I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 09

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parte, domandava: Ha oggi ragghiato l'asino di Porta? I Donati invece
erano dai loro avversari chiamati _Malefami_, quasi di mala fama,
autori di malefici.
Come e quando questi partiti assumessero il nome di Bianchi e di
Neri, non è facile dirlo con precisione, perché i cronisti non sono
in ciò molto chiari, né vanno tra loro sempre d'accordo. I due nomi
erano antichi in Firenze, come distintivi di famiglia; v'erano infatti
già prima i Cerchi bianchi ed i Cerchi neri, ma questi ultimi erano
quelli che poi divennero i capi della parte bianca.[140] I medesimi
nomi avevano allora diviso in due avverse fazioni la famiglia dei
Cancellieri in Pistoia, dove fieramente si laceravano. I Fiorentini,
che vi esercitavano molta autorità, s'intromisero fra quelle parti, per
pacificarle; ed a tal fine mandarono da quella città alcuni dei Bianchi
ed alcuni dei Neri a Firenze. I primi alloggiarono in casa Frescobaldi,
i secondi in casa d'alcuni dei Cerchi, loro parenti. Ma avvenne il
contrario di ciò che si sperava, giacché, osserva il Villani:[141] come
una pecora malata corrompe l'altra, cosí i Pistoiesi comunicarono i
loro odi partigiani ai Fiorentini, che sempre piú si divisero. Certo è
che d'ora in poi i Donati sono Neri ed i Cerchi sono Bianchi.
Questa divisione, come chiaro apparisce da quanto abbiam detto, non ha
piú nulla che fare con quella di Guelfi e di Ghibellini. Ai principi
si vanno ora sostituendo sempre piú gli odî, le passioni personali. Se
però, stando alla natura delle cose, si fosse voluto dare a qualcuno
il nome di ghibellino, questo in Firenze sarebbe di certo toccato
ora ai Donati, famiglia di origine feudale, alleata coi nobili piú
antichi nella città e nel contado. Essi avevano a loro capo Messer
Corso, il quale, morta la prima moglie, aveva condotto in seconde
nozze una giovane degli Ubertini, antica famiglia ghibellina, stata
sempre avversa al governo popolare, e pareva che egli avesse nelle
vene il sangue stesso dei tiranni di Romagna e di Lombardia. Pure fu
principalmente per opera sua, che anche ora avvenne il contrario di
quel che si poteva supporre. Divorato dall'ambizione, egli iniziò a
Roma, per mezzo degli Spini, segrete pratiche con Bonifacio VIII, il
quale credette d'avere in lui trovato finalmente il suo uomo.[142] E
tutto ciò non tardò molto a rendersi palese.

V
Che il Papa volesse allora assumere una indebita ingerenza nelle
cose di Firenze, si vide chiaro quando si cominciò in essa a parlar
di revocare l'esilio di Giano della Bella. Non solo, senza avervi
diritto di sorta, egli vi si oppose con violenza; ma il 23 di gennaio
1296, scrisse ai Fiorentini, minacciandoli addirittura d'interdetto,
se non ne abbandonavano il pensiero.[143] Allora non si sapeva però
che egli avesse già formato un disegno, e tramasse in segreto per
attuarlo; non si supponeva, che _Papa Bonifacius volebat sibi dari
totam Tusciam_,[144] come si vide piú tardi, e come si trova scritto
sopra un antico documento, che ci fa conoscere assai bene quali erano
veramente le sue mire.[145] Queste però furono abbastanza chiaramente
espresse dal cronista Ferreto, quando scrisse che Bonifazio meditava:
«faesulanum popolum iugo supprimere, et sic Thusciam ipsam, servire
desuetam, tyrannico more comprehendere».[146] Infatti già nel maggio
del 1300 il Papa aveva mandato al Duca di Sassonia, per esporgli come
le parti di Toscana si diffondessero ne' suoi Stati, e gli rendessero
impossibile andare innanzi senza sottomettere questa provincia. Sebbene
potesse farlo di sua autorità, cosí egli scriveva, pure desiderava
avere l'assenso dei principi elettori, e d'Alberto d'Austria, re
dei Romani, al quale mandava addirittura la minuta dell'atto di
rinunzia.[147] Il Donati era a parte di tali disegni, e però aveva
subito cominciato ad assumere l'attitudine di guelfissimo tra i Guelfi,
e dava nome di Ghibellini ai Cerchi, ai quali, come era naturale,
sempre piú s'andavano accostando tutti coloro che diffidavano di
Bonifazio.
Ad un tratto s'ebbe in Firenze notizia abbastanza certa delle trame,
che in segreto venivano condotte dal Donati in Roma, per mezzo degli
Spini. Messer Lapo Salterelli, un avvocato assai accorto, ma di dubbia
fede, pronto a seguire sempre il vento che tirava, si presentò con due
suoi amici[148] ai magistrati, e pubblicamente accusarono di attentato
contro lo Stato tre Fiorentini residenti a Roma, nel banco degli Spini,
tre «mercatores romanam Curiam sequentes».[149] In quel momento Corso
Donati non era a Firenze, perché si trovava a Massa Trabaria, città
dello Stato romano, ai confini di Toscana, e nella quale appunto allora
egli era stato nominato rettore dal Papa, il che aumentava i sospetti,
e faceva credere il pericolo ancora piú grave ed imminente. Non volendo
chiudere un occhio, né troppo irritare Bonifazio VIII, i magistrati
condannarono subito a gravissime multe quei tre cittadini, aspettando
nuove indagini, per procedere contro tutti gli altri, che pure dovevano
aver avuto parte nella congiura. A sopire i sospetti contro di sé, il
Papa avrebbe dovuto ora con prudenza tacere, ma la sua impetuosa natura
non gli permetteva riguardi. Andò quindi sulle furie, e con lettera del
24 aprile 1300, minacciò di scomunicare la Città, che osava condannare
_i suoi familiari_, e intimò ai tre accusatori di recarsi subito a
Roma.[150] Naturalmente non ottenne nulla, anzi Lapo Salterelli, che
era appunto allora stato eletto dei Priori, negandogli il diritto
d'ingerirsi nei fatti interni di Firenze, sollevò il conflitto di
giurisdizione. Il Papa intanto aveva fatto chiamare a Roma Vieri dei
Cerchi, per indurlo a pacificarsi col Donati, che già si trovava colà.
Ma il Cerchi, senza mostrarsi consapevole del processo, affermando
di non avere odio contro alcuno, ed adducendo altri vaghi pretesti,
ricusò di far la pace, cosa che portò al colmo l'ira di Bonifazio.[151]
Era naturale che a lui importasse molto pacificare i Grandi, essendo
il solo mezzo possibile a sottomettere il popolo. Ma appunto perciò
a questo premeva invece che stessero divisi, e quindi piú che mai
favoriva i Cerchi, e li aizzava a tutta possa contro i Donati.

VI
In tale disposizione d'animi venne quello che fu da alcuni chiamato
il fatale Calen di Maggio. A festeggiare l'entrata della primavera
del 1300, le giovani fiorentine, secondo il costume, ballavano in
Piazza Santa Trinita. La gente s'affollava e stringeva a guardare da
una parte e dall'altra. V'erano giovani a cavallo, cosí dei Bianchi
come dei Neri, che si spingevano innanzi e si urtavano. Dalle parole
si venne ai fatti, le armi balenarono, e vi furono molti feriti. A
Ricoverino dei Cerchi fu addirittura staccato il naso dal volto, ferita
che non poteva restare senza sanguinosa vendetta. E come il fatto
del Buondelmonti fu dai cronisti dichiarato causa della divisione dei
Guelfi e dei Ghibellini, cosí questo del Calen di Maggio venne da altri
ritenuto origine e causa delle parti Bianca e Nera.[152] Ma anche esso
non fu che lo scoppio improvviso di passioni da lungo tempo represse,
le quali erano state ora dalle trame del Papa riaccese. In conseguenza
di questi tumulti, si deliberò subito nei Consigli una provvisione
(4 maggio), che dava alla Signoria piena balía, per far tornare la
Città tranquilla; tener fermi gli Ordini della giustizia; tutelare
«l'antica, consueta e continua libertà del Comune e Popolo fiorentino,
la quale correva pericolo d'essere mutata in servitú, per le molte e
pericolose novità _tam introrsum, quam etiam de foris venientes_».[153]
E con queste ultime parole s'alludeva chiaramente al Papa, il quale
perciò scrisse da Anagni, il 15 maggio, al vescovo ed all'Inquisitore
in Firenze, una lettera violentissima. In essa si doleva che quei
«figli d'iniquità, per ritrarre il popolo dalla obbedienza alle Somme
Chiavi, andassero spargendo che egli voleva togliere alla città
le sue giurisdizioni, e scemarne le libertà, quando invece voleva
accrescerle». Ma poi scattava: «Non è il Papa supremo signore di
tutti, e specialmente di Firenze a lui per speciali ragioni soggetta?
Gl'Imperatori e Re dei Romani non si sottomettono forse a noi, e non
sono essi qualche cosa piú di Firenze? La Santa Sede non nominò forse,
vacando l'Impero, re Carlo d'Angiò vicario generale in Toscana? E
non fu da voi stessi riconosciuto? L'Impero è adesso vacante, perché
la Santa Sede non ha ancora approvato l'elezione del nobile Alberto
d'Austria». E cosí, con un crescendo continuo, minacciava i Fiorentini,
che se non obbedivano, «avrebbe non solo contro di essi scagliato
l'interdetto e la scomunica, ma esposto i loro cittadini e mercanti ad
ogni ingiuria; i loro beni ad essere rubati, confiscati in ogni parte
del mondo; sciolto i loro debitori dall'obbligo di pagare». Tornava
ad inveire contro i tre audaci accusatori, che egli avrebbe trattati
e puniti come eretici, scagliandosi con particolare acrimonia contro
Lapo Salterelli, il quale aveva osato sostenere, che il Papa non
poteva mescolarsi nei giudizî del Comune. E di nuovo imponeva che fosse
annullata la sentenza contro i tre suoi familiari.[154]
I Fiorentini non dierono retta, ed i Neri allora cominciarono a pensare
ai casi loro, perché temevano che la parte bianca o, come essi già la
chiamavano, ghibellina, «non esaltasse in Firenze, che sotto titolo di
buono reggimento già ne faceva il sembiante».[155] E però indussero il
Papa a mandare il Cardinale d'Acquasparta, perché si provasse a far
pace tra i Grandi. Il Cardinale venne ai primi di giugno, e chiese
balía per fare gli accordi, proponendo che i Signori si traessero
a sorte, per evitare cosí i continui tumulti che seguivano ad ogni
elezione.[156] I Fiorentini gli fecero a parole grandi profferte, ma
non gli dettero poi la balía che chiedeva. Si sapeva da un pezzo,
per esperienza, che accordo fra i Grandi voleva dire «frangere il
popolo», e se ne ebbe un'altra prova in questi giorni medesimi. Non
aveva infatti il Cardinale cominciato appena a riavvicinare fra loro
i Grandi, che già essi si sollevavano, e quasi sotto i suoi medesimi
occhi, la vigilia di S. Giovanni (23 giugno), assalirono i Consoli
delle Arti, che andavano a fare offerta nel tempio del Santo, e li
percossero, dicendo: «Noi siamo quelli che demmo la sconfitta in
Campaldino, e voi ci avete rimossi dagli ufficî e onori della nostra
città».[157] La enormità della cosa era tale, che non poteva passare
senza qualche grave provvedimento, e la Signoria, composta allora di
popolani Bianchi, tra i quali trovavasi anche Dante Alighieri, esiliò
il giorno dopo alcuni Grandi dell'una e dell'altra parte.[158]
I Bianchi obbedirono subito, andando a Sarzana; i Neri invece
ricalcitravano, e solo cedendo alle minacce di piú severo castigo,
andarono a Castel della Pieve, nel Perugino. Si disse che avevano osato
resistere perché, d'accordo col Cardinale, aspettavano dai Lucchesi
aiuti che poi non vennero. E questi aiuti sarebbero mancati, perché
i Fiorentini, già insospettiti di ciò, s'erano parati alla difesa, e
ne avevano mandato avviso a Lucca. Vero o non vero che sia, certo è
che lo sdegno contro il Cardinale arrivò a tale, che il popolo tirò
colpi di balestra alle finestre del vescovado, dove egli alloggiava.
Uno dei quadrelli restò infisso nell'asse del soffitto, di che egli
si spaventò per modo, che prima alloggiò altrove, poi se ne partí,
lasciando la città interdetta e scomunicata.[159] Ma gli odî e le
zuffe continuarono; e presto anche si lasciarono tornare dall'esilio
i Bianchi. Si usò loro questa indulgenza, in parte perché il clima di
Sarzana era malsano, tanto che si ammalò Guido Cavalcanti, il quale
poco dopo ne morí; ma in parte ancora perché essi erano in assai
migliori termini col popolo. I Neri invece tramavano piú che mai col
Papa, e secondati dai Capitani di Parte, cospiravano con animo di
venire addirittura alle armi,
Bonifazio intanto sollecitava vivamente a muoversi di Francia in
Toscana Carlo di Valois, fratello del Re, e già chiamato in aiuto anche
da Carlo II d'Angiò, per la lotta che sosteneva contro i Siciliani.
Esso era un audace e crudele soldato. Nella guerra di Guascogna aveva,
l'anno 1294, fatto appiccare 60 cittadini, e trucidare gli abitanti di
Réole, quando già avevano deposto le armi. Nei primi del 1300 aveva
guerreggiato in Fiandra, e dopo la presa di varie città, costretto
quel Conte ad aprirgli le porte di Gand. Giurò allora, in nome del
Re, di restituirlo ne' suoi Stati; ma poi lo mandò invece a Parigi, e,
spergiurando, annesse la contea alla Francia.[160] Questi era l'uomo
che il Papa mandava adesso a Firenze. Per indurlo a venir subito e
di buon animo, gli faceva balenare perfino la speranza della corona
imperiale. In ogni caso, valendosi dell'autorità che presumeva d'avere
durante l'interregno, lo avrebbe nominato vicario imperiale e paciaro
in Toscana, «per recarla colla forza a suo intendimento».[161] Quale
fosse questo intendimento, lo dice il Villani stesso che parteggiava
per lui: «abbattere il popolo e parte bianca».[162]
I Neri perciò si davano ora un gran da fare, con l'aiuto dei loro
amici in città e nel contado. Ebbero varie adunanze; ma piú celebre
e piú tumultuosa fra tutte, fu quella tenuta il giugno del 1301 in
S. Trinita, per sollecitare il Papa a far venire Carlo di Valois a
rimetterli in istato, dichiarandosi essi, per parte loro, pronti a
cooperare con qualunque sacrifizio.[163] Tutto ciò non poteva certo
restare segreto; ed infatti la Signoria pronunziò subito varie condanne
contro i cospiratori. Messer Corso, assente, fu condannato nell'avere e
nella persona; alcuni dei Neri furono confinati; altri dovettero pagare
2000 lire, ed anche da Pistoia furono cacciati i loro amici, per sempre
piú indebolire la Parte.
Intanto Carlo si mosse di Francia, ed in quell'anno stesso era già
a Parma «cum magno arnese equorum et somariorum;»[164] nei primi
d'agosto giungeva a Bologna, dove trovò ambasciatori dei Bianchi e dei
Neri, i quali ultimi già avevano in «curia domini Papae» versato la
grossa somma di 70,000 fiorini, per aiutare l'impresa,[165] che ormai
era certa. Egli andò prima con 500 cavalieri ad Anagni, dove vide re
Carlo di Napoli, e s'accordarono insieme per la guerra di Sicilia.
Il Papa lo nominò subito Conte di Romagna, e poi, in nome dell'Impero
vacante, Paciaro in Toscana.[166] Dopo di che, senz'altro esso partí
per Firenze, accogliendo per via gli esuli che venivano ad ingrossare
le sue schiere. Il mandato era: abbattere i Bianchi ed il popolo,
esaltare i Neri. E Carlo lo aveva accettato con animo deliberato; ma in
verità piú per compiacere al Papa, del cui favore gli Angioini avevano
ora gran bisogno in Sicilia, che per suo interesse personale. A lui,
infatti, che sapeva di non poter pensare a farsi signore di Firenze, la
cosa importava assai mediocremente. Sperava tuttavia di poter cavare
dalla città buona somma di danaro, ed a questo fine menava seco per
suo _pedotto_, come dice il Villani, Messer Musciatto Franzesi. Costui
era un notissimo mercante del contado fiorentino, che in Francia
s'era arricchito con leciti ed illeciti guadagni; era stato nominato
cavaliere da quel Re, che molto lo aveva adoperato, ed al quale, nella
guerra di Fiandra, aveva suggerito il modo di far danaro, falsificando
la moneta.[167] In questo suo _pedotto_ molto sperava Carlo di Valois;
molto invece ne diffidavano i Fiorentini.
Il 13 settembre s'adunarono nel Palazzo del Podestà tutti i Consigli,
nei quali sedeva in quel giorno anche Dante Alighieri, per deliberare
«quid sit providendum et faciendum super conservatione Ordiuamentorum
lustitiae et Statutorum Populi».[168] Questa e non la lotta fra i
Bianchi ed i Neri, era sempre pei Fiorentini la questione sostanziale.
Fu quindi concluso, che per ora rimanesse tutto affidato alla cura dei
magistrati repubblicani, non tralasciando l'invio d'una ambasceria al
Papa. Sulla parte che, secondo gli storici, prese Dante Alighieri a
questa ambasceria, s'è molto disputato, come su tutta la vita del sommo
poeta. In quel tempo egli era con grande ardore entrato nella vita
politica, e sebbene d'antica famiglia, non solo si trovava scritto alle
Arti, e parteggiava pei Bianchi, ma era d'un animo solo col popolo,
favoriva gli Ordini della giustizia, ed avversava le mire di Bonifazio.
Dal 15 giugno al 15 agosto 1300, era stato dei Priori che avevano
esiliato i capi dei Bianchi e dei Neri. Nelle Consulte del 1296 e 97 lo
vediamo opporsi a coloro che volevano inviare danari a Carlo d'Angiò,
per aiutarlo nella impresa di Sicilia. Nel 1301 pigliò parte anche
maggiore alle discussioni nei Consigli, manifestando sempre i medesimi
sentimenti. Infatti, nelle Consulte del 14 aprile, per ben due volte,
alla proposta di mantenere a servizio del Papa, ed a spese del Comune,
cento militi, egli rispondeva: _Quod de servitio faciendo domino
Papae nihil fiat_.[169] Era stato piú volte adoperato anche in altri
uffici dalla Repubblica, e non è impossibile che lo mandassero ora a
Roma, come affermano molti biografi. Che cosa si poteva dire al Papa?
Certo era inutile sperare che egli ora sospendesse l'invio di Carlo
di Valois; ma oltre alle buone parole per calmarlo, non era affatto
inopportuno o inutile provarsi a fargli capire, che, col cacciare i
Bianchi ed esaltare i Neri, non avrebbe ottenuto lo scopo cui mirava,
perché il governo della Città sarebbe rimasto sempre in mano delle
Arti. Meglio valeva mettersi d'accordo col popolo, che era rimasto
sempre guelfo, e che, come in passato, cosí, calmati gli animi, avrebbe
anche per l'avvenire potuto accettare da lui un vicario temporaneo,
salva però sempre la libertà del governo popolare, gli Statuti e gli
Ordinamenti. Ma questo governo era quello appunto che il Papa s'era
omai deciso a non volere assolutamente. E però, senza far molte parole,
senza quasi dare ascolto agli ambasciatori, esso, secondo il Compagni,
a tutti i loro discorsi rispose solamente: — Umiliatevi a noi. — Due di
loro sarebbero, secondo lo stesso cronista, tornati subito a Firenze,
e Dante, che era il terzo, sarebbe invece rimasto ancora per poco a
Roma.[170]

VII
E intanto Carlo di Valois, con la solita mala fede, per sempre piú
ingannare tutti, scriveva il giorno 20 settembre, al comune di San
Gimignano: «Siate pur certi che non è punto intenzione del Papa né mia
_de iuribus iurisdictionihus seu libertatibus, quae per comunitatis
Tusciae fenentur et possidentur, in aliquo nos intromictere,
sed potias... favorare_».[171] Ma i Fiorentini non si lasciarono
illudere da queste mendaci promesse, ed il 7 di ottobre elessero, con
anticipazione, la nuova Signoria, cercando di accomunarla fra le due
parti, sperando cosí di calmare alquanto i rancori. Ormai però, come
osserva giustamente il Compagni, era tempo piuttosto «da arrotare i
ferri». Carlo giunto il 14 a Siena, mandava ad annunziare la sua venuta
per mezzo d'ambasciatori, che furono accolti nei Consigli radunati
insieme, non esclusi quelli della Parte Guelfa. Vi si trovavano perciò
non pochi dei Neri e dei Grandi, i quali, uniti a coloro che dovunque
e sempre sogliono andare con la fortuna che trionfa, fecero a chi
parlava piú calorosamente in favore della buona accoglienza da farsi
allo straniero.[172] In sostanza nessuno voleva ora opporsi a quella
che era divenuta necessità inevitabile, tanto piú che Carlo non solo
ripeteva a voce, ma scriveva agli ambasciatori fiorentini in Siena, che
voleva rispettare le leggi e giurisdizioni della città.[173] Cosí il
dí d'Ognissanti, 1º novembre, accolto con gran festa ed armeggiamenti,
egli entrava come paciero, «disarmata sua gente», dice il Villani.
Dante Alighieri però scrisse nella _Commedia_:
Per far conoscer meglio sé e i suoi,
Senz'armi n'esce solo con la lancia
Con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
Sí che a Fiorenza fa scoppiar la pancia.[174]
Le sue genti s'erano per via accresciute in modo che arrivavano a circa
800 cavalieri forestieri e 400 italiani. Certo non erano abbastanza né
per assediare, né per tener sottomessa Firenze; ma egli aveva con sé il
favore di Roma e quello di Francia, e i Neri erano pronti a pigliare le
armi. Andò quindi sicuro ad alloggiare Oltrarno, in casa Frescobaldi,
una volta amici, ora nemici dei Cerchi. Ivi riposò alcuni giorni,
per meglio apparecchiare il terreno; poi chiese la signoria e guardia
della Città, per pacificarla. Il 5 di novembre si tenne per ciò solenne
adunanza in S. Maria Novella, dove intervennero tutti i primi cittadini
e magistrati fiorentini. La sua domanda fu accolta, avendo egli
giurato come figlio di re, di conservare la città in buono, pacifico
e libero stato. Il Villani che si trovò al giuramento di Carlo, e lo
favoriva, aggiunge, «che incontanente per lui e per sua gente fu fatto
il contrario». Di fatti, per consiglio di Musciatto Franzesi, in ciò
d'accordo coi Neri, si pose subito mano alle armi, il che fece andare
in subbuglio tutta Firenze, essendosi capito che l'ora dell'assalto e
del tradimento era sonata.
La Signoria, combattuta dai Neri, tradita da Carlo, abbandonata dai
Bianchi, che l'accusavano d'essersi fatta sorprendere impreparata a
resistere, si trovò impotente, e la Repubblica restò senza governo.
Il nuovo podestà era Messer Cante dei Gabrielli di Gubbio; venuto con
Carlo, si può bene intendere a qual fine. Ed in questo momento, alla
Porta a Pinti si presentava, armato co' suoi. Corso Donati. Trovatala
chiusa, poté, col favore degli amici di dentro, sfondare la postierla,
ed entrare in Città, dove la plebe l'accolse al solito grido: _Viva
Messer Corso, viva il Barone_. Senza indugio egli s'affrettò ad
aprire le prigioni, poi andò al Palazzo dei Signori, che costrinse
a tornarsene alle case loro. E in «tutto questo stracciamento di
cittade,» dice il Villani, Carlo, violando i patti appena che li aveva
giurati, non impedí nulla, ma stava a guardare».[175] Cominciarono
subito i saccheggi, le ferite, le uccisioni contro i Bianchi. Questa
«pestilenza» durò cinque giorni in Firenze, otto nel contado, dove le
masnade scorrazzavano, ponendo fuoco alle ville, dopo di avere rubato
e ferito. I Medici furon tra coloro che commisero maggiori eccessi e
piú crudeli.[176] Il giorno 7 i Signori, ormai sgomenti, proposero
essi stessi una legge che permetteva loro di abbandonare il potere
prima del tempo legale, e cosí il dí 8 novembre entrò in ufficio la
nuova Signoria, che doveva durare sino al 14 dicembre, quando, secondo
la legge, sarebbe stato necessario procedere alla consueta elezione.
Essa annunziò subito a tutti il felice trionfo della parte della
Chiesa, sotto gli auspicî del Papa e di Carlo, per mezzo dei quali
_Populus roboratus, Status et Ordinamenta Iustitiae, iurisdictiones,
honores et possessiones Populi et Comunis Florentiae suorumque civium
observata_.[177] Per quanta ipocrisia vi fosse in questo linguaggio,
era pur certo che neppure ora si osava annullare gli Ordinamenti, e
levare il governo di mano al popolo, come era vero del pari che, con
questa Signoria di Neri, con un Podestà quale Cante dei Gabrielli, con
Carlo circondato da Musciatto Franzesi e da Corso Donati, i Bianchi
erano spacciati. I rubamenti infatti continuarono, gli esuli amici
furono richiamati, venne confermato il bando degli avversarî,[178] e
Carlo cominciò colle minacce a cavar danari dai cittadini. Prima di
tutto ne richiese ai Signori usciti d'ufficio, ai quali propose di
pagare o andar prigionieri in Puglia, il che si sapeva che cosa volesse
dire.[179]
Il Papa intanto, non fidandosi molto di Carlo di Valois, né della poca
conoscenza che questi aveva di Firenze, e persistendo sempre nella
sua idea di pacificare tra loro i Grandi, per sottomettere il popolo,
mandò di nuovo il Cardinale d'Acquasparta «a secondare», cosí diceva
la lettera del 2 dicembre 1301, «i provvedimenti di Carlo, sostituendo
alle dissensioni cittadine l'opera di carità e di pace».[180] Erano
però vane speranze. Il Cardinale s'adoperò a tutt'uomo, e concluse
qualche accordo, anche qualche matrimonio fra Bianchi e Neri; ma quando
fece la proposta d'accomunare gli ufficî, i Neri, sostenuti da Carlo,
vivissimamente s'opposero. E quando il Cardinale continuava ne' suoi
vani sforzi, Messer Niccolò dei Cerchi, andando cogli amici a diporto
in campagna, arrivato in Piazza Santa Croce, fu, di pieno giorno,
inseguito da Simone di Messer Corso Donati, che lo uccise in sul ponte
dell'Africo. Simone ricevette però dall'avversario che si difese, una
tale ferita che poco dopo ne morí. E come egli era il figlio prediletto
di Messer Corso, cosí si può bene immaginare se tutto ciò doveva
favorire la pace promessa dal Papa per mezzo del Cardinale. Intanto già
Messer Cante dei Gabrielli aveva cominciato a pronunziare le condanne
dei Bianchi, le quali vennero poi trascritte in quel _Libro del
Chiodo_, che è pervenuto sino a noi, e che con esse appunto incomincia.
Quattro dei Bianchi vennero esiliati il 18 gennaio 1302; cinque, fra
i quali Dante Alighieri, il 27. Nel febbraio furono pronunziate altre
quattro sentenze, che mandarono in esilio piú di cento tra popolani e
Grandi di città e di contado.[181] Per tutto ciò il Cardinale adirato
se ne partí, lasciando Firenze da capo interdetta, non senza aver prima
riscosso 1100 fiorini, che vennero per lui stanziati il 26 febbraio
1302, come remunerazione della sua vana opera.
Carlo di Valois era in questo mezzo andato a Roma, non si sa bene a che
fare. Il Compagni dice che v'andò per cercar danari al Papa, il quale
gli avrebbe risposto: «Io t'ho messo nella fonte dell'oro, tocca adesso
a te pensare di trovar modo». È però molto probabile che egli andasse
a persuaderlo, che la pace sognata da Sua Santità non era possibile, e
che non c'era da far altro che sollevare i Neri, ed abbattere i Bianchi
insieme col popolo, il quale li favoriva. Poco pratico dei Comuni
italiani e di Firenze, neppur egli s'avvedeva che si potevano abbattere
i Bianchi, non però il popolo. A ciò infatti sarebbe stata necessaria
una vera strage, e non vi si sarebbe poi riuscito. Comunque sia,
egli fu di ritorno il 19 marzo, e subito si pretese d'avere scoperto
una congiura, tramata contro di lui dai Bianchi, d'intesa con un suo
barone, Pietro Ferrando, provenzale; e si trovò perfino l'accordo messo
in iscritto e suggellato dai congiurati. I cronisti, fra i quali il
Villani,[182] dicono che fu tutta una finzione; ma il trattato, che è
del 26 marzo, esiste anche oggi nell'Archivio fiorentino.[183] O dunque
fu sin d'allora falsificato, per averne pretesto ad altre condanne, o
Pietro Ferrando lo fece per ingannare i Bianchi, e cosí dare contro di
essi una nuova arme in mano a Carlo, che infatti ricominciò subito a
perseguitarli. I capi furono citati a comparire; ma invece emigrarono
subito a Pistoia, Arezzo, Pisa, dove s'allearono coi Ghibellini, con
tutti i nemici di Firenze. Undici di essi vennero condannati come
ribelli; le loro case, i loro beni furono confiscati e disfatti.
Dopo questo nuovo colpo dato ai Bianchi, e dopo avere assicurato il
trionfo dei Neri, Carlo di Valois se ne partí, non senza aver prima
avuto dagli amici promessa di nuovo danaro. Nel dicembre infatti ebbe
20,000 fiorini, e nell'ottobre del 1303 gliene furono mandati altri
5000.[184] Il Podestà Messer Cante continuava intanto le condanne,
che nel maggio erano arrivate a 250, e furono continuate poi dal
suo successore; sicché in quel solo anno 1302 ascesero a piú di 600,
tra confische, esilî e sentenze capitali.[185] «Così», conclude il
Villani, «fu disfatta e cacciata l'ingrata parte dei Bianchi, per
opera di Carlo, e commissione di Bonifazio VIII, di che seguirono poi
molte rovine».[186] E fin qui la successione dei fatti è ormai chiara
abbastanza. Ma dal momento in cui gli esuli cercarono amici di fuori, e
si posero in guerra con la loro città natale, il disordine dei partiti
e la difficoltà d'intendere il significato vero dei fatti divengono
sempre maggiori. È quindi il momento di provare se le osservazioni
finora esposte possono gettare qualche nuova luce sopra un periodo
storico, che non riesce interamente chiaro, sebbene sia stato già da
molti studiato con grande acume e con profonda dottrina.


CAPITOLO X[187]
DANTE, GLI ESULI FIORENTINI E ARRIGO VII

I
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