I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 06

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per lui, nel caso in cui questi fosse fuggito o avesse con qualche
indebito artifizio saputo eludere la legge.[71] Tali precisamente e
non altri sono i principi sui quali si fondano anche gli Ordinamenti
di Giustizia, che non si possono perciò in nessun caso ritenere opera
personale di Giano della Bella, essendo invece una conseguenza logica,
un resultato naturale, inevitabile delle rivoluzioni, delle istituzioni
e delle leggi precedenti. In gran parte anzi essi non fanno altro che
raccoglierle ed ordinarle, rendendo piú chiaro e visibile il loro scopo
antico e costante.

V
Giano della Bella era un uomo d'azione, non un legislatore né un
politico. Nobile di origine, aveva combattuto a Campaldino, dove ebbe
ucciso il suo cavallo; s'era poi dato al partito popolare, secondo
che si diceva, per una contesa avuta in san Piero Scheraggio con
Piero Frescobaldi, il quale sarebbe giunto a mettergli le mani sul
viso, minacciando di tagliargli il naso.[72] Vero o no che sia il
fatto, certo egli era di carattere violento, di molto ardire, di poca
prudenza, e disinteressato amico della libertà; ma non punto scevro
dalla passione della vendetta, di che anzi veniva accusato dagli stessi
suoi ammiratori. «Uomo virile e di grande animo (dice il Compagni) era
tanto ardito, che lui difendeva quelle cose che altri abbandonava,
e parlava quelle che altri taceva, e tutto faceva in favore della
giustizia contro ai colpevoli, e tanto era temuto dai rettori, che
temeano nascondere i maleficî».[73] — «Egli era (dice il Villani) il
piú leale e diritto popolano e amatore del bene comune, che uomo di
Firenze, e quegli che mettea in Comune e non ne traeva. Era presuntuoso
e voleva le sue vendette fare, e fecene alcuna contro gli Abati suoi
vicini, col braccio del Comune»,[74] di che il buon cronista gravemente
lo biasima. Mandato Podestà a Pistoia, s'era subito gettato in mezzo ai
partiti, perseguitando alcuni e favorendo altri, con tanto ardore, che
invece di calmarli, come era suo debito, li accese maggiormente, tanto
che non potette neppur compiere il tempo dell'ufficio suo.[75] Tutta la
condotta di lui in Firenze, noi lo vedremo, dimostra che esso era un
uomo di poca prudenza e di grande impeto. Furono anzi queste passioni
appunto, che ne fecero non già un legislatore, ma un capopopolo, un
implacabile nemico dei Grandi.
Dopo la battaglia di Campaldino, questi dimostravano una maggiore
audacia ed una superbia crescente. — Siamo noi, essi dicevano
continuamente, che demmo la sconfitta in Campaldino, e voi ci volete
ora disfare. — Volevano invece primeggiare e comandare, ed ogni giorno
ingiuriavano o ferivano qualche popolano. Né le leggi bastavano, a
punirli, perché gli offensori non si trovavano mai; venivano nascosti,
e nessuno voleva o osava fare testimonianza contro di essi. Un popolano
era circondato, assalito, riceveva una pugnalata, e l'autore del
delitto non era visto da nessuno. Un altro era tirato in mezzo alle
case d'una consorteria, malmenato, picchiato, collato alla fune,
e tutto quello che ivi seguiva rimaneva un mistero. Si condannava
ad una multa qualche Grande, e subito egli dichiarava di non aver
nessuna proprietà individuale, di non aver sodato per negligenza
sua o dei magistrati,[76] ed i parenti facevano lo stesso discorso.
Bisognava dunque richiamare in vigore, rafforzare le antiche leggi,
venire a nuovi e piú duri provvedimenti. Cosí finalmente i Priori,
che si trovavano in ufficio dal 15 dicembre '92 al 15 febbraio '93,
spinti dalla opinione popolare, che era guidata da Giano, dettero
commissione a tre cittadini, Donato Ristori, Ubertino della Strozza e
Baldo Aguglioni di stendere una nuova legge, la quale, provvedendo ai
pericoli presenti, desse per l'avvenire un piú stabile assetto alla
Repubblica. Il 10 gennaio, essendo già pronta la legge, il Capitano del
popolo radunava il Consiglio dei Cento, proponendo che si chiedesse
agli opportuni Consigli la balía[77] di proclamarla, quando fosse
stata approvata dai magistrati e da alcuni savî cittadini. Vi fu chi
propose invece che si leggesse e discutesse prima nei Consigli; ma
cosí si correva rischio di non venir mai a capo di nulla. Prevalse
quindi il partito piú pratico, e fu con 72 voti contro soli 2, deciso
di concedere la chiesta balía. Il 18 gennaio la nuova legge, chiamata
_Ordinamenti_ o _Ordini della Giustizia_, fu promulgata in nome del
Podestà, del Capitano e dei Priori, sentite prima le Capitudini delle
21 Arti,[78] ed alcuni savi cittadini. Tutto fa credere che fra questi
fosse anche Giano della Bella; ma, sebbene gli storici lo dieno come
autore e promotore della legge, perché fu esso che guidò il popolo e
costrinse la Signoria, pure non si trovava allora al governo, né il
suo nome apparisce negli atti ufficiali in modo alcuno.[79] Tanto fu
lontano dall'essere il vero e solo autore o compilatore della legge.

VI
Ma che cosa sono dunque questi Ordinamenti? Per rispondere a una tale
domanda, bisogna mettere da parte gli storici ed esaminare la legge
stessa. Se non che, noi ne abbiamo molte compilazioni antiche, le quali
sono tra loro cosí diverse, che in una trovansi solo 22 rubriche, in
altre piú di cento. È necessario quindi, prima di tutto, determinare
quale di esse è la primitiva e genuina, fatta il 18 gennaio '93,
perché solamente su questa possiamo fondare un giudizio sicuro, e però
solamente da essa dobbiamo prender le mosse.
Queste compilazioni cosí diverse arrivano al numero di sei, quattro a
stampa, e due ancora inedite. Noi possiamo subito metterne da banda
due, perché non fanno al nostro scopo. Una è quella che si trova
nella compilazione generale degli Statuti fiorentini, fatta nel 1415
per opera di Bartolommeo Volpi e Paolo de Castro, pubblicata per le
stampe verso la fine del secolo XVIII, colla falsa data di Friburgo
(1778-83). In essa sono riunite leggi di tempi diversissimi, senza
ordine cronologico, e gli Ordinamenti vi si trovano, ma alterati da
tutte le modificazioni posteriori, accumulate anch'esse alla rinfusa.
Per lo storico dei tempi di Giano della Bella, una tale raccolta non
può essere utile, perché non dà nessuna sicura garanzia. E cosí anche
dobbiamo porre da banda una miscellanea, che si trova nell'Archivio
fiorentino, e che, come dice il Bonaini, è un _grosso zibaldone_, in
cui sono leggi disparate, di varî tempi e di varia indole, qualcuna
delle quali afforza o modifica gli Ordinamenti di giustizia. Essa può
quindi avere importanza per la storia degli Ordinamenti, ma non dà
nessun aiuto a trovarne la forma primitiva.
Restano cosí quattro compilazioni, delle quali una sola è inedita.
Esaminandole, si vede subito che quella pubblicata dal Bonaini, non
ha che 22 rubriche, l'ultima delle quali, la conclusione generale, è
mutila; le altre compilazioni ne hanno assai piú, ma in esse i veri
e proprî Ordinamenti del gennaio 93 sono contenuti sempre nelle prime
28 rubriche.[80] Infatti dalla ventinovesima in poi cominciano giunte
e leggi posteriori, che portano assai spesso la loro propria data, e
furono unite agli Ordinamenti, perché li modificano, li rafforzano, li
rendono piú miti o trattano materie affini. È la vicenda che piú o meno
subirono tutte quante le leggi, tutti gli Statuti della Repubblica. In
questo modo adunque le grandi divergenze delle diverse compilazioni si
riducono in assai ristretti confini, per ciò che s'attiene ai primi
Ordinamenti. Restano tuttavia de' dubbî, perché non solo abbiamo da
un lato 22 rubriche, e da un altro 28; ma esse differiscono fra di
loro in varî punti. Cominciamo dunque dal notare, come la piú antica
compilazione è senza dubbio quella che il Bonaini pubblicò nel 1855,
da un codice originale dell'Archivio di Stato. Egli credette d'aver
trovato la redazione primitiva degli Ordinamenti; ma pure, diligente
com'è, preferí chiamarla _prima bozza_, perché non è veramente la
legge stessa, approvata e promulgata dai Magistrati, secondo che
l'Hegel ha poi dimostrato.[81] Il codice è antichissimo; si può anzi
ritenere dei tempi di Giano della Bella. Infatti, in una intestazione,
che fu prima messa, poi cancellata, trovasi la data, 1292 _de mense
ianuarii_.[82] (s. n. 1293). Vi manca la formula con cui s'intestavano
tutte le provvisioni della Repubblica, e nella quale si ponevano, non
solo la data e il titolo, ma qualche volta anche i nomi dei magistrati,
che promulgavano la legge. Il codice, in piccolo formato, è pieno di
cancellature, pentimenti, aggiunte scritte da mani diverse; e spesso
tra una rubrica e l'altra sono spazî vuoti, lasciati per dar luogo
appunto alle aggiunte o correzioni possibili. Tutto fa chiaramente
vedere che in questo antico Codice abbiamo solo la bozza della legge,
quale fu compilata, per ordine dei magistrati, dai tre cittadini piú
sopra nominati, senza che questa avesse ancora ricevuto la sua forma
definitiva, né la sanzione legale di coloro che dovevano discuterla ed
approvarla, prima che potesse essere promulgata. Non possiamo perciò
dire con certezza, se e quali modificazioni essa poté subire.
Ma se questa bozza è alquanto anteriore alla vera e propria legge, le
altre compilazioni che abbiamo di essa son tutte posteriori, e quindi
possono avere giunte e modificazioni fatte piú tardi. Esaminando
cosí la compilazione latina, pubblicata dal Fineschi nel 1790,
come quella italiana che fu pubblicata dal Giudici nel 1853, cavate
ambedue da codici antichi ed autentici, troviamo nell'una e nell'altra
tutti quanti i caratteri d'una legge legalmente promulgata. Ambedue
cominciano con la formula ufficiale, e hanno la data del 18 gennaio
92 (s. n. 93). Guardando alle rubriche aggiunte nella seconda di esse
(italiana), che è molto piú lunga, si trovano diverse date, una delle
quali del 1324; la prima invece (latina) non ha nessuna data posteriore
al 6 luglio 1295. Questa è dunque la piú antica delle due, e le poche
divergenze che osserviamo anche fra le sue prime 28 rubriche, e quelle
della compilazione italiana, debbono di certo derivare da modificazioni
posteriormente introdotte in questa. Tuttavia anche le prime rubriche
della compilazione latina han dovuto subire modificazioni, anteriori
però al 6 luglio '95. Nella rubrica VI troviamo infatti che il numero
dei testimoni, il quale restava indeterminato nella bozza (rub. V), è
portato a tre nelle due compilazioni posteriori, il che (come vedremo)
si può coi documenti provare che fu deliberato nel luglio '95. Possiamo
dunque in conclusione affermare, che di queste due compilazioni degli
Ordinamenti, la latina, cioè la piú antica, ce li presenta nella
forma che ebbero nel luglio '95; l'italiana, invece, sebbene sia
una traduzione, che dall'esame del codice può dirsi ufficiale, ha in
qualche punto subito modificazioni anche posteriori al '95. Se poi,
tenendo conto solamente delle loro prime 28 rubriche, le paragoniamo
con la bozza del Bonaini, troveremo che, salvo la mancanza in questa
di sei rubriche, quasi tutte di assai poca importanza, le altre
divergenze sono piú di forma che di sostanza. In ogni modo, quando le
tre redazioni vanno fra loro d'accordo, possiamo essere certi d'avere
la legge sanzionata il 18 gennaio '93, nella forma stessa che ebbe
allora; quando invece troviamo delle divergenze, bisogna, prima di
poter arrivare a qualche conclusione certa, aiutarsi col soccorso
dei cronisti e di nuovi documenti, se ve ne sono. Con queste norme
procediamo dunque all'esame della legge.[83]

VII
Che cosa dunque ci dicono, che cosa sono questi Ordinamenti di
giustizia nella loro forma originale? Essi portano nella Repubblica
un mutamento politico e sociale, col manifesto intento di promuovere
l'uguaglianza civile, dare maggiore unità al governo, maggior forza
alle Arti; assicurare l'unione e la concordia del popolo; metter
freno all'albagia dei Grandi. La riforma piú propriamente politica si
restringe a dare norme sicure per la elezione dei Priori, ai quali
è aggiunto un nuovo e piú autorevole magistrato, il Gonfaloniere di
giustizia, che siede con essi.
I sei Priori in ufficio, invitati dal Capitano del popolo, radunavano
per mezzo suo le Capitudini, ossia i Consoli delle 12 Arti maggiori, e
i savi cittadini, che credevano richiedere, per deliberare con loro sul
piú opportuno e sicuro modo di scegliere i propri successori. I quali
dovevano essere ascritti nella matricola di un'Arte ed esercitarla,
questo essendo il modo piú sicuro di provare, che non appartenevano
a famiglie di Grandi, che era sempre il punto essenziale. Infatti chi
fosse rimasto ancora dei Grandi, sebbene esercitasse l'Arte, non poteva
entrare nella Signoria.[84] Si poteva, con sottili ed anche sofistiche
interpetrazioni, transigere sull'esercizio effettivo dell'Arte, non
mai però sull'essere realmente fuori dell'aristocrazia.[85] Lo stesso
Giano della Bella, che aveva appena, come dice il Villani, qualche
interesse commerciale in Francia, di nobile fattosi popolano, poté
nel febbraio '93 essere dei Signori. Nel luglio del '95, come vedremo,
furono modificati gli Ordinamenti, e bastò addirittura essere ascritto
all'Arte, senza di fatto esercitarla, richiedendosi però sempre che
non si fosse dei nobili. Seguivano molte prescrizioni destinate a dare
equa parte negli uffici a tutti quanti i Sesti della Città, a tutte le
Arti, vietandosi che vi fossero piú Priori d'un medesimo Sesto, d'una
medesima Arte o famiglia. Chi usciva d'ufficio aveva divieto a tornarvi
per due anni, e cosí pure avevano divieto i suoi parenti. L'ufficio
dei Priori durava due mesi; non si poteva chiedere né brigare, e non si
poteva neppure ricusare. Essi sceglievano, per abitarvi, una casa nella
quale vivevano e mangiavano insieme, senza potere accettare inviti o
dare udienze private.[86]
Si veniva poi alla elezione del nuovo magistrato, cioè il Gonfaloniere
della Giustizia. Esso era eletto ogni due mesi, d'un Sesto sempre
diverso della Città, dai nuovi Priori, dal Capitano e dalle Capitudini,
piú due Savi per Sesto. Era in tutto pareggiato ai Priori, salvo che
aveva divieto d'un anno invece di due; viveva con essi qual _primus
inter pares_; aveva, come essi, l'onorario di dieci soldi al giorno,
comprese anche le spese, per il che si poteva dire un ufficio gratuito.
Avendo però dalla legge maggiori attribuzioni, ben presto divennero
di necessità il capo della Signoria.[87] A lui si consegnava, in
pubblico Parlamento, il Gonfalone del Popolo, donde veniva il nome
di Gonfaloniere, ed aveva a propria disposizione 100 pavesi o scudi,
25 balestre con quadrella, i quali servivano a meglio armare alcuni
dei 1000 popolani scelti ogni anno, per essere agli ordini suoi,
del Capitano e del Podestà, e provvedere cosí al buon ordine ed alla
esecuzione delle nuove leggi.[88] Non poteva esser parente dei Priori
in ufficio. La creazione di questo nuovo magistrato viene di certo a
provare chiaramente, che si sentiva già il bisogno di dare maggiore
unità e capo al governo. La gelosia repubblicana però non permise
allora d'andar oltre una semplice apparenza. E quindi il Gonfaloniere
non fu che il piú autorevole fra i Priori, mutabile al pari di essi; ma
in certe occasioni poteva direttamente disporre de' popolani armati, il
che aumentava di certo la sua autorità.
Venendo ora a quella parte degli Ordinamenti, che aveva un carattere
assai piú sociale che politico, noteremo innanzi tutto, che da essi
ha origine la definitiva costituzione delle Arti in Firenze, le quali
ben presto formarono o rinnovarono i propri statuti; ed essi ancora
ne fissarono il numero normale, il quale d'allora in poi rimase
sempre fermo a 21.[89] La prima rubrica infatti ordinava che le Arti
facessero solenne giuramento di mantenere l'unione e la concordia del
popolo. La seconda annullava e proibiva severamente tutte quante le
_compagnie, leghe, promesse, convegne, obbligazioni e sacramenti_,
ossia tutti gli accordi fra i popolani, non preveduti o permessi dalle
leggi, contrari o estranei alla costituzione delle Arti stesse. Al
procuratore ed agli stipulatori di simili accordi si minacciava perfino
la pena del capo; e l'Arte in cui l'accordo avesse avuto luogo, doveva
pagare mille lire; cinquecento dovevano pagarne i suoi Consoli ed il
notaio che avesse compilato l'atto.[90] Da tutto ciò si vede chiaro
che non si trattava solo, come fu affermato e creduto, d'una legge di
vendetta contro i nobili; ma si voleva anche riordinare la Città ed il
governo, costituendo fortemente le Arti, dando ad esse nuova importanza
politica. L'abbassamento dei Grandi formava tuttavia uno degli scopi
principali della legge. Vediamo dunque quali erano le disposizioni a
ciò destinate.

VIII
Prima di tutto, era necessario, per punire i Grandi delle loro continue
offese contro i popolani, obbligarli a sodare, cosa che molti di essi
avevano saputo, in onta alle leggi, evitare. Le pene per la maggior
parte dei delitti erano pecuniarie, e chi non aveva sodato, facilmente
poteva trovar modo di sfuggirle con una o un'altra scusa: ciò si
voleva con gli Ordinamenti impedire.[91] Essi richiamavano quindi
in vigore le antiche leggi, già troppo spesso violate. «Ancora, per
ischifare molti inganni, li quali per alquanti piú Grandi e nobili
de la Cittade e del contado di Firenze, sono commessi cotidianamente
intorno a' sodamenti li quali per loro si fanno o debbonsi fare, per
la forma e secondo la forma del Costituto del Comune di Firenze, posto
sotto la rubrica: _De le securtadi che si debbono fare da' Grandi
de la città di Firenze, e comincia quello capitolo: Acciò che la
isfrenata specialmente de' Grandi_, etc. proveduto e ordinato è,[92]
etc.» Tutti i Grandi, adunque, i quali erano già notati nel sopradetto
Costituto, e dei quali si fece allora nuova lista, dovevano dai 15
ai 70 anni, senza eccezione, sodare per lire duemila, somma a cui
vediamo generalmente ammontare le piú gravi pene pecuniarie, oltre la
confisca di cui soleva allora farsi uso ed abuso. Se qualcuno di essi
era dell'Arte, ciò non bastava ad esentarlo dall'obbligo del sodare; ad
ottenere un tale vantaggio era necessario, che a tutta la famiglia, per
una qualche ragione, anche per sola tolleranza, fosse stato concesso,
durante cinque anni almeno, di non sodare, o che l'avessero dichiarata
addirittura _francata_. In questi casi essa era ritenuta come davvero
popolare, con tutti quanti i vantaggi che ne derivavano. Ai piú poveri
si poteva dai Signori alleviare il sodamente, ma questo era ciò che
dava poi occasione a parzialità ed a frodi.[93] I sodamenti, continuava
la legge, saranno fatti nel mese di gennaio, o al piú nel febbraio; se
qualcuno si ricusa o ritarda in qualunque modo, verrà bandito, ed in
sua vece saranno obbligati i parenti piú prossimi in linea maschile.
Commettendosi il maleficio da chi non ha sodato, la pena ricadrà sui
parenti. Se poi si tratta di pena capitale, ed il colpevole fugge, i
parenti allora, invece delle duemila lire del sodamento, ne pagheranno
tremila. Quando però fra questi parenti vi siano nimicizie di sangue,
cesserà l'obbligo di sodare l'uno per l'altro. Ciò prova chiaro che,
cessando la comunanza degl'interessi e l'alleanza delle passioni, la
legge non richiedeva piú la responsabilità collettiva dei parenti o
consorti, il che fa sempre meglio vedere quale era lo scopo cui essa
mirava.[94]
Solamente quando i membri delle consorterie agivano in comune,
come se formassero davvero una persona sola, la legge, che voleva
disfar le consorterie, dichiarava gli uni responsabili degli
altri, ed obbligava l'un socio a sodare ed a pagare per l'altro.
Ma è sempre una pena pecuniaria, ed anche questa tra certi limiti,
quella che ricade sui parenti, perché essa sola è come imposta alla
consorteria collettivamente. Ciò spiega che cosa significassero le
parole del Compagni e del Villani, quando dicevano che, secondo gli
Ordinamenti, «l'un consorto era tenuto per l'altro».[95] E si vede
come erroneamente, o almeno assai esageratamente le interpretasse il
Machiavelli, quando disse in termini generali: «obbligavansi i consorti
del reo alla medesima pena che quello»;[96] e come s'ingannassero i
moderni nel ripetere una interpretazione, che si trova contraddetta
dagli Ordinamenti stessi, i quali altrimenti sarebbero in opposizione
con la cultura dei tempi, e con i piú fondamentali principî d'ogni
diritto. Ciò che essi fecero davvero contro i Grandi, si può ridurre
a due punti principali: richiamare in vigore e rendere piú severe le
leggi, che li escludevano dagli uffici, e li obbligavano a sodare
ed a pagare l'uno per l'altro; aggravare le pene contro di loro,
«raddoppiando le pene comuni diversamente», dice il Villani.[97]
Vediamo ora quali erano queste pene cosí aggravate.
Se un Grande, dicono gli Ordinamenti, uccide o fa uccidere un popolano,
tanto il Grande come l'esecutore del delitto saranno dal Podestà
condannati a morte; i loro beni disfatti e confiscati.[98] Se fuggono,
saranno condannati in contumacia, oltre la confisca; il mallevadore
pagherà, nonostante, la somma per cui ha sodato, con diritto di
rivalersene poi sui beni confiscati e disfatti del contumace. Tutti gli
altri Grandi i quali, senza essere direttamente autori del maleficio,
vi avevano preso parte, venivano condannati in lire duemila; non
pagandole, si confiscavano loro i beni, e s'obbligavano i parenti o
mallevadori a pagare. Quando si trattava invece d'una grave ferita,
l'esecutore del delitto e colui che aveva istigato a commetterlo,
venivano condannati in lire duemila. Ricusando di pagar la pena, era
ad essi mozza la mano; sfuggendo alla giustizia, i loro beni venivano
disfatti e confiscati, i mallevadori costretti a pagare, potendo al
solito rivalersi sui beni confiscati. Scemando la gravità dell'offesa,
scemava la pena. In ogni modo, i colpevoli avevano per cinque anni
divieto da ogni pubblico ufficio. A provare il delitto, se si trattava
di morte, bastavano il giuramento dell'offeso o del suo prossimo
parente, e due _testimonî di pubblica fama_; non era cioè necessario
che fossero testimonî oculari. Questa era la parte della legge che piú
offendeva i Grandi. In generale essi si curavano poco della minaccia
di pene anche severissime, sperando sempre di poterle sfuggire. Invece
molto s'impensierivano, andavano anzi in furore, quando si provvedeva
ai modi di eseguire rigorosamente le condanne. E tale era appunto
il principale scopo, il carattere vero degli Ordinamenti. Tutto il
giudizio da essi ordinato procedeva in modo sommario, quasi di legge
stataria, dando molto peso alla voce pubblica, che in mezzo alle
passioni dei partiti non era certo guida sicura. La stretta unione
delle consorterie, aveva reso assai difficili, se non impossibili,
i procedimenti legali. E quindi si ordinava che, commesso una volta
il delitto, il Podestà dovesse, nel termine di cinque o al piú otto
giorni, secondo la maggiore o minore gravità di esso, scoprirne
l'autore, sotto pena, ove trascurasse, di perdere l'ufficio, e di 500
lire per le offese minori. Allora però doveva provvedere il Capitano,
sotto minaccia delle medesime pene. Le botteghe si chiudevano, gli
artigiani s'armavano, il Gonfaloniere vegliava, punendo chi non era
pronto all'obbedienza. Quando invece il Podestà scopriva il reo, e si
trattava d'omicidio, esso d'accordo col Gonfaloniere faceva, senza
neppure aspettare il resultato del giudizio, sonare la campana a
martello, e, radunati i mille uomini armati, andavano a disfar le case
del colpevole. I capi delle Arti si tenevano pronti ad ogni chiamata
del Capitano. Se si trattava invece di minori delitti, il disfacimento
aveva luogo dopo il giudizio.[99] Ed è qui da notare che questi
disfacimenti non solevano mai arrivare ad una totale distruzione,
giacchè Gonfaloniere e Podestà, massime pei delitti minori, si ponevano
d'accordo sulle proporzioni che credevano darvi.[100]
Erano minacciate pene assai severe cosí agli offesi che non
denunziavano il maleficio,[101] come a coloro che facevano false
denunzie.[102] Quando un popolano s'intrometteva nelle zuffe dei
Grandi, e ne toccava, o quando si trattava di contese tra servitore
e padrone, allora non avevano esecuzione gli Ordinamenti, ma tornava
in vigore la legge comune.[103] Seguivano altre disposizioni circa le
ingiuste occupazioni, che i Grandi facevano dei beni dei popolani,
gli ostacoli che ponevano alla riscossione delle loro rendite, e si
determinavano le pene pecuniarie in 1000 o 500 lire, con le norme
consuete.[104] Al Grande condannato era vietato di fare accatto o
colletta per trovare il danaro, giacché allora sarebbe stato piú facile
far le vendette in comune, e poi sottoscriversi fra molti per pagare.
E però il Grande che faceva l'accatto, veniva condannato in lire 500;
quelli che andavano raccogliendo per lui il denaro, e quelli che lo
davano, erano condannati in lire 100.[105]
Non si concedeva appello di sorta contro i giudizi dati in forza degli
Ordinamenti,[106] perché questi erano superiori ad ogni statuto, e non
potevano essere prorogati, né sospesi o alterati, sotto gravi pene,
determinate nella _Conclusione generale_.[107]

IX
Tali furono dunque gli Ordinamenti di giustizia. Essi cercavano, come
già dicemmo, di rafforzare le Arti, dare maggiore unità al governo
ed al popolo, abbassare i Grandi, affrettare la dissoluzione delle
consorterie. Solo era a dubitarsi che una legge siffatta riuscisse
ad avere la sua piena esecuzione, e non fosse invece violata dai
Grandi, come tante altre già promulgate coi medesimi intendimenti.
Ed a questo appunto Giano della Bella cercò provvedere. Egli non era
stato compilatore degli Ordinamenti, né si trovava in ufficio quando
furono discussi e sanzionati; ma ne fu certo promotore. Poco dopo la
loro proclamazione, il 15 febbraio '93, venne eletto dei Priori; ed il
10 aprile, o sia cinque giorni prima che uscisse d'ufficio, troviamo
letta, discussa ed approvata in tutti i Consigli della Repubblica, una
nuova provvisione, intesa a _fortificare_ gli Ordinamenti dei quali poi
fece parte.
Questa legge, che risponde assai bene al carattere di Giano, uomo
d'azione e non di discussione, era semplicissima. Ai mille popolani,
posti a disposizione del Gonfaloniere di giustizia, del Capitano e del
Podestà, se ne aggiungevano altri mille, piú centocinquanta _magistri
de lapide et lignamine_ e cinquanta _piconarii fortes et robusti, cum
bonis picconibus.[108] Lo scopo di tutto ciò era ben chiaro: si voleva
davvero punire_; venire in ogni modo alle confische, al disfacimento
delle case dei Grandi, che offendevano i popolani. L'irritazione dei
nobili fu quindi grandissima, ed il loro odio contro Giano non ebbe
piú limiti. Ma egli non si spaventava; voleva anzi andare sempre piú
oltre, e mirava ad un nuovo provvedimento, che se fosse stato davvero
attuato, i Grandi eran di certo spacciati per sempre. La loro forza,
come abbiamo visto, rimaneva ancora intatta nei magistrati della Parte
Guelfa, e Giano, per abbassarli, voleva appunto torre ai Capitani di
essa «il suggello e 'l mobile della Parte, ch'era assai, e recarlo in
Comune, non perché egli non fosse guelfo e di nazione guelfa, ma per
abbassare la potenza dei Grandi».[109] Infatti, tolto che le fosse
stato il suggello, che era come il segno della propria personalità;
toltole il _mobile_ o sia il danaro, per darlo al Comune, essa sarebbe
stata disfatta, o almeno assai indebolita, e i Grandi avrebbero perduto
cosí l'ultima fortezza in cui s'erano ricoverati. La proposta di
Giano trovava poi un giusto appiglio nella legge che aveva istituito
la Parte, secondo la quale a questa spettava un terzo solamente dei
beni confiscati ai Ghibellini: non avrebbe dovuto prender tutto,
come aveva fatto. Quindi si poteva con qualche giustizia obbligarla
alla restituzione dei due terzi almeno, che aveva indebitamente
usurpati. Fino a che punto Giano riuscisse nell'intento non sappiamo,
perché mancano i documenti. Da un lato gli storici accennano al
fatto,[110] dall'altro la Parte Guelfa continuò per lungo tempo ancora
a spadroneggiare. Certo il solo tentativo basta a spiegarci l'odio
crescente che s'accumulò contro di lui, e i segni che si videro subito
d'una vicina catastrofe nella Città.

X
I popolani s'accorsero allora del pericolo che minacciava, e per esser
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