò era stata già prima, ma incompiutamente,
pubblicata nelle _Delizie degli Eruditi Toscani_, vol. X.
[182] Lib. VIII, cap. 49, pag. 53.
[183] Dino COMPAGNI II, 25, e nota 3 del prof. Del Lungo, a pag. 212-3.
[184] DEL LUNGO, I, pag. 305.
[185] _Libro del Chiodo._
[186] G. VILLANI, lib. VIII, cap. 49, pag. 54.
[187] _Nuova Antologia_ di Roma, 16 dic. 1888 e 16 genn. 1889.
[188] VILLANI, VIII. 52, 53. DEL LUNGO, Appendice XII alla _Cronaca_
del COMPAGNI, pag. 562, e segg.: _Le guerre mugellane e i primi anni
dell'esilio di Dante_.
[189] VILLANI, VIII, 58. DINO COMPAGNI, _Cronica_, II, XXXIV, e note
13, 14.
[190] DINO COMPAGNI, _Cronica_, II, XXXIV, nota 20 (documento).
[191] Pag. 546.
[192] COMPAGNI, III, II.
[193] COMPAGNI, III, II.
[194] VILLANI, VIII, 68.
[195] V. la lettera nel DEL LUNGO, pag. 556-7.
[196] DINO, III, VII.
[197] VILLANI, VIII 69; COMPAGNI, III, VII.
[198] VIII, cap. 69, pag. 87.
[199] Un'epistola, senza data e senza nome d'autore, indirizzata al
cardinale da Prato, dal capitano Alessandro (che si suppose essere
Alessandro da Romena), dal Consiglio e dalla Università della Parte
Bianca, fu pubblicata tra quelle di Dante, che l'avrebbe scritta
per i suoi compagni d'esilio, e tale per lungo tempo venne ritenuta
dai biografi. Il nome del capitano non si trova però nell'antico
manoscritto, da cui la lettera fu pubblicata, e nel quale si legge
solamente: _A. ca._ (Epistola Iª nell'ediz. Fraticelli: Firenze,
Barbèra 1863).
Essa, rispondendo ai consigli ed alle lettere del Cardinale, dice,
che i Bianchi gli sono grati e son disposti alla pace. _Ad quid aliud
in civile bellum corruimus? Quid aliud candida nostra signa petebant?
Et ad quid aliud enses et tela nostra rubebant, nisi ut qui civilia
iura, temeraria voluptate truncaverant, et iugo piae legis colla
submitterent, et ad pacem patriae cogerentur?_ Dante in sostanza
avrebbe dunque detto: — Noi ci siamo ribellati solo perché vogliamo
rispettate le leggi e la nostra libertà; né altro desideriamo se non
che la giustizia e la pace trionfino di nuovo. — Sarebbe stato, mi
pare, un linguaggio degno di lui.
Ma recentemente s'è messo in dubbio che la lettera sia di Dante. Il
professor Bartoli esamina il soggetto da tutti i lati, discute con
molto acume le varie opinioni, e dopo una lunga e dotta indagine,
conclude: che mancano le prove storiche per affermare o negare che sia
veramente di Dante (_Storia della letteratura italiana_, vol. V, cap.
8, 9, 10). Il prof. Del Lungo dice che lo stile della lettera, cosí pei
pregi, come per alcuni suoi difetti, è dantesco; ma che questo solo non
basta ad affermare che essa sia del sommo poeta, potendo essere stata
invece scritta da un contemporaneo trovatosi nelle medesime condizioni
di lui. Anzi, venendone ad esaminare il contenuto, ritiene che non
possa esser sua fra le altre ragioni, principalmente perché le parole
_candida nostra signa_, ed _enses et tela nostra rubebant_ ecc. si
ritrovano quasi identiche nel Compagni, là dove parla del fatto della
Lastra, avvenuto il 20 luglio 1304. Da ciò egli argomenta che a quel
fatto la lettera certamente alluda; e quindi dové essere stata scritta
dopo. Or siccome Dante s'era già prima separato dagli esuli, è chiaro,
dice il Del Lungo, che non può essere stato l'autore della lettera.
Io non so persuadermi che essa debba assolutamente alludere al fatto
della Lastra. — Le nostre bianche insegne furono spiegate, e le nostre
armi scintillavano, — sono parole che possono, mi pare, alludere cosí
al fatto della Lastra, come a qualunque altro fatto d'armi degli esuli,
per quanto somiglino e possin sembrare quasi tradotte da quel luogo
del Compagni che al fatto della Lastra accenna. Ciò posto, senza voler
proprio respingere l'opinione del prof. Del Lungo, osservo solo che la
ragione da lui addotta non basta essa sola a dimostrare che la lettera
non sia di Dante, il quale potrebbe averla scritta in nome degli esuli,
quando essi trattavano di pace col Cardinale, trattative, che, come
abbiam visto, condussero poi all'invio dei dodici loro rappresentanti
in Firenze. La nessuna riuscita di queste trattative, le stragi crudeli
dei Cavalcanti e dei loro amici, gl'incendi, la rovina di tanta gente,
l'avvicinarsi dei Bianchi a Corso Donati, e l'unione degli esuli coi
Bolognesi, Pistoiesi, Pisani, con tutti i nemici di Firenze, per tentar
subito dopo la folle impresa della Lastra, poterono anzi essere stati
ragione sufficiente per allontanar sdegnosamente dagli esuli bianchi
non solo Dante, ma parecchi altri, i quali forse perciò appunto non si
trovarono alla Lastra, come si vedrà anche meglio piú basso.
[200] VILLANI, VIII, 69. Questi dice che il Cardinale partí il 4
giugno, DINO COMPAGNI dice il 9, PAOLINO PIERI e la _Cronica_, che il
DEL LUNGO chiama Marciana-Magliabechiana, dicono il 10, data che segue
anche il DEL LUNGO pag. 563. V. DINO COMPAGNI, _Cronica_, III, 7, nota
26.
[201] COMPAGNI, III, 8.
[202] VILLANI, VIII, 71.
[203] _Ibidem_.
[204] VILLANI, _Ibidem_.
[205] _Storia della repubblica fiorentina_, vol. I, cap. 6, pag. 116,
(edizione del 1875).
[206] VILLANI, VIII. 72.
[207] Sono note le parole che gli dice Cacciaguida, nel XVII Canto del
_Paradiso_:
E quel che piú ti graverà le spalle
Sarà la compagnia malvagia e scempia,
Con la qual tu cadrai in questa valle;
Che tutta ingrata, tutta matta ed empia,
Si farà contra te; ma poco appresso
Ella non tu n'avrà rotta la tempia
Di sua bestialitade il suo processo
Farà la pruova, sí che a te fia bello
L'averti fatta parte per te stesso.
(_Parad._ XVII, 61-69).
[208] Lo nota il DEL LUNGO, (vol. I, p. 577), osservando che ciò si
ripeté piú volte dal 1301 al 1304.
[209] VILLANI, VIII, 74; DEL LUNGO, pag. 578-9.
[210] Erano soldati che, avendo nella Spagna combattuto contro i Mori,
andarono poi in diverse parti del mondo, senza voler piú tornare in
patria.
[211] VILLANI, VIII. 87.
[212] Comincia in essi dalla rubrica LXXXXIII. Vedi GIUDICI, _Storia
dei Comuni Italiani_, Vol. III, pag. 119 e segg. Firenze, Le Monnier,
1864-66.
[213] A questa legge furono nel 1307, 1309 e 1324 aggiunte, per
rafforzarla sempre piú, altre rubriche, come si vede anche dalla
già citata pubblicazione fatta dal BONAINI nell'_Archivio Storico
Italiano_, N. Serie, Tomo I, anno 1885.
[214] III, 18, pag. 326.
[215] VILLANI, VIII, 89.
[216] _Idem_, VIII, 89.
[217] _Idem_, VIII, 96.
[218] VILLANI, VIII, 96; DINO COMPAGNI, III, 20 e 21.
[219] DINO COMPAGNI, III, 20, nota 29; DEL LUNGO, Introduzione, pag.
607. Il DEL LUNGO, che ha pubblicato questi documenti, non vuol credere
che Corso favorisse allora gli esuli ed i Ghibellini, i quali del
resto non eran piú i veri Ghibellini d'una volta. La Signoria però
non avrebbe avuto nessuna ragione d'ingannare i Lucchesi, che le erano
amici, e le sue lettere sono confermate anche dai fatti precedenti, che
abbiamo narrati.
[220] VILLANI, VIII, 100.
[221] VILLANI, VIII, 118, 119.
[222] COMPAGNI, _Cronica_, III, 35, nota 26.
[223] VILLANI, IX, 10.
[224] VILLANI, IX, 11.
[225] COMPAGNI, III, 32.
[226] VILLANI, IX, 12.
[227] VILLANI, IX, 18.
[228] Vedi la lettera dei Fiorentini, 17 giugno 1311, in GREGOROVIUS,
3ª ediz. vol. VI pag. 39, nota 2.
[229] BONAINI, _Acta Enrici VII_, II, LV, LXXXVI: Firenze, Cellini,
1877.
[230] BONAINI, ibid. II, XCVIII, XCIX.
[231] Pubblicata nelle _Delizie degli Eruditi Toscani_, e piú
compiutamente dal prof. DEL LUNGO, _Dell'Esilio di Dante_, ecc., pag.
107 e seg.
[232] VILLANI, IX, 21, 24, 26, 29.
[233] _Ita quod ipsi Fiorentini possint uti, pro eorum faciendis
negotiis et mercutionibus, regno vestro, non obstantibus novitatibus
antedictis_. La lettera è del 1311, senza data di mese, accenna però al
recente arrivo d'Arrigo a Genova. Vedila in DESJARDINS, _Négociations
diplomatiques de la France avec la Toscane_. Vol. I, pag. 12 e seg.
[234] Il Vescovo di Botrintò narra la singolarissima storia delle loro
peripezie nel suo libro, _De Henrici VII imperatoris itinere italico_,
in MURATORI, R. I., recentemente ripubblicato dal dottor HEYCK in
Innsbruck, 1888.
[235] VILLANI, IX, 26-29. DEL LUNGO, pag. 632.
[236] VILLANI, IX, 33. Il premiare i Pazzi col nominarli cavalieri,
dimostra che questo titolo già cominciava a perdere il valore che
aveva avuto alla fine del secolo XIII, quando, come segno di nobiltà,
contribuiva a fare escludere dal governo. Piú tardi questo valore lo
perdette del tutto.
[237] PERRENS, vol. 3, pag. 145.
[238] Questa lettera fu scritta tra la fine del 1310 e i primi del
1311. È la V nell'edizione Fraticelli.
[239] Epistola VI nell'edizione Fraticelli.
[240] Epistola VII.
[241] GREGOROVIUS, vol. VI, pag. 40; PERRENS, III, 172; _Cronaca di
Pisa_, R. I. S., XV, 985; MALAVOLTI, par. II, lib. IV, f. 66; MUSSATO,
lib. I, rub. 10.
[242] MUSSATO in GREGOROVIUS, VI, 73, nota 1.
[243] VILLANI IX, 45 a pag. 170.
[244] VILLANI IX, 49.
[245] BONAINI, Op. cit. II, CCCLXV.
[246] GREGOROVIUS, VI, 89.
[247] Quivi, come nel codice Gaddiano, trovasi la notizia della morte
del conte Guido Vecchio, con la data del 1217, che nell'Autografo (ved.
qui appresso a pag. 233) ha invece la data del 1210.
[248] Questa data ed il nome del Papa furono aggiunti piú tardi ancora,
e si trovano solo nel codice Autografo.
[249] «Anni Domini xlv. — Beato Pietro Apostolo... mandò.... beato
Romolo a Fiesole.
«Anni Domini cij. — In questo tempo in Toscana, nella città di Firenze,
per li pagani fu edificato uno oratorio tucto di marmo, dove si
coltivava l'idoli; ed era facto a octo gheroni, et alto lxxij braccia,
tucto tondo, posto in colonne di marmo.
«Anni dxxv. — Giovanni primo nato di San Casciano del contado di
Firenze.
«Anni dlxxxvj. — Questo Maurizio imperadore venne ad hoste sopra la
città di Firenze in Toscana, e quivi fece bactaglia.
«Anni dlxxxxj. — Questi (Maurizio) venne ad hoste sopra la città di
Firenze in Toscana, e puose campo nel Chafaggio del Vescovado, presso
alla chiesa di San Lorenzo. E quivi fue preso, et sconfitta la sua
gente da' Fiorentini il dí di Sancta Reperata; e per quella Victoria
si hedificò la chiesa della beata Sancta Reparata; e da' Lamberti fu
facto il monumento nel campanile della chiesa; e fue deliberato che si
socterrasono a cavallo, però ch'elli presono il gonfalone della libertà
del Popolo contro al decto Maurizio. Poi morí in prigione nella decta
città, e fue sepulto in uno avello di marmo intagliato in figure, alla
chiesa di San Giovanni».
[250] Abbiamo già osservato che, dopo aver dato i Consoli del 1180,
torna qualche anno indietro.
[251] Questo si riferisce all'antica numerazione, giacché l'altra piú
moderna fu fatta quando i vari fogli del codice vennero messi insieme
a capriccio.
[252] Dopo del P. Ildefonso si valsero dell'elenco da lui cavato dalla
Cronica, anche il Gori ed il Lastri; il Fraticelli, nella sua _Storia
della vita di Dante_, ristampò la narrazione dei fatti del 1215.
[253] Incomincia alla pag. 220.
[254] «Comes Theatinus» in _Chronicon Martini Poloni_, ed. cit., pag.
354.
[255] La chiesa di S. Lorenzo, ch'era allora fuori delle mura.
[256] Questo è l'assedio posto a Firenze dal quarto (o terzo) Arrigo,
e non dal secondo, l'anno 1080. Potrebbe a prima giunta credersi
che nell'Autografo fosse un'aggiunta marginale, e che il copista lo
mettesse qui fuori del luogo suo. Ma dal trovarsi in seguito ricordato,
piú succintamente, il medesimo assedio anche sotto l'anno 1080, pare si
possa argomentare esser questo un anacronismo dello stesso autore.
[257] Cioè ferito.
[258] Cosí, invece di _Evandro_.
[259] Il testo ha «Terno».
[260] M. P., a p. 355: «Calendis maii, oriente sole, habeo caput
aureum».
[261] Leggi IX.
[262] di Toul (_Tullum_).
[263] Invece di «a queste» l'orig. doveva avere _a questo_, e invece di
«cose» un verbo che qui manca. M. P. (p. 357) ha «ad hoc inclinavit».
[264] Invece di _perciocché_.
[265] Qui è un salto del copista o dell'originale, che si supplisce
con la citata Cronica del P., il quale a p. 358 scrive: «... contra
Spiritum Sanctum facit. Si tu contra Spiritum Sanctum non fecisti, dic
_Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto_» ec.
[266] Cadolo o Caldolo era il nome di questo vescovo; e cosí penso
dovesse avere l'originale, e non «Calduco», come qui e appresso ha la
copia.
[267] Cosí credo dovesse avere l'originale, cioè «ed ī Campagnia», e
non «e di Campagnia», come intese il copista.
[268] Cosí il ms. invece di _Cencio_, e anche appresso.
[269] Cosí è certo che leggeva o doveva legger l'originale invece
di «avea», come scrisse il copista. Il P. (pag. 364) dice «Victoria
habita».
[270] M. P. (p. 362) dice: «quem rex Henricus pronus in terra cum
omnibus aliis mox adoravit».
[271] Il testo legge «co uiscardo», certo per errore del copista, che
prese per un _co_, con un segno d'abbreviatura sopra, la G maiuscola
dell'originale.
[272] _Sena Vetus_.
[273] Il testo: «dicano» e «subdicano».
[274] Il testo ha _Molti Orlandi_, e questa è proprio grafia
dell'originale, come appresso vedremo; una volta però corretta dallo
stesso autore, onde anche qui si corregge.
[275] Il testo ha «Carturiense».
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