I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 08

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che merita una soluzione definitiva.

DOCUMENTO[126]
(V. pag. 83)
In nomine domini amen. Liber defensionum et excusationum Magnatum
Civitatis et comitatus Florentie, qui se excusare volunt a
satisdationibus Magnatum non prestandis, receptarum per me Bax.
de Amgnetello notarium nobilis Militis domini Amtonii de Fuxiraga
de Laude, potestatis Florentie.
In anno currente Millesimo ducentesimo ottuagesimo septimo.
Ad defensionem
Absoluti { Dardoccii quondam domini Uguicionis } de Sachettis
{ Manni fratris sui } producta fuit
intentio singnata per Credo (sic), et ad ipsam
probandam producti fuerunt infradicti testes.
Baldus Brode populi sancti Stephani de Abatia, iuratus die
suprascripta de veritate dicenda. et lecta sibi intentione per
me Bax., dixit quod bene vidit dictum Dardocium et Mannum eius
fratrem facere artem cambii in Civitate Florentie, iam sunt XX
anni, et ab eo tempore citra, et credit eos fecisse. Set propter
guerram et brigam quam nunc habent, predicti fratres Dardocci
non tenent tabulam in mercato, set stat in domo sua, et ibi facet
(_sic_) artem canbii. Interrogatus si ipsi palam tenent banchum
et tapetum ante dischum domus sue sicut faciunt alii campsores,
respondit non, quia est consuetudo prestatorum et non campsorum
tenere tapetum. Interrogatus, dixit quod predictus senper cotidie
exercuit.
Lapus Benvenuti qui vocatur Borrectus populi sancti Petri Maioris
iuratus die suprascripta (?) ut supra, lecta sibi intentione per
Be., dixit quod ipse testis est consocius predictorom. Dardoccii
et fratris in arte canbii; et vidit dictum Dardoccium et fratrem
dictam artem in civitate Florentie continue [exercere], et
predictum Mannum vidit in Borgongna facere dictam artem per
decem annos et plus, quibus stetit in Borgongna; set dixit quod
predictus Dardocius[127] propter guerram quam ad presens habet,
non audet uti ipsa arte in mercato sive in pubblico, set ea
continue utitur in domo sua, et vidit ipso testis; et vox et fama
est in populo dictorum fratrum et in civitate Florentie, quod
ipsi fratres fuerunt et sunt campsores.
L. S. Ego Ruffus Guidi notarius predicta ex
actibus Communis Florentie exemplando
transcripsi, pubblicavi rogatus.


CAPITOLO IX[128]
LA REPUBBLICA FIORENTINA AI TEMPI DI DANTE

I
La Repubblica Fiorentina, dopo gli Ordinamenti di giustizia (1293) e la
cacciata di Giano della Bella, entra in un periodo di straordinaria,
quasi vertiginosa confusione. I fatti sono assai noti, perché questo
è il momento in cui comincia quella splendida serie di cronisti e di
storici fiorentini, i quali raccontano, coi piú minuti particolari,
tutto ciò che hanno essi stessi veduto. E i moderni vi sono tornati
sopra, rovistando gli archivi, massime il professor Del Lungo, il
quale recentemente ha dato prova d'una diligenza e di una dottrina
che non si potrebbero lodare abbastanza. Pure io credo che non sia
inutile provarsi a raccogliere questi fatti, ricercandone l'unità
organica, per vedere donde essi muovano, dove vadano, e cosí spiegare,
se è possibile, la causa di tanta confusione ed il significato vero
delle nuove rivoluzioni. Aggiungerò anzi che questa ricerca può
avere una grande importanza storica, perché noi siamo al tempo in
cui non solo incominciano un'arte, una letteratura ed una civiltà
nuova; ma la vecchia società medioevale si decompone e sparisce, la
società del Rinascimento incomincia a formarsi. Ed in mezzo a questi
avvenimenti sorge gigantesca la figura di Dante, che ridesta subito
una straordinaria attenzione, dà un grande valore a tutto ciò che lo
circonda.
La storia di Firenze fino al 1293, noi lo abbiamo visto e ripetuto piú
volte, è assai chiara: una serie di guerre e di rivoluzioni, con le
quali il popolo guelfo della Città, prima assale i baroni feudali e
ghibellini, che _incastellavano_ tutte le colline d'intorno, impedivano
il suo commercio, e, dopo averli vinti, demolisce i loro castelli,
obbligandoli ad abitare dentro la cerchia delle mura, sotto le leggi
del Comune. Ma allora il popolo è costretto a combattere ed abbattere
gli avanzi del feudalismo, che tentava di ricostituirsi dentro la
Città. Esso era stato già distrutto prima del 1293, lasciando dietro
di sé i Grandi, cioè nobili che erano rimasti senza titoli e senza
i loro antichi privilegi feudali. Gli Ordinamenti di giustizia che
disciolsero le loro consorterie e li esclusero addirittura dal governo,
avevano rafforzato invece le Arti ed il popolo, che fu allora padrone
di Firenze, e colla nuova legge ebbe in mano un'arme efficacissima per
continuare a perseguitare e battere i Grandi dinanzi ai magistrati. I
nomi di Guelfi e di Ghibellini duravano ancora, ma avevano perduto il
loro antico significato. La vecchia aristocrazia che aveva formato il
nucleo vero del partito ghibellino, essendo ora scomparsa, la Città era
divenuta tutta guelfa. Anche le condizioni generali d'Italia favorivano
un tale stato di cose. Infatti, con la caduta degli Svevi, col trionfo
degli Angioini, chiamati in Italia dai Papi, il partito guelfo aveva
vinto in tutta la Penisola. La morte di Corradino (1268) era stata il
funerale dei Ghibellini. La Francia trionfava sempre piú, e durante
l'interregno imperiale, Filippo il Bello assumeva quasi le parti
d'imperatore. Nello stesso tempo Bonifazio VIII dichiarava altamente,
che il Papa era superiore a tutti i principi e re della terra, i quali
dovevano, esso diceva, prestargli obbedienza.
Ma non perciò le divisioni cessavano in Firenze. E prima di tutto
v'erano nel popolo stesso germi di future discordie, perché esso
trovavasi diviso in popolo grasso o delle Arti maggiori, e popolo
minuto o delle Arti minori, alle quali teneva dietro la plebe. Le
maggiori, che facevano la grande industria, il grande commercio
d'esportazione e d'importazione, erano sempre pronte ad intraprendere
nuove guerre, le quali, opprimendo di tasse la Città, rendevano, se
non impossibile, assai difficile quel lusso interno, di cui vivevano
invece le Arti minori, che esercitavano in essa le piccole industrie.
Ci voleva poco a mutare questo conflitto d'interessi economici in un
conflitto politico, specialmente se si riflette, che le Arti maggiori
s'erano impadronite del governo, e le minori ne erano escluse.
Tuttavia, per ora almeno, il popolo minuto, sebbene numeroso e
tumultuoso, non aveva coesione, né esperienza, né capi. Ma se mancava
d'ogni vera forza politica, e non poteva ancora formare un partito,
era tuttavia materia attissima a dar forza ai partiti che si fossero
formati, che avessero saputo profittare del suo aiuto, cercando cosí di
salire al governo.
I Grandi dall'altra parte, quantunque perseguitati, oppressi, battuti,
non erano certo scomparsi, né erano senza autorità o senza accortezza.
Un esempio se n'era avuto nella cacciata di Giano della Bella, che essi
seppero riuscire un momento a far credere nemico del popolo, che di
fatti lo abbandonò, ed a sollevargli contro la plebe. Se i Grandi non
avevano piú la forza legale, avevano ancora la forza reale. Essi che
si vantavano sempre d'aver vinto a Campaldino, erano veramente quelli
che avevano in passato capitanato tutte le piú grosse guerre della
Repubblica, ed anche ora si trovano piú assai dei popolani educati alle
armi. Ricchi, nella città e nella campagna, di case, castelli e poderi,
non erano distratti dal commercio; potevano piú facilmente darsi
agli esercizi militari; e la materiale indipendenza di cui godevano,
faceva loro piú vivamente sentire l'aculeo delle passioni politiche. A
combattere il popolo grasso, era naturale che cercassero e trovassero
favore nel popolo minuto. E cosí, riuniti insieme con questo formarono
una gran massa di gente irrequieta e pericolosa; ma poco organica e
tenuta fuori del governo, perché gli uni n'erano stati cacciati nel
'93, gli altri non v'erano mai stati ammessi.

II
E qui si cominciò a vedere di che cosa fosse capace la sottile astuzia
dei Fiorentini. Quell'arte d'essere padroni dello Stato senza parere,
che piú tardi dètte, con sí grande fortuna la Repubblica in mano di
Cosimo e Lorenzo dei Medici, i quali di fatto furon principi, sebbene
restassero sempre legalmente privati cittadini; quell'arte fu trovata
ora dai Grandi. Essa consisteva nel lasciare intatte le istituzioni
repubblicane, non curandosi neppure di farne parte, cercando però
che v'entrassero solo i propri amici. Mezzo principale a ciò erano
gli uffici della Parte Guelfa, nei quali, come è noto, i Grandi erano
ammessi, e cosí potevano, col dichiarar ghibellino un cittadino, farne
confiscare i beni, ed escluderlo dal governo ogni volta che volevano.
Se dunque non entravano nella Signoria, avevano pure un modo, piú o
meno legale, per impedire che v'entrassero gli avversari piú odiati.
Giano della Bella s'era bene avvisto del pericolo, e aveva cercato di
porvi riparo; ma non arrivò in tempo, perché i Grandi riuscirono prima
a farlo cacciare.
Un altro mezzo efficace per riafferrare il potere perduto, i Grandi lo
trovavano nel cercare di riuscire ad esser padroni della scelta dei
giudici, per poi agire sopra di essi personalmente. Molti di questi
giudici, come il Podestà ed il Capitano del popolo, che dovevano essere
anche cavalieri, cioè nobili, erano forestieri insieme coi loro notai,
cancellieri e giudici subalterni. Essi decidevano non solo le cause
civili e criminali, ma le politiche ancora. Al Podestà ed al Capitano,
insieme col Gonfaloniere, spettava infatti l'applicazione degli
Ordinamenti; ed inoltre il diritto pubblico si trovava allora talmente
mescolato col privato, che non era possibile separar l'uno dall'altro.
In origine anzi il Podestà, come abbiam visto, era stato poco meno
che il capo del Comune. Comandava l'esercito, firmava i trattati di
pace; e come gli storici antichi ricordavano gli avvenimenti di Roma
sotto il nome dei Consoli, cosí i cronisti fiorentini registrarono
quelli di Firenze prima sotto il nome de' suoi Consoli, poi sotto
quelli dei Podestà. In sul finire del secolo XIII le cose erano però
mutate. Colla distruzione del feudalismo, col progresso della civile
eguaglianza e della cognizione del diritto romano, scemò la importanza
politica di quei magistrati. Podestà e Capitano del popolo andarono
sempre piú divenendo semplici giudici superiori. E però, tanto essi
quanto i loro dipendenti, ebbero sempre minore autorità, minor forza;
furono peggio pagati e meno rispettati, il che li rendeva piú facili
alla corruzione ed a cadere sotto il dominio dei Grandi. Molti di essi
venivano dalla Romagna, dalle Marche, moltissimi da Gubbio. Vissuti
sotto le tirannidi, educati col diritto romano nello Studio di Bologna,
ignoravano affatto, e spesso non riuscivano mai a capire il significato
vero della lotta dei partiti in Firenze, e quindi neppure quello di
leggi come gli Ordinamenti di giustizia, che erano sopra tutto leggi
politiche. Ciò contribuiva non poco a renderli piú facilmente ciechi
istrumenti di coloro che volevano impadronirsene. Tutta la letteratura
di questo periodo infatti è piena di sanguinose imprecazioni contro «i
tristi, i maledetti, i perversi giudici, rovina delle città».[129]
Cosí, col favore del popolo minuto e della plebe, con le ingiuste
sentenze dei Capitani di Parte guelfa, con la corruzione dei giudici
forestieri, i Grandi cercavano riguadagnare il terreno perduto, e
impadronirsi nuovamente del governo. Né era del tutto impossibile
riuscirvi, tanto piú che (come vedremo fra poco) essi avevano appunto
allora potenti aiuti di fuori. Ma occorreva che fossero uniti, quello
appunto che non era sperabile, perché essi erano composti d'elementi
non solo diversi, ma anche eterogenei. Si poteva quindi fin d'ora
prevedere che, prima o poi, la discordia sarebbe inevitabilmente e
sanguinosamente scoppiata anche nel loro seno.
Dino Compagni osserva nella sua Cronica, che «i potenti cittadini
non tutti erano nobili di sangue, ma per altri accidenti erano detti
Grandi».[130] Essi infatti si componevano di antiche famiglie nobili,
spogliate dei loro titoli e privilegi feudali; di antichi popolani,
per moltiplicate ricchezze, saliti in alto; di coloro che il popolo
dichiarava Grandi, a solo fine di punirli, escludendoli dal governo.
E gli antichi nobili, come è naturale, guardavano con diffidenza
e disprezzo questi nuovi venuti, che assai spesso (se non essi, i
loro parenti) continuavano nei traffici e nelle industrie, il che li
teneva in continue relazioni col popolo grasso, avverso al minuto,
che perciò s'avvicinava invece alla parte piú potente e aristocratica
dei Grandi. Né questo è tutto. V'erano fra di essi anche i nobili di
contado, come gli Ubertini, i Pazzi del Valdarno, specialmente poi
gli Ubaldini, che possedevano quasi tutto il Mugello, e l'occupavano
coi loro forti castelli. Fortissimo era tra gli altri quello di
Montaccenico, circondato da tre cerchi di mura, e fondato già da quel
cardinale Ottavio degli Ubaldini, che Dante pone nell'inferno, e che
disse un giorno: «Se anima è, per li Ghibellini io l'ho perduta». Tutti
questi nobili di contado serbavano assai piú vivo l'antico carattere
feudale, ed erano avversissimi al popolo, quindi alla Repubblica, che
di continuo li combatteva. Se venivano in Città, dovevano certo al pari
degli altri sottostare alle leggi comuni; ma i loro parenti ed essi
stessi, quando tornavano nei propri castelli, restavano sempre baroni
feudali.
Nel 1296 i Fiorentini, per indebolire i Pazzi e gli Ubertini, fondarono
nel Valdarno di sopra, tra Figline e Montevarchi, le due terre di
S. Giovanni e Castelfranco, nelle quali esentarono per dieci anni
dalle tasse, e liberarono dal vassallaggio tutti i fedeli dei nobili,
che vi andavano ad abitare.[131] Contro gli Ubaldini però simili
provvedimenti sarebbero stati inefficaci, e fu quindi necessaria una
guerra prolungata e sanguinosa. Questi baroni del contado avrebbero
dovuto logicamente essere imperiali e ghibellini; ma l'Impero era omai
debole e lontano, il Papa e la Francia vicini e forti. Laonde essi
s'avvicinarono invece ai Grandi guelfi di Firenze, piú specialmente a
quelli di antiche famiglie, venendo cosí a formare un nuovo elemento
in quello strano agglomerato di forze diverse. Se a ciò s'aggiungano le
gelosie private e gli odi sempre piú pronti ad infiammarsi e a divenire
irrefrenabili là dove mancano l'unità organica e l'interesse comune di
un partito bene ordinato, si capirà facilmente quanta dovesse essere la
confusione, quale il disordine.

III
Per validi che fossero gli aiuti che i Grandi, in uno o in un altro
modo, ricevevan di fuori; per minacciosi che allora divenissero,
rimaneva però sempre vero un fatto, che non bisogna mai perder di
vista, perché è quello che meglio può spiegarci la storia fiorentina
di quel tempo. Che essi cioè erano un partito destinato a scindersi, a
decomporsi ed a sparire, che aveva di fronte a sé, nelle Arti maggiori,
un partito giovane, vigoroso, unito da comuni interessi, nel quale
risiedevano invece la forza vera e l'avvenire del Comune. La storia
di questi tempi non è infatti altro, che la storia del modo in cui le
Arti Maggiori riescono, fra mille ostacoli, a divenire la Repubblica
stessa, eliminandone gli altri elementi ostili o estranei. Già da un
pezzo queste Arti, massime le prime cinque,[132] da cui le altre piú o
meno dipendevano, erano in uno straordinario incremento. E quando gli
Ordini della giustizia vennero a rafforzarle, esse nei loro Statuti,
che in quegli anni rinnovarono, espressero molto chiaramente lo scopo
commerciale e politico che avevano nell'aumentare la propria fortuna,
rendendo non solo piú ricca, ma ancora piú potente la Repubblica. Ben
presto le cinque Arti principali si collegarono in una _Universitas
Mercatorum_, che nel 1308 ebbe l'autorità di un vero tribunale di
commercio, e nel 1312 compilò definitivamente i suoi statuti. Tutto ciò
si deve anzi ritenere che fu una parte principale dell'opera promossa
da Giano della Bella,[133] quella in cui, secondato dalle condizioni
dei tempi, esso riuscí meglio, come ne fece prova la prosperità di
Firenze, divenuta in quei giorni, non ostante le continue lotte dei
partiti, prodigiosa davvero. Di tale prosperità e felicità il Villani
parla ripetutamente, aggiungendo che le feste erano allora continue,
che la Repubblica poteva mettere in armi 30,000 uomini nella Città, e
70,000 nel contado.[134] Ma quello che è ancora piú, i suoi banchieri
tenevano in mano il commercio principale del mondo, che venne inondato
dalle manifatture fiorentine. Essi facevano gli affari della Curia
romana; essi facevano quasi tutto il commercio della Francia e
dell'Italia meridionale; ad essi ricorrevano i sovrani d'Europa, che
nelle loro zecche, nelle loro amministrazioni ed ambascerie adoperavano
assai spesso qualche accorto e intraprendente Fiorentino. Cosí il
danaro d'ogni parte affluiva nella Città; ed è questo il momento in
cui si narra che Bonifazio VIII, ricevendo gli ambasciatori delle varie
potenze, e vedendo con maraviglia che erano tutti Fiorentini, esclamò:
«Voi siete dunque il quinto elemento!». La conseguenza naturale di
tutto ciò fu che la piccola repubblica divenne una potenza di primo
ordine, la quale esercitava dovunque, specialmente in Italia, un'azione
preponderante. Tutte le vicine città volevano imitare le sue leggi, le
sue istituzioni, in cui vedevano la causa di cosí mirabile prosperità;
né solo le piccole, ma anche le grandi, Roma stessa sembra ora intenta
a modellare i suoi magistrati, i suoi Consigli, il suo Comune su quello
di Firenze.[135]
E questo appunto era ciò che piú irritava i Papi, sempre in lotta
col municipio di Roma; sopra tutto poi irritava adesso Bonifazio
VIII, che sembrava deliberato a schiacciarlo, ma trovava vivissima
opposizione nella nobiltà e nel popolo, i quali non gli davano mai
pace, lo facevano andare quasi ramingo di città in città. Di un'indole
impetuosa, di un'ambizione sconfinata, egli aveva dell'autorità papale
un cosí alto concetto, che voleva dominare il mondo. Non poteva quindi
rassegnarsi alla resistenza dei Romani, e molto meno all'esempio ed
all'incoraggiamento che essi ricevevano da Firenze. Concepí quindi
il disegno di sottometterla, per farne come un feudo della Chiesa,
con un capo di sua elezione. Una volta concepito questo disegno, ci
si volse con tutto il suo solito ardore. Non mancava di certo qualche
probabilità di riuscita; ma s'urtava contro un ostacolo insuperabile,
del quale egli non si rendeva conto. La probabilità nasceva da ciò,
che Firenze, divenuta ora come una repubblica di mercanti, si trovava
poco atta alle armi. I suoi 100,000 soldati, che vantava il Villani,
erano una specie di guardia nazionale d'artigiani e contadini, poco
o punto educati alla vita militare, senza ufficiali, senza generali
che sapessero comandarli. Mancava quella cavalleria d'uomini d'arme,
della quale solo i nobili potevano avere il tempo d'educarsi a farne
parte. Ma il Comune diffidava dei nobili di città, e quelli del contado
gli erano addirittura nemici. Le compagnie di ventura, che piú tardi
s'ebbero per danaro, non si erano ancora cominciate a formare. Pure un
esercito occorreva, e sopra tutto capi i quali sapessero comandarlo, se
la Repubblica voleva mantenere in Italia la propria autorità, tutelare
il suo commercio contro la gelosia crescente dei vicini. Questa era
la ragione per la quale in passato essa aveva, a un tratto, accettato
Vicari nominati dai Papi, ed era giunta sino a dare, per dieci anni,
il supremo dominio a Carlo d'Angiò, che le mandava in fatti capitani e
soldati. Perché non poteva ora Bonifazio indurla ad un simile accordo,
in modo anche piú efficace e permanente? Il bisogno d'un capo militare
v'era oggi, come e piú che in passato; il consenso e favore dei Grandi
si potevano ritenere sicurissimi. Ma l'ostacolo insuperabile, di cui il
Papa non si rendeva conto, era che i Fiorentini avevano sempre voluto e
volevano chi li difendesse, non chi li comandasse, né in questo sarebbe
stato facile ingannarli o piegarli. Ciò a cui essi piú tenevano, a
cui non avrebbero mai rinunziato, era il governo popolare delle Arti,
quello appunto che il Papa avrebbe dovuto distruggere o sottomettere,
se voleva riuscire nel suo intento. E questo non era facile di certo.
Il problema poteva essere risoluto solamente dalla forza, ed il Papa
non era uomo da indietreggiare per ciò: una collisione diveniva quindi
inevitabile. A rendere poi sempre piú intricato un tale stato di cose,
s'aggiungeva che questa Repubblica, contro cui Bonifazio VIII assai
irritato ora si volgeva, era guelfa e voleva restar tale, né solo per
sentimento o antica tradizione, ma piú ancora per interesse. Essa
infatti s'era costituita combattendo per secoli i nobili e potenti
ghibellini, sulle cui rovine aveva finalmente fondato il governo
delle Arti, ed a ciò aveva contribuito non poco il trionfo degli
Angioini chiamati dai Papi. Il suo principale commercio, quello da cui
venivano la sua forza e la sua potenza, era colla Francia, coll'Italia
meridionale dove erano gli Angioini, e con Roma. Non poteva quindi,
in nessun modo, pensare a farsi nemici il re di Francia, il Papa e gli
Angioini, che erano allora uniti. Il partito ghibellino si trovava poi
in Toscana rappresentato da tutte le città nemiche di Firenze. Siena,
Arezzo, Pistoia v'inclinavano piú o meno apertamente. La repubblica
di Pisa, che con tanto ardore aveva aiutato l'impresa di Corradino,
teneva sempre alta e spiegata la bandiera di quel partito. Ed essa
era l'eterna rivale di Firenze, alla quale voleva chiudere il mare,
di cui questa aveva piú che mai urgente bisogno. La guerra fra loro
era tale che doveva assolutamente finire con la distruzione dell'una
o dell'altra repubblica. E cosí i Fiorentini si trovano costretti ad
essere amici del Papa, ed a combatterlo nello stesso tempo. Che la loro
storia riesca, in tali condizioni, complicata e difficile, può capirlo
ognuno.

IV
Dopo la cacciata di Giano della Bella i Grandi parvero un momento
tornati padroni della Città; ed il loro animo crebbe a dismisura,
quando il 16 giugno del '96 riuscirono a fare eleggere una Signoria
composta tutta di loro amici. Ai primi di luglio essi già s'erano
messi fra loro d'accordo, e scesero addirittura armati in piazza. Ma il
popolo fece lo stesso, ed in numero anche maggiore, sicché si era già
sul punto di venire alla guerra civile, quando fortunatamente alcuni
frati ed alcuni cittadini, messisi di mezzo, riuscirono a pacificare
gli animi. Nondimeno la Signoria, che era amica dei Grandi, volle
profittare della occasione, e fece vincere il 6 luglio '95 quella
provvisione cui abbiamo piú sopra accennato, la quale fece parte degli
Ordinamenti, che modificava, attenuandoli non poco.[136]
Alcune di queste attenuazioni erano di pura forma, altre erano però di
sostanza. Autori principali dei delitti puniti dagli Ordinamenti, non
furono piú come nel passato tutti coloro che v'avevano preso parte; ma
si riconosceva un solo _Capitaneus homicidii_. A provare il delitto
non bastavano piú due testimoni di pubblica fama, ma ne occorrevano
invece tre. E finalmente, per entrare a far parte della Signoria, non
era piú necessario che i candidati esercitassero effettivamente l'arte,
_continue artem exercentes_; bastava che fossero semplicemente ascritti
ad essa, _qui scripti sint in libro seu matricola alicuius artis_.
Questa ultima concessione era in realtà minore che non pareva, perché
anche prima l'esercizio _effettivo_ dell'arte era stato assai spesso
piú apparente che reale. Ma il principio per cui s'era combattuto
veniva abbandonato, e se si pongono insieme le varie concessioni fatte
nel '95, si vedrà chiaro che la nuova legge fu veramente una vittoria
dei Grandi. Infatti grandissimo si dimostrò per essa lo scontento del
popolo, ed il Villani ci dice, che i Signori i quali la proposero e la
fecero vincere, vennero, nell'uscire d'ufficio, derisi, insultati, col
tirar loro persino delle sassate nella pubblica via.[137] E ne seguí
addirittura una reazione popolare, che fu il germe di nuove e gravi
discordie cittadine. Si cominciò col levare ai Grandi alcune delle loro
armi; e poi quelli fra di essi che erano tenuti meno faziosi, vennero
dichiarati di popolo, per indebolire cosí il loro partito.[138] Inoltre
si cominciarono ben presto a fare altre leggi, che rafforzarono da capo
gli Ordinamenti, procedendo sempre piú oltre per questa via, fino alla
creazione d'un nuovo magistrato, che, come vedremo, fu esclusivamente
destinato ad assicurarne la rigorosa esecuzione. Ma tutto ciò non poté
seguir senza nuove divisioni e senza spargimento di sangue cittadino.
Questo infatti è il momento in cui non solo s'inasprí la divisione fra
Grandi e popolo, ma i primi si divisero in due partiti, quelli cioè
che persistevano a voler distruggere gli Ordinamenti, e quelli che di
ciò abbandonavano il pensiero. I due nuovi partiti presero nome da due
famiglie che li capitanarono, i Donati cioè ed i Cerchi. Questi ultimi
erano gente venuta su di piccolo stato, ma fra i piú ricchi mercanti
del mondo. Vantavano numerosa parentela, molte amicizie, vasti possessi
in campagna ed in città, e menavano gran vita. Avevano recentemente
comprato i molti palazzi dei conti Guidi, stati già fra i piú antichi
nobili di Firenze; nelle proprie case, in S. Procolo, alloggiavano la
Signoria stessa, che ancora non aveva un suo palazzo, e cosí restava
ad essi piú facilmente tenuta ed amica. Il Villani, che era del partito
avverso, li chiama «morbidi, innocenti e salvatichi». Non erano infatti
gente data alle armi, ma al commercio, né molto rotta ai maneggi
politici. Il nome di salvatichi veniva loro dalla modesta origine, e
lo stesso Dante chiama selvaggia la loro parte, che fu anche la sua.
Questa origine ed il continuare essi nell'esercizio della mercatura,
faceva loro incontrar simpatia e favore nel popolo, favore che crebbe
sempre piú quando si dimostrarono avversi ai Donati.[139] Né meno delle
ricchezze e della larga parentela giovavano ad essi i modi cortesi.
I Donati, invece, che il Villani chiama «gentili e guerrieri», erano di
antica origine feudale. E Messer Corso loro capo era un uomo audace,
manesco, accorto, non molto ricco, ma pure ambizioso e superbo in
modo, che non sapeva tollerare uguali, massime poi fra i mercatanti
arricchiti. Lo chiamavano il Barone, ed il Compagni, che parteggiava
pei Cerchi, dice che, quando passava per le vie a cavallo, pareva «che
la terra fosse sua». A lui facevano capo molti Grandi della città e
nobili del contado, principali fra di essi i Pazzi del Valdarno di
sopra. Né mancavano anche mercatanti, fra i quali sono da annoverare
gli Spini, che avevano banco a Roma, dove facevano gli affari della
Curia e del Papa, col quale avevano perciò grande entratura. Dal
popolo grasso erano odiati, ma trovavano invece favore nel minuto, che
acclamava per le vie il Barone. Al quale, se assai giovavano, nella
lotta cui già s'apparecchiava, l'audacia e l'accortezza, noceva non
poco la sua superbia, che allontanava molti da lui, respingendoli verso
i Cerchi. Lo detestavano fra gli altri i Cavalcanti, e sopra tutti il
giovane Guido, gentile poeta, ardito cavaliere, che gli era divenuto
mortale nemico, a segno tale che non si potevano scontrare per via
senza metter mano ai ferri. I Donati si facevano valere in città piú
specialmente col favore dei Capitani di Parte; i Cerchi invece col
favore della Signoria. Cosí il Palazzo della Parte e quello dei Priori
erano come i quartieri generali dei due campi avversi. Le due famiglie
si trovavano inoltre vicine nei loro possessi in campagna ed in città.
Ambedue avevano case nel sesto di S. Piero, che per le continue zuffe
fu chiamato allora il Sesto dello Scandalo. Tutto dava esca al fuoco.
Le parole venivano da una parte all'altra riferite, esagerate. Quando
Corso alludeva a Guido Cavalcanti, lo chiamava Guido Cavicchia; quando
alludeva a Vieri de' Cerchi, che era il capo della famiglia e della
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