I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 07

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parati agli eventi, cercarono di liberarsi subito da ogni minaccia
di guerra esterna, concludendo la pace coi Pisani, sebbene questi
fossero già ridotti agli estremi, sicché il continuare la guerra li
avrebbe sottomessi ed umiliati sempre di piú. Ma i Fiorentini vollero
cosí «fortificare loro stato di popolo, e affiebolire il podere de'
Grandi e de' possenti, i quali molte volte accrescono e vivono delle
guerre».[111] Le trattative cominciarono sotto il gonfalonierato di
Migliore Guadagni (15 aprile a 15 giugno 93), e furono concluse sotto
quello di Dino Compagni, che venne eletto subito dopo. I patti furono:
restituzione dei prigionieri; esenzione da ogni gabella sulle mercanzie
dei Comuni della Lega toscana, che passavano per Pisa, con reciproco
privilegio ai Pisani. Per quattro anni questi dovevano eleggere il
Podestà ed il Capitano, in modo che uno dei due venisse dai Comuni
della Lega, l'altro da gente non ribelle ad essa, e non mai fra i
conti di Montefeltro. Di questi era appunto il conte Guido, che aveva
sino allora comandato con gran valore la difesa di Pisa, tenendovi
l'ufficio di Podestà, di Capitano del popolo e di guerra. Egli doveva
ora, secondo i patti della pace, abbandonare la città insieme con tutti
i Ghibellini forestieri, in fede di che si dovettero dare in ostaggio
25 dei migliori cittadini. Tutto ciò fu un obbligare i Pisani alla
piú dura ingratitudine, che il Conte avrebbe potuto far loro pagar
cara, trovandosi esso alla testa d'un esercito ancora numeroso e a lui
devoto; pure volle invece sopportare l'ingiuria dignitosamente. Entrato
in Consiglio, ricordò loro i servigi resi, la ingratitudine con cui
veniva pagato, e, ricevuto il suo soldo, se ne parti senza indugio. Ai
Fiorentini fu anche promesso, che le mura del castello di Pontedera
verrebbero disfatte, e i fossati riempiti; che i piú potenti esuli
guelfi sarebbero stati rimessi in città. Ai Pisani però si doveva la
restituzione del castello di Monte-Cuccoli e di ogni altra loro terra
in Val d'Era.[112]
Posto cosí termine ad un'impresa, che sembrava allora la piú grave di
tutte, il popolo procedette con piú ardire ad altre di minore momento.
Furono sottomesse varie terre o castelli, come Poggibonsi, Certaldo,
Gambassi, Cutignano. Ai conti Guidi si tolse la giurisdizione d'un
assai gran numero di terre nel Val d'Arno di sopra. In Mugello furono
riacquistati molti possessi ingiustamente occupati dagli stessi
conti Guidi, dagli Ubaldini e da altri potenti. Fu poi formata una
commissione di tre popolani, per allibrare, cioè fare un censimento dei
beni della Città e del contado. La stessa commissione liberò anche le
terre dell'Ospedale di Sant'Eustachio presso Firenze, che ingiustamente
erano state occupate da molti, e le fece porre sotto la protezione
diretta dei Consoli di Calimala.[113] Merita poi d'essere accennato
un altro fatto, che dimostra con quanta energia procedesse allora in
ogni cosa il popolo di Firenze, il quale, secondo l'espressione del
Villani, «era fiero e in caldo e signoria». Un tale, avendo commesso
un maleficio, fuggí a Prato, e vi fu accolto. La Repubblica subito lo
richiese, e non essendo stato rimandato, condannò il Comune di Prato
a pagare diecimila lire, ed a rendere il malfattore, inviando a tal
fine un solo messo con lettera. I Pratesi non obbedirono, ed allora,
senza indugio, fu intimata la guerra, chiamando sotto le armi fanti e
cavalieri, il che finalmente li costrinse a cedere. «E cosí di fatto
facea le cose, l'acceso popolo di Firenze».[114]

XI
Tutto era dunque tranquillo e sicuro fuori della Città, quando appunto
i maggiori pericoli cominciarono dentro. I Grandi erano decisi a
non volere che avessero esecuzione gli Ordini della giustizia, e
però s'adoperavano in maniera che, quando seguivano offese contro
i popolani, gli offensori venissero condotti dinanzi a giudici del
loro medesimo partito, i quali stendevano il processo a loro favore,
e cosí il Podestà, senza saperlo, era spinto a colpire gl'innocenti.
Nascondevano i malfattori, difendevano i consorti, e quando si poneva
mano all'esecuzione della legge, tentavano di far nascere tumulti.
Contro tutto ciò appunto reagiva ora fieramente il popolo, guidato da
Giano della Bella, il quale soleva ripetere sempre: perisca piuttosto
la Città che la giustizia. Le passioni perciò s'esaltarono in modo,
che già si minacciava di voler trascorrere a gravi eccessi contra i
Grandi. Primi a cader sotto le piú severe pene degli Ordinamenti furono
i Galli. Avendo uno di essi ferito in Francia un mercante fiorentino,
che poi ne morí, le case loro furono disfatte in Firenze.[115] Dopo
questo esempio, facilmente s'andò oltre. Il popolo chiedeva nuove e
sempre piú severe esecuzioni: si temeva perciò, dice il Compagni, «se
l'uomo accusato non fosse punito, che il rettore non avesse difensione
né scusa, il perché niuno accusato rimaneva impunito». I Grandi erano
al colmo del loro furore, ed esclamavano, non senza qualche apparenza
di ragione: «Un caval corre e dà della coda nel viso a un popolano,
o in una calca uno darà di petto senza malizia a un altro, o piú
fanciulli di piccola età vengono a quistione; debbono però costoro, per
sí piccole cose, essere disfatti?»[116]
In questo modo sorse fra di loro il pensiero di cospirare contro
la persona di Giano, capo e istigatore del popolo, e cosí farla
finita una volta per sempre. La cosa non doveva esser di difficile
riuscita, a cagione del carattere impetuoso, aperto, imprudente di
lui. Il suo predominio sul popolo minuto era grandissimo, ma anche
qui v'era un'altra cagione di debolezza. La plebe e le Arti minori
vivevano, come vedemmo, colla piccola industria, col piccolo commercio
nell'interno della Città, e facevano i loro maggiori guadagni coi
nobili, i quali perciò avevano su di esse molta autorità, e fra di
esse trovavano parecchi seguaci. Da un altro lato non mancava sin
d'allora una qualche gelosia tra il popolo minuto ed il popolo grasso,
il quale viveva, invece, principalmente col commercio d'esportazione
e d'importazione,[117] ed era indipendente dai Grandi, che odiava e
voleva abbattere. Non per questo però il popolo grasso poteva veder con
piacere che Giano sollevasse l'ambizione e la potenza della plebe, la
quale era scontenta perché si trovava esclusa dal governo, e cominciava
a desiderare di prendervi parte.
S'aggiunse piú tardi l'elezione di Bonifazio VIII (dicembre 1294), il
quale aveva un'ambizione smodata di temporale dominio, e credeva che,
per la vacanza dell'Impero, il Papato potesse ora assumerne in Italia
ed in Europa i diritti. Voleva perciò specialmente in Firenze, che
era capo di Toscana, e dove già i suoi predecessori avevano nominato
Carlo d'Angiò vicario imperiale, accrescere la propria autorità.
Cominciò quindi a intendersela subito coi Grandi, coi quali era molto
piú facile venire ad accordi, perché, trovandosi essi già indeboliti,
avrebbero ben volentieri ripreso il governo della Città in nome suo,
come i loro antenati ghibellini lo avevano piú volte tenuto in nome
dell'Imperatore. Ma a ciò naturalmente si opponeva il popolo grasso,
il quale, volendo invece mantenere la Repubblica libera e indipendente,
non poteva, sebbene guelfo, intendersi ora col Papa.
I segreti maneggi fra i Grandi e Bonifazio VIII cominciarono subito,
per mezzo degli Spini, ricchi mercanti fiorentini, che, essendo
banchieri della Curia, avevano agenti a Roma. Il primo risultato di ciò
fu l'invito di venire in Toscana, fatto a un tal Giovan di Celona,[118]
che già con alcune centinaia d'uomini armati s'avanzava ora verso
l'Italia, chiamato dal Papa e dai Grandi, i quali ultimi volendo
giovarsene ai loro propri fini, gli avevano fatto molte promesse, a
quanto pare, d'accordo anche con alcuni dei popolani. Ma tutto ciò
andava per le lunghe, e le passioni correvano ora piú rapide dei
maneggi politici, che servivano però a tenerle sempre accese. Si pensò
quindi ad ordire senz'altro indugio una trama, per uccidere addirittura
Giano della Bella. _Percosso il pastore, fiano disperse le pecore_,
dicevano i Grandi.
Se non che, su coloro che desideravano pronta violenza, prevalsero
quelli che consigliarono invece l'astuzia. Nel popolo seguivano allora
molti eccessi, che restavano impuniti per la debolezza dei giudici.
I beccai soprattutto, guidati da un tal Pecora, pessimo e audace, che
pubblicamente minacciava i Signori, trascorrevano ogni giorno di piú. E
però, sapendo l'amore che Giano aveva alla giustizia, i Grandi, nelle
riunioni che avevano spesso con lui e coi popolani, gli dissero: «Non
vedi tu la violenza dei beccai; non vedi l'insolenza dei giudici, che,
minacciando di punire i Rettori, al tempo del sindacato, ottengono
ingiusti favori? Si lasciano sospesi i piati tre o quattro anni, e non
si pronunziano mai le sentenze.[119]» Giano, nella sua lealtà, subito
rispondeva: «Perisca piuttosto la Città, che ciò si sostenga. Facciansi
leggi che siano freno a tanta malizia». E i Grandi correvano allora
malignamente a dire ai giudici ed ai beccai, che esso voleva rovinarli
con nuove leggi.[120] Continuando poi l'astuta trama, consigliavano una
legge contro gli sbanditi, colla speranza di poterla presto applicare
a lui stesso. Pare che egli fosse per cader nella rete, ma ne fu
avvertito in tempo. E allora, senza piú volere ascoltare né amici né
nemici, non consentí che nessuna legge si proponesse, minacciando di
farli uccidere tutti. Cosí si sciolse l'adunanza, senza concludere
altro che irritar sempre piú gli animi.[121]
Ma i Grandi non perciò s'arrestavano. Vedendo che Giano aveva sempre
molti amici, e non era sperabile di vincerlo con quelle astuzie, si
radunarono soli in S. Iacopo Oltrarno, per discutere sul da fare, e
tornarono allora in campo i consigli violenti. Betto Frescobaldi, suo
nemico personale, colui che gli aveva già posto le mani sul viso in S.
Piero Scheraggio, disse: «Usciamo di questa servitú; prendiamo l'arme
e corriamo sulla Piazza; uccidiamo amici e nemici di popolo, quanti noi
ne troviamo, sicché giammai noi né i nostri figliuoli non siamo da loro
soggiogati». Ma di nuovo si opposero i fautori dell'astuzia, e Baldo
della Tosa, con molta calma, disse: «Il consiglio del savio cavaliere
è buono, se non fosse di troppo rischio, perché se il nostro pensiero
venisse manco, noi saremmo tutti morti. Vinciamgli prima con ingegno,
e scomuniamgli con parole pietose.... E cosí scomunati, cacciamgli per
modo che piú non si rilevino».[122]
Se non che a un tratto, l'occasione opportuna alla violenza si presentò
da se stessa. Corso Donati, uno dei piú potenti e prepotenti nella
Città, spinse alcuni suoi uomini a ferire messer Simone Galastroni, e
ne seguí una zuffa, nella quale vi furono un morto e due feriti. Le
parti presentarono querela; ma quando si fu dinanzi ai giudici che
stendevano il processo, uno di essi, dominato dal solito spirito di
parte, fece sí che il notaio scrivesse a rovescio le deposizioni dei
testimoni. E venuta la cosa in questi termini dinanzi al Podestà Gian
di Lucino, egli assolvette il Donati e condannò il Galastroni. Il
popolo allora, che s'era trovato presente alla zuffa e sapeva come era
andata la cosa, levatosi a tumulto, gridava per le strade: Muoia il
Podestà; al fuoco, al fuoco! E corse subito al Palazzo con la stipa in
mano, per bruciarne la porta, sperando d'avere a guida e sostegno Giano
della Bella, il quale invece prese le parti dei magistrati, che voleva
sempre rispettati. La porta del Palazzo del Podestà fu nonostante
arsa, i suoi cavalli e gli arnesi rubati, i suoi uomini presi, gli
atti stracciati; e molti che sapevano trovarsi presso di lui carte e
processi a loro carico, riuscirono a distruggerli. Egli, che aveva seco
la moglie, fuggí con essa nelle case vicine, dove furono ricoverati.
Corso Donati, che era allora nel Palazzo, si salvò fuggendo su per i
tetti.
Il giorno seguente furono radunati i Consigli, e per onore della
Repubblica si deliberò di restituire al Podestà ogni cosa indebitamente
a lui tolta, pagandolo e lasciandolo partire. Cosí fu subito rimesso
l'ordine; ma gli animi erano sempre assai eccitati, ed i Grandi
s'avvidero che il momento della vendetta contro Giano era finalmente
arrivato. Infatti alcuni del popolo gli erano avversi, per le mille
calunnie sparse ad arte contro di lui, fra cui quella d'aver egli
promosso leggi a danno dei giudici e dei beccai; altri erano sdegnati,
per aver egli preso le parti del Podestà; ed altri finalmente lo
accusavano d'essere stato cagione del tumulto. In tanta incertezza
e confusione di animi, i suoi nemici riuscirono a far eleggere prima
del tempo una Signoria a lui avversa, che subito lo fece richiedere
come autore dei disordini. Tutta la Città si trovò allora sollevata.
Alcuni lo volevano condannare; ma il popolo minuto correva invece a
difenderlo. Allora egli giudicò bene allontanarsi, ed il 5 marzo 1295
se ne usci di Firenze, per evitare una guerra civile, sperando che la
sua partenza aprirebbe gli occhi ai piú savi, e che questi lo avrebbero
perciò richiamato. I suoi calcoli però andarono falliti, avendo egli
molti piú nemici che non credeva. E cosí fu condannato in contumacia,
in nome di quegli stessi Ordini della giustizia, che aveva promossi, e
dei quali era tenuto autore. Il Papa allora mandò subito a rallegrarsi
coi Fiorentini, e Giano capi che la sua stella era ormai tramontata.
Senza perciò esitare, come portava la sua indole sdegnosa e pronta,
andossene in Francia, dove aveva alcuni interessi nella casa dei
Pazzi, e quivi morí esule. Le sue case vennero disfatte, i suoi amici e
parenti furono condannati, ma gli Ordinamenti della Giustizia restarono
fermi per lungo tempo ancora.[123] Il Villani, a questo proposito, nota
come chiunque in Firenze «s'è fatto caporale di popolo o d'università,
è stato sempre abbandonato». E aggiunge che «di questa novitade ebbe
grande turbazione e mutazione il popolo e la cittade di Firenze, e
d'allora innanzi gli artefici e' popolani minuti poco potere ebbono in
Comune; ma rimase al governo dei popolani grassi e possenti».[124]

XII
Queste ultime parole d'un cronista e di un osservatore assai accorto ci
aprono la via a comprendere anche meglio il carattere generale della
rivoluzione cui abbiamo assistito, la quale fu conseguenza necessaria
delle molte altre che l'avevano preceduta, e che perciò dallo studio
di essa ricevono nuova luce. Quando i Fiorentini riuscirono a disfare
nel contado i castelli dei nobili feudali e ghibellini, obbligandoli a
venire in Città, la Repubblica si trovò, come abbiam visto, divisa in
due partiti, che fieramente si lacerarono fra loro: nobili ghibellini
da un lato, popolani guelfi dall'altro. Quando gli Svevi da Napoli e
Palermo sollevarono in tutta Italia il partito ghibellino, quei nobili
primeggiarono in Toscana, e coll'aiuto di Federico e di Manfredi
dominarono ancora in Firenze, opprimendo e cacciando i Guelfi. Ma
quando caddero gli Svevi e vennero gli Angioini, allora l'Impero
ne fu indebolito, e la politica italiana mutò di nuovo: i Guelfi si
rialzarono in Firenze, e la democrazia, che da un pezzo costituiva la
vera forza della Repubblica, fece le sue vendette contro i Ghibellini,
che parvero quasi scomparsi. Se non che, in quel momento appunto i
Guelfi si trovarono divisi in Grandi da una parte, popolani dall'altra,
e ne seguí una nuova e non meno aspra lotta, nella quale si trattava di
fare scomparire del tutto i magnati. Questi perciò si videro costretti
a chieder d'essere ascritti alle Arti, ad affettare modi popolari, a
mutare perfino i loro antichi nomi di famiglia, se non volevano restare
esclusi dal governo. Gli Ordinamenti di Giustizia furono lo statuto
che, dopo una lunga serie di leggi e di rivoluzioni, assicurò per
sempre il trionfo della democrazia, verso cui da lungo tempo, anzi fin
dalla sua origine, mirava la repubblica fiorentina.
Se non che in essa v'era il popolo, ma v'era anche la plebe, e s'eran
trovati fra di loro uniti finché si trattò di combattere insieme i
Grandi; ma si divisero appena che ebbero ottenuto il comune trionfo.
Cosí a poco a poco s'andò formando il partito dei popolani grassi
o delle Arti maggiori. Queste dapprima eran dodici, e pareva che
andassero d'accordo con le nove minori, le quali piú tardi divennero
quattordici e si andarono separando sempre piú dalle altre sette,
che furon veramente le maggiori, con le quali si posero in lotta; e
fu costituito cosí il popolo grasso. La formazione ed il trionfo di
un tal partito, che per lungo tempo governò la Repubblica, cominciò
appunto, come osserva il Villani, subito dopo la caduta di Giano della
Bella, vinto dalla unione temporanea dei Grandi con i popolani piú
potenti. Questi si separarono allora cosí dai Grandi come dai popolani
minori, vincendo gli uni e gli altri, formando una delle democrazie piú
attive, accorte ed intelligenti che si conoscano nella storia. Essa fu
costituita dalla parte piú vigorosa e ricca del popolo, che perciò si
chiamò grasso, ed a poco a poco divenne padrona della Città; e tutto
ciò fu una conseguenza inevitabile delle passate rivoluzioni, ma venne
ora affrettato dagli Ordinamenti. Essi erano stati promossi da Giano
coll'aiuto del popolo contro i Grandi. Di questi egli fu vittima,
quando riuscirono ad ingannare i popolani, ai quali per un momento
sembrarono unirsi. E certo fu contro ogni sua voglia, se si trovò
cosí a favorire la formazione d'un partito che, sorgendo sulle rovine
dei Grandi e della plebe, finí coll'escluderli ambedue del tutto dal
governo della Città.
Questo partito, in ogni modo, fece per lungo tempo salire a grandissima
altezza la potenza della Repubblica, e ne diresse per piú d'un secolo
la politica. Il momento in cui riuscí a formarsi, è quello stesso in
cui Firenze divenne il centro della cultura italiana, e quindi anche
della cultura in Europa. Né è da meravigliarsi punto d'un cosí grande
trionfo intellettuale, politico e morale della democrazia commerciale
in Firenze. L'aristocrazia, al tempo degli Svevi, era stata di certo la
parte piú culta e civile della nazione italiana; le grandi questioni
politiche, le grandi lotte fra il Papato e l'Impero, nelle quali
tutta l'Europa prese vivissima parte, furono da essa sostenute. La
reggia di Federico II era stata il centro principale di tali lotte, il
punto allora piú luminoso di luce intellettuale nel mondo. La lingua
fu cortigiana; la Corte, scettica, ed i primi poeti furono principi
o baroni. Lo stesso imperatore Federico, il suo figlio Enzo, il suo
segretario Pier della Vigna fecero udire i primi accenti della musa
italiana. Era un ordine privilegiato e ristretto, in cui la letteratura
e la scienza serbarono sempre il carattere della cavalleria e della
scolastica. Al pari dei Provenzali e dei Francesi, che imitarono, essi
cantavano in versi sempre artificiosi una donna immaginaria, un amore
fantastico e non sentito. Non si riuscí mai ad abbandonare le forme
medievali e convenzionali. In quello stesso tempo, invece, i mercanti,
i popolani delle nostre repubbliche, massime di Firenze, correvano il
mondo, fondando banche, case di commercio in Oriente ed in Occidente;
studiando il diritto; dimostrando sempre e per tutto una singolare
attitudine a far leggi, a creare istituzioni nuove, a regolare grandi
interessi. E cosí acquistarono quella conoscenza pratica degli uomini
e del mondo, quel senso del vero e del reale, che era appunto ciò che
sostanzialmente mancava alle letterature preesistenti, ciò che era
necessario per dar finalmente origine alla prima fra le letterature
moderne.
Questi mercanti, educati solo al commercio ed alla piccola politica
municipale, non potevano di certo avere le idee, né lo spirito
abbastanza elevato e largo, l'intelletto abbastanza culto ed
ingentilito, per risolvere essi soli il difficile problema. Ed allora
appunto, nella piú operosa ed intelligente delle nostre repubbliche,
seguiva quella serie di grandi e radicali mutamenti, che abbiamo
esposti, i quali, attraverso lotte sanguinose, dopo una nuova
ricomposizione degli ordini sociali, la posero a un tratto in una
condizione fortunata davvero. In conseguenza delle guerre già fatte,
Firenze aveva adesso aperto tutte quante le vie al suo commercio, che
prese perciò un rapido, maraviglioso incremento; e poté cosí acquistare
una grande, né piú contestata preponderanza in tutta Toscana, di cui
era stato il centro e divenne il capo. L'antagonismo sorto tra il
Papa e gli Angioini, le mutate condizioni dell'Impero le permisero
di destreggiarsi abilmente fra di essi, assumendo per la prima volta
una vera, una grande importanza politica e storica in Italia. Cosí si
estesero in un medesimo tempo il giro dei suoi affari, e la cerchia
delle sue idee. I due ordini di cittadini piú intelligenti e piú
avversi, i mercanti cioè divenuti potenti, e i nobili costretti ad
accomunarsi con essi, furono nella loro aspra lotta trasformati, fusi
finalmente in un ordine solo, lasciando da una parte la plebe piú
rozza, e dall'altra quei Grandi, che aspiravano a signoria assoluta,
o restavano sempre troppo tenaci fautori delle consuetudini feudali, e
dell'autorità imperiale, ciechi avversari delle istituzioni comunali,
che pure erano destinate inevitabilmente a trionfare. C'è egli da
maravigliarsi, se si vide allora appunto sorgere il fiore piú bello
delle lettere e delle arti, e sotto il benefico soffio della nuova
libertà, della cresciuta uguaglianza, aprire le sue foglie, diffondere
i suoi effluvî nel mondo? Basta leggere le storie, basta svolgere
le leggi della Repubblica, per vedere come un nuovo spirito animi il
popolo, e quasi un nuovo sole sorga sull'orizzonte, in questi ultimi
anni del secolo XIV.
Ogni paragrafo dei cronisti ci annunzia nuove opere pubbliche di grande
importanza: piazze, canali, ponti, mura della Città. E insieme con
essi si vedono sorgere i piú immortali monumenti dell'arte moderna.
In questi anni Arnolfo di Cambio lavorò al Battistero, cominciò la
Chiesa di Santa Croce, e, secondo che scrivono, ebbe dalla Signoria,
con solenni parole, l'ordine di rinnovare affatto il vecchio duomo,
costruendone uno nuovo, «innalzandolo con la maggiore magnificenza
possibile alla mente dell'uomo, facendolo degno d'un cuore divenuto
grandissimo, per la unione di piú animi in uno solo».[125] Certo è che
allora egli pose la prima pietra di questa, che non pochi giudicano la
piú bella chiesa del mondo. E nello stesso tempo si conduceva innanzi
un altro grandissimo numero di monumenti e di opere pubbliche: S.
Spirito, Orsammichele, S. M. Novella. Nel 1299 lo stesso Arnolfo pose
mano anche al Palazzo dei Signori, un altro dei piú grandi monumenti
dell'arte moderna, nel quale sembrano impressi tutto il carattere
repubblicano, tutto il giovanile vigore, che animava il popolo
fiorentino in quei giorni. Nel medesimo anno si ripigliò la costruzione
delle nuove mura, abbandonata nell'85. E mentre che per tutto sorgevano
chiese, palazzi pubblici e privati, la mano di Giotto veniva con
profusa ricchezza a stendere sulle loro mura le sue immortali e solenni
composizioni; la scultura, emulando la pittura, ornava i templi
colle sue creazioni immortali, ed iniziava quella scuola toscana,
che doveva poi arrivare a Donatello, al Ghiberti, ai Della Robbia,
a Michelangiolo. E quali sono i nomi che piú di frequente troviamo
nella storia di questi anni, in mezzo alle lotte che promossero o che
seguirono gli Ordinamenti di Giustizia? Ad ogni piè sospinto, fra i
Priori, fra i Gonfalonieri e gli ambasciatori, in mezzo alle tumultuose
discussioni dei Consigli, incontriamo Dante Alighieri, Brunetto Latini,
Giovanni Villani, Dino Compagni, Guido Cavalcanti, i creatori della
poesia e della prosa italiana. La _Divina Commedia_ è piena d'allusioni
continue a questi eventi, tra i quali è nata, e nei quali si direbbe
che vive un solo e medesimo spirito, perché, sotto mille forme diverse,
apparisce sempre uguale a se stesso. Gli Ordinamenti di Giustizia
adunque non sono l'opera d'un uomo solo, quasi capriccio improvviso
di Giano della Bella; ma sono il risultato di molte rivoluzioni, uno
Statuto che ci dimostra e ci spiega quale era la forma definitiva che
prese, quale il carattere che ebbe la repubblica fiorentina, carattere
che, in una forma assai meno splendida, ove piú ove meno, ebbero anche
gli altri Comuni italiani, dei quali essa restò sempre il tipo piú
originale o luminoso.

NOTA
Dobbiamo qui accennare ad una questione recentemente sollevata a
proposito degli Ordinamenti di Giustizia. Il Salvioli ed il prof.
Pertile, ricordando alcuni Statuti bolognesi del 1271 contro i
Grandi, facevano supporre che da essi fossero stati imitati gli
Ordinamenti fiorentini del 1293. Questi Statuti del 1271, non
essendo però stati mai ritrovati, l'ipotesi fece poco cammino.
Il prof. Gaudenzi, pubblicando nel 1888 (Bologna, Tipografia
fratelli Merlani) gli _Ordinamenta sacrata et sacratissima_
di Bologna del 1282 e 84, notò la grande somiglianza che essi
avevano cogli Ordinamenti di Giustizia del 1293, e credette non
potervi essere piú dubbio, che questi fossero imitati da quelli.
Anzi andò piú oltre, affermando addirittura «che in genere i
rivolgimenti e gli ordini di Firenze non furono che l'imitazione
di quelli di Bologna». (Prefazione, pag. v).
Che questa ultima affermazione vada assai oltre i limiti
del giusto, fu già notato dal Dott. Hartwig nel suo ultimo e
pregevole lavoro sulla storia fiorentina (_Ein menschenalter
florentinische Geschichte_ — 1250-1293 — (Freiburg, 1889-91),
estratto dai volumi 1, 2 e 5 della _Deutsche Zeitschrift für
Geschichtwissenschaft_). Ed invero le leggi e le istituzioni
di Firenze scaturiscono assai direttamente dalla storia della
società e delle rivoluzioni fiorentine, che sono molto diverse da
quelle di Bologna.
Quanto all'altra questione, se cioè gli Ordinamenti fiorentini
del 1293, derivino veramente da quelli bolognesi del 1282,
io ne dubito assai, e credo in ogni modo che a risolverla
definitivamente siano necessarie ancora nuove ricerche speciali
negli Archivi di Firenze, le quali diano compimento a quelle
già fatte dal prof. Gaudenzi in Bologna. Mi limito intanto ad
osservare: 1º Che la lotta del popolo contro i Magnati, e le
leggi severe, spesso crudeli, contro di essi, non sono un fatto
proprio esclusivamente di Firenze, ma un fatto invece assai
generale nella storia dei nostri comuni. Ciò non esclude le molte
diversità di queste lotte e di queste leggi nei vari Comuni,
non ostante le non poche somiglianze. E quindi per dimostrare
se e fino a qual punto gli Ordinamenti di Bologna siano stati
il modello di quelli di Firenze, non basta paragonare gli uni
cogli altri, e notare le rispettive loro date. Risulta certamente
provato da quanto noi abbiam detto qui sopra, e fu poi nuovamente
confermato da tutte le ricerche posteriori dell'Hartwig, del
Del Lungo, del Perrens, che gli Ordinamenti fiorentini sono
la sintesi di altre leggi molto piú antiche contro i Grandi,
leggi che qualche volta letteralmente riproducono. Essi stessi
ne citano una del 1286, piú volte ricordata dagli storici, e
noi vedemmo che le Consulte del 1282 ricordano già un'altra
legge piú antica contro i Grandi. Queste leggi anteriori sono
le fonti vere degli Ordinamenti fiorentini, i quali però non
solo abbattono i Grandi, come fanno anche gli Ordinamenti di
Bologna; ma danno il governo in mano alle Arti maggiori, il che
a Firenze era già cominciato nel 1250. In questo doppio fatto
si ritrova il loro vero e proprio carattere. Bisogna continuare
a ricercar queste leggi negli Archivi fiorentini e paragonarle
con quelle di Bologna, prima di potere affermare con sicurezza
che gli Ordinamenti di Giustizia, cosí connessi con tutta la
storia fiorentina, siano copiati da quelli di Bologna. Il prof.
Gaudenzi è stato con la sua pubblicazione assai benemerito degli
studi storici. Ma ripeto che, a mio avviso, per risolvere davvero
la questione, occorrono nuove indagini in Firenze. A questo
lavoro attende ora il sig. Salvemini, ed io gli auguro che possa
arrivare a qualche nuovo ed utile resultato. Il problema è tale
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