I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 03

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origine nella incapacità a portare le armi, era temporaneo sull'uomo, e
cessava colla sua incapacità; in sul principio cessava a 12 anni, piú
tardi cessò a 18. Sulla donna, invece, era perpetuo, perché essa era
sempre incapace alle armi. Prima sotto il mundio del padre, passava
poi col matrimonio sotto quello del marito, e colla morte del padre,
se non aveva marito, cadeva sotto quello del figlio o degli agnati, i
quali erano anche suoi eredi. In ultimo veniva protetta dalla _Curtis
Regia_. Il carattere del mundio era però sempre lo stesso, cioè una
protezione del debole. Infatti la donna, sotto il mundio del padre,
del marito, del figlio, degli agnati o della _Curtis Regia_, era sotto
una protezione che aveva sempre la medesima natura. Non potrebbe dirsi
lo stesso della tutela romana, che aveva la sua origine nel concetto
della famiglia. La tutela del padre romano sui figli durava tutta la
sua vita, ma egli poteva disfarsene; il mundio che esercitava il padre
longobardo durava finché durava la incapacità dei figli alle armi, e
come logica conseguenza cessava con essa. Sebbene non possa dirsi che
la emancipazione sia rimasta ignota ai Longobardi, essa può, secondo
l'indole del loro diritto, ritenersi come un fatto eccezionale. Se
la donna romana era sottoposta alla patria potestà, o alla _manus_
del marito, o alla tutela degli agnati, queste erano tre protezioni
assai diverse, appunto pel diverso carattere domestico di colui che le
esercitava, e nulla avevano da fare col mundio. Il padre longobardo
poteva vendere i figli, li rappresentava in giudizio, e ciò che essi
acquistavano, era suo; ma il consiglio di famiglia temperava la sua
autorità, nel modo che abbiamo accennato piú sopra, e i fratelli della
madre, natural protettrice dei figli, vi pigliavano gran parte.
Né solamente nel matrimonio, ma ancora nella successione, il diritto di
famiglia longobardo manifesta il suo proprio ed originale carattere.
Prima di tutto bisogna però notare, che presso i Longobardi si trova
il testamento, il che sembra contraddire all'uso dei popoli germanici,
i quali non lo conoscevano: ma esso deriva dall'azione del diritto
romano sul longobardo. Tuttavia la irrevocabilità della donazione e del
testamento longobardo ci presenta il carattere o piuttosto un residuo
del carattere germanico; giacché il concetto del testamento romano
sta appunto nella sua revocabilità, ed i Longobardi non conobbero la
_testamenti factio_ romana.[10]
I piú prossimi eredi erano i figli legittimi, con i quali succedevano
anche i naturali. Sebbene questi non facessero propriamente parte
della famiglia, erano pure ammessi a succedere coi legittimi, ma
in proporzioni minori, e potevano essere pareggiati mediante la
legittimazione. Piú tardi questo carattere essenzialmente germanico
della successione, si perdette per opera del diritto romano e del
diritto canonico, i quali escludono i figli naturali. In origine,
secondo la legge longobarda, un figlio legittimo pigliava due terzi
dell'eredità, lasciando solamente il resto ai naturali. Se i figli
legittimi erano due, i naturali prendevano la quinta parte; la settima
se i legittimi erano tre. Ai figli naturali non si poteva lasciare
piú di quello che era prescritto, né si poteva diseredare un figlio
senza giuste e provate ragioni, le quali vennero prese in prestito dal
diritto romano. Si poteva tuttavia vantaggiare un figlio a preferenza
degli altri.
La preferenza dei maschi sulle femmine, ha una grande importanza, ed
è un altro dei caratteri propri del diritto longobardo. Quando il
testatore, morendo, lasciava un figlio ed una o piú figlie nubili,
doveva a queste lasciare la quarta parte dell'eredità; quando v'erano
piú figli, le figlie avevano solo la settima parte. Le maritate
però non potevano pretendere a nessuna parte dell'eredità, dovendo
contentarsi di ciò che avevano avuto nel giorno delle nozze, e piú non
dimandare. In mancanza di figli maschi, i piú prossimi eredi erano le
figlie, che succedevano come maschi, fossero o no maritate. Un altro
carattere proprio del diritto longobardo è quello di essere molto
favorevole alle figlie ed alle sorelle del testatore, quando erano
nella casa paterna o fraterna (_in capillo_). Il fratello viene escluso
dalla figlia e dalla nipote, ed in questo caso si vede una singolare e
strana preferenza data alla donna. Cosí pure troviamo, che le figlie
e le sorelle non passate a marito, prendono porzioni uguali, quando
trovansi le une e le altre nella casa paterna o fraterna.
Noi abbiamo notato, che gli Statuti dei Comuni italiani danno, al pari
del diritto longobardo, una decisa preferenza agli agnati sui cognati,
e che ciò dette origine a vive discussioni. Infatti si volle da molti
vedere in questa preferenza un carattere assolutamente germanico, dal
diritto longobardo passato negli Statuti. Ma noi abbiamo notato del
pari che anche il diritto romano, in tutta la sua storia preferí gli
agnati, e solo negli ultimi tempi perdé questo carattere, che però, in
parte almeno, esso riteneva ancora in Italia, quando vennero i barbari.
E ci parrà sempre piú necessario concludere, che questa preferenza data
agli agnati non sia negli Statuti venuta dal diritto longobardo, se
rifletteremo alle diversità che, anche in tale preferenza, corrono fra
le leggi germaniche e le italiane; ed al fatto non meno notevole, che
essa andò crescendo sempre piú, nel tempo stesso che andavano negli
Statuti aumentando l'azione e la importanza del diritto romano. In
verità piú si esamina da vicino, e piú bisogna riconoscere che sono
ragioni politiche, tutte proprie dei Comuni e della società italiana
del Medio Evo, quelle che condussero ad un tale risultato. Ma anche in
ciò l'azione vicendevole dell'uno sull'altro diritto, rimane evidente.
Possiamo infatti osservare, che la successione degli agnati, nel
diritto longobardo è anch'essa alterata dal romano, il quale l'ha resa
indifferente alle cose, che compongono la eredità, mentre che è un
carattere proprio e costante del diritto germanico l'essere intimamente
connessa, legata a queste.
Per concludere adunque con una osservazione generale, ripetiamo che fra
i Longobardi predominano i vincoli del sangue, che nella loro famiglia
si trova una maggior libertà individuale, e che l'azione dello Stato su
di essa è molto piú debole. A Roma, invece, il concetto della famiglia
domina sui vincoli del sangue, e la sua unità è in origine costituita
dall'assoluto dispotismo paterno, distrutto poi dal potere politico,
che quasi si sostituisce ad esso. Lo Stato allora domina ogni cosa,
riduce in frantumi la famiglia, conduce all'assoluta uguaglianza di
tutti, senza avere la forza di tenere insieme una società, in cui né la
libertà individuale, né l'attività locale, né le libere associazioni
si poterono svolgere abbastanza. Ed esse erano pure necessarie a
salvare l'immensa mole d'una società composta di popoli diversi, che
non aveva perciò nessun carattere o unità nazionale, che la Repubblica
e l'Impero avevano costituita. Questi nuovi elementi sono quelli
appunto che vennero fra di noi coi barbari. Cosí fu che due popoli, due
forme di famiglia e di società, quasi direi, due idee, due caratteri
sociali affatto diversi s'incontrarono, l'uno dei quali era divenuto
necessario a complemento dell'altro. I Tedeschi portarono dalle loro
foreste la libertà individuale, la indipendenza personale, il vigore
delle piccole associazioni; i Latini avevano già trovato l'unità
dello Stato, un concetto piú generale e organico della società, l'idea
politica della famiglia, quale noi la vedremo piú tardi trionfare nel
Comune. Dall'impasto di queste due società diverse, dovrà nascere la
società moderna, nella quale l'azione dell'una è di rado scompagnata
da quella dell'altra, ed è perciò vano il presumere di farla derivare
esclusivamente dall'una o dall'altra di esse.

VIII
Se però negli Statuti italiani, i due elementi giuridici che piú
visibilmente coesistono e lottano fra di loro, sono il diritto romano
ed il longobardo, ve ne ha ancora altri che non vogliono essere
dimenticati, e fra questi noteremo il diritto feudale ed il diritto
canonico. Il feudo è una delle istituzioni piú importanti nella storia
del Medio Evo, è la prima forma che piglia la società, nell'uscire
dal caos barbarico, ed ha un carattere prevalentemente germanico.
Con esso la proprietà e la famiglia assumono una forma speciale e
nuova affatto: può dirsi che sia la prima e principale manifestazione
politica e sociale dell'individualismo germanico. La tribú barbarica
tendeva di sua natura a sciogliersi in piccoli gruppi, nelle famiglie,
che solo il pericolo teneva unite. Durante le invasioni, la tribú
trasformavasi in banda armata, lasciava i deboli o impotenti, reclutava
uomini anche dalle tribú vicine, e sotto un capo acquistava, per le
necessità della guerra, ferma e forte unità. Gli assalti già prima dati
dai Romani, avevano per le stesse ragioni contribuito a far nascere
fra i barbari, colla riunione di diverse tribú, alcuni regni forti e
potenti, ma sempre di breve durata, perché colla pace tendevano subito
a sgretolarsi e decomporsi di nuovo. Appena che i barbari cominciarono
a fermarsi in Occidente, fu subito visibile l'impotenza in cui essi
erano di fondare l'unità dello Stato. I capi delle schiere, cominciata
che era la pace, si dividevano le terre; si separavano, ed il loro re
o duce supremo restava come isolato, con assai debole impero. Ognuno di
essi cercava rafforzarsi in un castello, per esservi assoluto padrone,
riconoscendo appena la sua dipendenza dal re. Nel feudo, che cosí
nasceva, la proprietà e la sovranità si confondevano in uno, ed erano
ambedue ricevute in _benefizio_ da un signore piú potente, con oneri ed
obblighi annessi. Dato per temporanea concessione, il benefizio o feudo
divenne ereditario solo col tempo. In origine poteva essere ripreso da
chi l'aveva dato, ed a lui tornava quando il feudatario moriva, per
essere con nuova concessione trasmesso agli eredi di questo: a poco
a poco venne, per uso o abuso o esplicita concessione, trasmesso in
eredità. E finalmente tutta la proprietà, ogni possesso o dominio prese
nel Medio Evo una forma feudale. La poca forza che aveva il supremo
potere politico, obbligava i deboli a cercare altrove protezione; molti
liberi possessori si rendevano volontariamente vassalli, e gli ostacoli
che da un altro lato i grandi signori incontravano a mantenere la loro
autorità sopra vasti dominî, li obbligavano a cedere in benefizio a
minori vassalli parte delle loro terre. Cosí lo Stato, la Chiesa, ogni
cosa prese una forma feudale. Quest'opera nell'XI secolo era compiuta,
quando i Comuni sorsero in Italia a combatterla ed a disfarla.
Nel castello, come era naturale, i vincoli della famiglia divennero
sempre piú forti; esso doveva bastare a sé stesso, era come il mondo
proprio e indipendente del signore che l'abitava, e che divideva il
suo tempo fra le pericolose avventure e la vita domestica. Tutti gli
storici hanno notato che il feudalismo crebbe il rispetto, l'affetto
e l'ossequio cavalleresco alla donna; educò nell'uomo l'energia
personale e la forza della volontà. Il barone, salvo i casi di guerra,
era quasi libero e indipendente signore nel suo piccolo regno, nel
quale tutti da lui dipendevano. I suoi vassalli ricevevano da lui gli
uffici di siniscalco, conte di palazzo, scudiero, ecc. Questi uffici,
dati sotto una forma anch'essa piú meno feudale, a gente di nobile
sangue, tendevano a divenire ereditari, e intanto popolavano alquanto
la solitudine del castello. I figli dei nobili minori venivano nella
corte del signore, per esservi educati alla gentilezza dei modi ed alle
arti cavalleresche, per ricevere finalmente la spada dalle sue mani, ed
essere proclamati cavalieri. Cosí da un lato si accresceva splendore
al castello, e si manteneva al signore la fedeltà de' suoi vassalli;
dall'altro si lusingava l'orgoglio dei minori.
La legge feudale longobarda si trova in relazione con le leggi romane,
che spesso sono chiamate a venirle in aiuto, sebbene abbiano uno
spirito assai diverso, spesso anzi sieno fra loro in opposizione.
Certo è che il diritto romano fa vedere in Italia la sua persistente
azione sul feudale. Il feudo non essendo, come è noto, una proprietà
diretta e indipendente, ma una concessione condizionata e limitata,
non può di sua natura essere sottoposto al principio ereditario. Il
diritto dell'erede deve essere, invece, nuovamente riconosciuto nella
sua persona, perché non deriva, come abbiamo già visto, da quello del
testatore. E cosí continuò anche quando la consuetudine cominciò a
renderlo ereditario. Il successore non rappresentava allora, secondo
il diritto feudale, la persona da cui ereditava, ma in lui la prima
concessione veniva da capo rinnovata. Inoltre tutta la famiglia ha
diritto al feudo, quando è divenuto ereditario, e questo diritto non
ha origine nella volontà del testatore, alla sua morte, ma esiste
già lui vivente. V'è però bisogno di stabilire un ordine successorio,
per determinare la preferenza, e quest'ordine si comincia a prendere
in prestito dal diritto romano. Sebbene sia diverso dalla vera e
propria successione, a poco a poco comincia a confondersi con essa, e
finalmente altera e decompone il feudo. Cosí è che il diritto romano
penetra nel feudale e lo modifica.
La discendenza femminile, per la natura stessa del feudo, è esclusa
dall'eredità, e i discendenti maschi dei figli estinti, succedono
insieme coi figli superstiti. Vi sono però dei feudi, per prima
concessione, femminili, e questi naturalmente possono, in mancanza
di maschi, ritornare alle femmine; ma una volta che maschi vi sono,
hanno la preferenza. Gli ascendenti non possono succedere, perché la
successione è regolata non dalla parentela, ma dalla prima concessione;
e però il ritorno dovrebbe farsi non all'ascendente, ma a colui che
primo concesse il feudo. I collaterali dell'ultimo possessore, che
non siano discendenti del primo, non succedono; né i fratelli come
tali possono succedere, se il padre non è stato possessore del feudo.
Neppure il marito e la moglie si succedono. Ma tutto questo carattere
primitivo scomparisce anch'esso sotto l'azione crescente del diritto
comune. L'importanza del diritto feudale è assai poca negli Statuti
italiani; ma grandissima invece è l'importanza politica e sociale
del feudalismo nella storia dei Comuni. Esso rappresenta una società
distinta per consuetudini e leggi proprie, che ricorre all'Imperatore,
i cui giudici e giudizi preferisce sempre ai magistrati ed alle leggi
della repubblica, che disprezza e non vorrebbe riconoscere. E questa
perciò vede nei nobili un nemico da distruggere, il che le riuscirà
solo dopo lotte sanguinose, non senza aver prima, in conseguenza di
tali lotte, profondamente alterato sé stessa.
Il diritto canonico ha di certo una parte non trascurabile nella storia
e nella formazione del diritto comunale, ma neppur'essa è proporzionata
alla grande azione politica, sociale e religiosa della Chiesa.
Compilato da frammenti di santi Padri, canoni di Concili, Costituzioni
pontificie, con una parte non piccola di leggi romane, esso ricorre
anche all'autorità della ragione e delle Sacre Scritture. E quindi
si mostrò favorevole alla equità naturale contro il sofisma legale,
temperò l'asprezza delle leggi barbariche, protesse i deboli, sostenne
la santità della famiglia, secondò il trionfo del diritto romano sul
longobardo. Ma cercò ancora di sottomettere l'autorità civile alla
ecclesiastica; accrebbe il numero dei tribunali eccezionali; favorí il
giudizio inquisitorio, la tortura, i giudizi di Dio. E la tendenza che
esso ebbe sempre d'invadere il campo del diritto civile, trovò aperta
una porta nell'uso del giuramento, che ogni magistrato, non escluso il
Podestà, doveva dare, con la formola _salva la coscienza_, espressa o
sottointesa. Siccome il clero deliberava appunto sui casi di coscienza,
cosí ad esso spettava il giudicare la validità dei giuramenti.
E ciò favoriva naturalmente la diffusione del diritto canonico.
Esso contribuí non poco a sopprimere il divorzio, e ad escludere
i figli naturali dalla successione. La sua azione è assai visibile
negli Statuti, ma piú ancora nella lotta dell'autorità civile colla
ecclesiastica, la quale vuol mantenere incrollabili i suoi privilegi, i
suoi tribunali eccezionali, la sua supremazia anche nelle cause civili
e politiche.

IX
Noi abbiamo adunque negli Statuti quattro legislazioni diverse, che
sono come in lotta fra di loro: diritto longobardo, romano, feudale,
canonico. Esse si possono però ridurre quasi a due, perché il diritto
feudale è germanico, e il diritto canonico, per quella parte che
penetra negli Statuti, è principalmente romano. Cosí anche qui si torna
alla vecchia lotta del sangue germanico col latino. Sono due popoli
che combattono, e con essi le loro istituzioni, le leggi, le idee; le
loro anime sembrano sfidarsi dovunque s'incontrano, nella letteratura,
nell'arte, nella politica. Eppure l'uno è necessario all'altro, e
debbono scomparire ambedue, per dar luogo ad una nuova forma sociale,
ad uno spirito piú vasto, che, nato dalla fusione dei due opposti
elementi, sarà il solo trionfatore in questa lunga lotta. In Italia
però il sangue latino predomina sempre, come si vede anche negli
Statuti, nei quali il diritto romano è il tronco principale intorno a
cui s'aggira tutto quanto questo lavorio giuridico. Il tempo in cui si
cominciano a compilare gli Statuti, è quello stesso in cui comincia
a diffondersi dalla Università di Bologna la cognizione del _Corpus
iuris_ in tutta Italia. D'allora in poi la legislazione giustinianea
è ritenuta come il diritto per eccellenza, una specie di filosofia
giuridica, ed è riconosciuta in tutte le nostre repubbliche come il
diritto comune, quello che entra in vigore ogni volta che tace lo
Statuto. Per questa ragione la parte che risguarda il diritto civile
è negli Statuti svolta assai meno della parte politica. Ed è perciò
ancora che i professori, dati principalmente allo studio del diritto
civile, s'occuparono piú del diritto romano, canonico, feudale e
longobardo, che degli Statuti. Questi erano da essi esaminati, massime
nei primi tempi, piú come una conseguenza dello studio del diritto
romano, che come un soggetto di vero e proprio studio; li ritenevano
una consuetudine popolare scritta, a cui non si dava gran valore
scientifico, perché quasi legge di eccezione all'unico diritto, che
solo aveva ragione di essere universalmente ammirato. Assai piú tardi
i professori cominciarono ad occuparsi anche degli Statuti, che ai
nostri giorni acquistarono finalmente una grande importanza. Venezia è
forse l'unico Comune nel quale, in mancanza dello Statuto, si soleva
ricorrere alla ragione naturale; laonde il Bartolo diceva, che il
magistrato veneto giudicava manu regia et _arbitrio suo_.[11] Questo
non impediva però, che anche colà un tale arbitrio venisse regolato od
ispirato dalla conoscenza e dall'ammirazione che s'aveva pel diritto
romano.
Da tutto ciò risulta sempre piú chiara l'importanza straordinaria
che ebbero le Università ed i professori di Bologna, i quali
annotavano, glossavano il _Corpus iuris_, per renderlo intelligibile
all'universale, e cosí preparavano, educavano i notai, i giudici,
i Podestà, i Capitani del Popolo. Certo la loro dottrina non era
storica; in questa anzi essi si dimostravano debolissimi. Era invece
l'esposizione razionale d'un diritto ancora vivente, e però dicevano:
«chi non sa cavalcare, tengasi a l'arzone; _ita debet Iudex_ tenersi
a la glossa». In questo modo l'Università di Bologna divenne come la
depositaria d'un diritto quasi universale e sacro. Ad essa mandavano
i Papi le loro decretali, e gl'Imperatori le costituzioni, per farle
rivedere o raccogliere. L'Imperatore era però tenuto come la sorgente
viva e universale del diritto, il solo che potesse osar di aggiungere
nuove leggi alle romane. Chi lo bestemmiava, veniva severamente
condannato; chi non credeva alla sua autorità universale, era dagli
stessi giuristi dichiarato eretico. Questa autorità egli l'aveva come
signore di tutti i popoli, e gli veniva dall'Impero romano, di cui
era legittimo erede. Riusciva quindi naturale che, per determinare la
estensione e i limiti d'una tale autorità, fosse necessario ricorrere
di nuovo ai professori di Bologna, che erano i veri depositari della
legge romana, ed acquistavano perciò importanza sempre maggiore.
Quello che si cercava era sempre la _scripta ratio_; ed i Comuni, anche
quando dicevano di voler serbare illese le loro vecchie libertà, non
tralasciavano mai di promettere che avrebbero rilasciato all'Imperatore
le _veteres iustitias_, le quali gli erano dovute, e che essi volevano
rispettare. Si trattava solo di _ricercarle_, e quindi di nuovo il
bisogno di consultare i professori di Bologna.
Prima della gran contesa dei Lombardi contro Federico Barbarossa, vi
fu un vero e proprio giudizio, che finí con una condanna dei Milanesi,
dichiarati ribelli, _adstipulantibus iudicibus et primis de Italia_.
A Roncaglia Federico esercitò il potere giudiziario e legislativo,
assistito da quattro professori di Bologna, che propugnarono i
diritti dell'imperatore, non perché nemici della patria, ma perché
professori di diritto romano, e quindi sostenitori del Sacro Romano
Impero. Né i Comuni sostenevano una teoria diversa. Vinto Federico,
essi continuarono infatti a scrivere i loro Statuti, le loro leggi,
i pubblici strumenti, in nome suo. E ciò si può vedere anche nel
secolo XV, quando i notai rogavano tuttavia i pubblici atti in nome
dell'Impero. Nella pace di Costanza l'elezione dei magistrati civili
e criminali, dei Consoli, Podestà e Notai fu espressamente riservata
all'Imperatore, il cui diritto venne in tutto ciò riconosciuto, al pari
di quello che esso aveva, in ultimo appello, nelle cause d'una certa
gravità. E se i Milanesi di fatto non tennero di ciò nessun conto,
il diritto non fu mai da essi negato. I Lombardi si riconoscevano
legalmente sudditi, ma poi volevano agire come liberi e padroni di sé.
Lo stesso Arrigo VII, quando venne in Italia, ai tempi di Dante, faceva
ancora processi contro le città italiane, e le condannava; imponeva ad
esse taglie d'uomini e di denari; citava dinanzi a sé il re Roberto di
Napoli. Tutto ciò poteva a molti sembrare allora una commedia; ma era
l'eco d'una età trascorsa, di un passato che la stessa mente immortale
dell'Alighieri credeva di poter richiamare in vita, come provano le sue
lettere ed il libro _De Monarchia_. La Chiesa, è ben vero, combatté
sempre l'Impero, ma l'autorità politica e giuridica dell'Imperatore,
in tutto quanto il Medio Evo, non fu mai messa in discussione, restò
sempre riconosciuta.
In mezzo a questa lotta continua tra la Chiesa e l'Impero, tra i Comuni
e i Feudi, tra i Guelfi ed i Ghibellini, si formarono gli Statuti, nei
quali si scrivevano via via cosí le consuetudini nuove, che s'andavano
formando, come le consuetudini vecchie alterate dalle nuove. E se
poco importava ai giuristi di Bologna studiare un diritto allora
assai noto, perché viveva nell'uso comune, e scaturiva da quel diritto
romano, che formava l'occupazione di tutta la loro vita, molto invece
importerebbe a noi studiarlo, per conoscere appunto quale era il valore
e il carattere di questa vita comunale nel Medio Evo. Ma pur troppo
bisogna ancora aspettar molto, prima di poter risolvere pienamente il
problema. Nondimeno è sempre necessario cominciar coll'esaminare i vari
Statuti, e paragonarli tra loro, paragonando anche le diverse redazioni
d'ognuno di essi, per arrivare a vedere la evoluzione del diritto
nuovo, scoprire e comprendere il principio che la regola.

X
Gli Statuti abbracciano tutta quanta la vita del Comune: la elezione
e l'ufficio dei magistrati politici; il diritto pubblico, civile,
criminale, amministrativo e commerciale. Piú ampiamente trattato è
il diritto pubblico; il civile, invece, per le ragioni che abbiamo
già dette, rimane assai incompiuto. Si occupano però, piú o meno
largamente, dello stato delle persone, delle doti, dei contratti,
delle forme di giudizio, delle successioni, dei testamenti, dei diritti
nascenti dalle vicinanze dei fondi, sopra tutto della famiglia. Essi
mirano ad una procedura semplice e sommaria, senza cavilli; cercano la
buona fede e la speditezza negli affari; ma i vizi di redazione, un
dissertare continuo, che è fuori di luogo nelle leggi, il frequente
rimettersi ai giudici, raggiungono il piú delle volte un fine
contrario. È strano veramente l'osservare come in secoli nei quali
sorgeva una splendida letteratura; quando i piú modesti scrittori
del tempo sono per noi esempio di bello stile; quando giudici, notai
e professori di diritto avevano sempre dinanzi agli occhi il modello
immortale del _Corpus iuris_, si scrivessero gli Statuti in una forma
cosí inculta, che spesso può dirsi barbara, certo è sempre intricata e
confusa. Essi costituiscono una legislazione consuetudinaria, mutabile,
popolare, incerta ancora di sé, che, nata in mezzo alle guerre civili
ne serbò l'immagine, e non raggiunse mai una forma classica, resa
impossibile anche dal gergo scolastico che prevaleva sempre nelle
nostre università e nei nostri giuristi. Le accuse che il Petrarca
faceva sopra tutto alla forma usata dai professori di diritto al suo
tempo, erano pienamente giustificate. L'umanesimo, che volle adoperare
una lingua latina piú corretta ed elegante, dovette cominciare
fuori delle università, spesso contro di esse; si diffuse largamente
durante tutto il secolo XV, ma serbò sempre un carattere letterario e
filosofico, assai piú che giuridico.
Da un altro lato il Comune italiano, non ostante i suoi grandi
meriti e le sue grandi imprese, ha qualche cosa di transitorio, di
medioevale; accenna sempre ad un periodo di passaggio. Esso fu il
germe da cui doveva piú tardi uscire la società moderna; ma non
poté generarla senza prima distruggere sé stesso, e quindi restò
sempre in uno stato di continua trasformazione. Sorto dall'impasto
di due società diverse, la romana e la germanica, ebbe dalla prima
il concetto generale dello Stato, pigliando dalla seconda la libertà
individuale, l'attività locale, la forza delle speciali associazioni.
Il problema che dovette risolvere, quello che costituí la sua vita e
la sua storia, sta appunto negli sforzi continui fatti per porre in
armonia questi due elementi, i quali restarono lungamente, non solo
separati, ma spesso anche in opposizione fra di loro. Fino a che la
compiuta fusione non ebbe luogo, con la distruzione stessa del Comune,
il conflitto continuò, ed il disordine fu inevitabile. Il governo
e la politica hanno in esso una importanza grandissima, sconosciuta
alla società barbarica; ma il Comune somiglia pur sempre ad una forte
agglomerazione di piccole associazioni, piuttosto che ad una società
sola, ad un vero e proprio Stato. La vita ferve anzi piú rigogliosa in
questi mille gruppi, nell'attività dei quali si moltiplica; la forza
sociale si trova principalmente nelle associazioni d'arti, di mestieri,
di famiglie, di nobili, di popolani, le quali hanno leggi, statuti,
magistrati e tribunali propri. Cosí ha luogo un intreccio straordinario
di ordinamenti, di passioni, d'interessi diversi e fra loro cozzanti.
La vera libertà individuale, la vera uguaglianza in faccia alla legge,
non è conosciuta ancora; ma l'individuo è protetto, educato nella sua
associazione, che gli comunica una forza e gli garantisce una libertà
sempre maggiore. Questi gruppi secondari, però, a differenza di quelli
da noi già incontrati nelle società germaniche, non possono separarsi,
hanno bisogno di vivere nello Stato, fuori del quale perderebbero la
loro ragione di essere. La moltiplicità loro infinita, le gelosie,
l'urto e le collisioni continue, rendevano tanto piú necessaria, tanto
piú desiderata e amata la repubblica, per la quale ognuno di quei
mercanti era pronto a dare la vita, giacché da essa, nella pace e nella
guerra, dipendeva la loro salvezza e quella delle varie associazioni.
I capi ed i principali componenti di queste, entravano di diritto
nei Consigli della repubblica, la governavano, ne erano padroni, e
vi trovavano la sola valida difesa contro i mille rivali che ognuno
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