I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 01

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I PRIMI DUE SECOLI
DELLA
STORIA DI FIRENZE

RICERCHE
DI
PASQUALE VILLARI
VOL. SECONDO
ED ULTIMO

IN FIRENZE
G. C. SANSONI, EDITORE
1894


PROPRIETÀ LETTERARIA
Tip. di G. Carnesecchi e figli, Piazza d'Arno, 1


CAPITOLO VII[1]
LA FAMIGLIA E LO STATO NEI COMUNI ITALIANI[2]

I
È certo che non si potrà mai scrivere una vera storia nazionale
d'Italia, se prima non saranno pubblicati, esaminati, studiati, con
dottrina storica e giuridica ad un tempo, gli Statuti e le leggi dei
nostri Comuni. Questo fu un desiderio espresso prima dall'illustre
Savigny, e dopo di lui da molti Italiani, senza essere stato ancora
pienamente soddisfatto. Lo studio degli Statuti e delle leggi ci
farebbe conoscere il diritto pubblico dei Comuni, e porrebbe sotto
i nostri occhi un quadro chiaro e preciso delle loro politiche
istituzioni, che noi ancora intendiamo assai poco. Ma, quello che non
è di certo meno importante, ci farebbe conoscere del pari il nostro
antico diritto civile, nel quale, secondo la opinione di molti dotti,
fra cui citerò Francesco Forti, si trovano le origini del moderno
diritto, i germi di molte disposizioni giuridiche, che noi accettammo
piú tardi dal Codice francese, come cosa nuova.
Il diritto pubblico e privato hanno fra loro un'attinenza maggiore
assai di quel che molti sembrano credere; l'uno ci apre a vicenda
la piú chiara e precisa intelligenza dell'altro. La società, lo
Stato nascono dalla famiglia, e a lor volta agiscono su di essa e la
modificano. Chi vuol trovare adunque la vera chiave delle istituzioni
politiche, quando esse spontaneamente si svolgono in un paese, non
deve dimenticare la costituzione della famiglia, nella quale sono le
prime origini del diritto civile, a cui si collega piú o meno anche il
diritto pubblico. Spesso, è vero, noi vediamo un popolo accettar da un
altro le leggi civili, senza mutare le proprie istituzioni politiche,
o viceversa; spesso anche la forza straniera impone d'un tratto le une
o le altre. Ciò ha fatto credere a molti che esse non abbiano fra loro
il legame che veramente hanno. Ma questi casi non risguardano quello
svolgimento naturale e spontaneo del diritto, del quale ora parliamo.
In esso la politica e la giurisprudenza, lo Stato e la famiglia sono
strettamente connessi.
Piú volte noi vediamo nella storia fiorentina scoppiare ad un tratto
rivoluzioni politiche, che sembrano inaspettate; studiandole però da
vicino, ci accorgiamo che esse accusano profondi mutamenti sociali,
già di lunga mano apparecchiati, i quali, invisibili dapprima, sono
poi divenuti cosí generali, da apparire come improvvisi agli occhi
di tutti, ed esser causa di riforme politiche. Cosí è che il diritto
privato, il quale accompagna sempre i movimenti sociali, e muta
con essi, ci fa non di rado scoprire le origini, spiegare l'indole
propria e la necessità inesorabile delle rivoluzioni, prima ancora che
avvengano. L'averne generalmente trascurato lo studio nella storia
d'Italia, è stato perciò un gran danno. Niuno crederebbe oggi di
poter fare la storia politica di Roma, senza punto occuparsi della
sua giurisprudenza. Eppure abbiamo mille volte scritto e riscritto
la storia delle nostre repubbliche, senza occuparci della loro
legislazione civile e penale.
Un tale lavoro presenta, in vero, grandissime difficoltà, perché
la nostra storia è soggetta, nel Medio Evo, ad una serie di vicende
sempre rapide, sempre diverse. Le repubbliche sono per numero infinite;
ogni provincia italiana, ogni brano di terra si divide e suddivide
in Comuni, ciascuno dei quali ha la sua propria storia, ed una forma
politica che di continuo muta. E gli Statuti rendono fedele immagine
di questa perenne mutazione. Nei loro margini troviamo le varianti
e correzioni d'anno in anno registrate, spesso formulate dopo che
furon prima insanguinate le strade della città. Quando le postille
o correzioni sono arrivate ad un certo numero, si fa una nuova
compilazione dello Statuto, e anche di queste se ne trova un gran
numero. Gli ufficiali _statutarî_ hanno incarico di apparecchiare,
di tempo in tempo, le nuove e continue modificazioni, che vengono
poi approvate nei Consigli del popolo. Cosí ci segue qualche volta,
che apriamo lo Statuto compilato in un dato anno, e vi troviamo
minutissimamente descritte le attribuzioni d'uno dei primi magistrati
della Repubblica; guardiamo alle postille, e queste attribuzioni
sono già mutate; pigliamo la nuova compilazione dello Statuto, ed il
magistrato stesso piú non esiste. Come fare allora, per dare una giusta
idea della forma politica d'un tal municipio? Non v'è altro modo che
raccogliere da tutti i suoi Statuti, la storia della costituzione nelle
sue forme successive. Bisogna, in una parola, riconoscere che non siamo
in presenza d'una istituzione cristallizzata, immobile, immutabile;
ma che sotto i nostri occhi è invece un organismo vivente, il quale si
svolge secondo una legge determinata. Questa legge sola è costante; è
dessa che dobbiamo cercare, perché essa sola ci può svelare il mistero,
e darci idee precise.
Se ci rivolgiamo poi dal pubblico al privato diritto, le difficoltà
crescono invece di scemare. Quando noi leggiamo questa parte, che non
è certo la meno importante dello Statuto, ci accorgiamo che in essa
sono unite molte legislazioni diverse, spesso anche contradittorie, le
quali s'intrecciano e si combattono. La _mèta_ e la dote, il mundio
e la tutela, il testamento ed il patto successorio, il guidrigildo,
il _morgengab_; diritto longobardo, romano, feudale, canonico, sono
in presenza, coesistono in proporzioni sempre diverse. E queste varie
legislazioni agiscono l'una sull'altra, alterandosi a vicenda: nel
diritto romano filtrano continuamente disposizioni, che dobbiamo
attribuire al diritto longobardo, il quale poi è profondamente
alterato, mutilato, castrato, come dice il Gans, dal romano. Quale è
dunque il concetto che domina in siffatto impasto di leggi diverse?
V'è egli un principio nuovo, originale, che assimila gli elementi
eterogenei e costituisce un nuovo diritto? Quale è desso? Ecco il
difficile problema, che il Savigny c'incoraggiava a risolvere, e che
noi ancora non abbiamo risoluto. Se però il problema non è risoluto,
la sua importanza è oggi ammessa da tutti; molti lavori, molte
pubblicazioni, alcune delle quali importantissime, si sono fatte.
Qualche osservazione si può finalmente esporre.
La costituzione della famiglia e le sue relazioni con lo Stato, sono
come il centro principale intorno a cui si debbono aggirare le nuove
ricerche, e formano anche il soggetto di questo breve e sommario
lavoro. La soluzione d'un tale problema richiede, innanzi tutto, un
esame accurato delle varie forme che assunse la famiglia nelle diverse
legislazioni che si successero in Italia, per venir poi a vedere
come dalla riunione di queste varie forme ne risultò un'altra non
poco diversa. La prima questione che si presenta, risguarda perciò
le condizioni in cui erano il diritto e la famiglia romana, quando
vennero fra noi i barbari. Trattandosi di Comuni italiani, è ben
naturale che la giurisprudenza di Roma sia quella che mise piú tenaci
e profonde radici nella società, e che la storia delle nostre leggi
trovi in essa la sua prima origine. Noi siamo quindi costretti a fare
una digressione, che parrà in sul principio oziosa, ma ci aiuterà poi
a meglio comprendere la società nuova, che si anderà formando. Oltre
di che lo studio del diritto romano fu soggetto di tante e cosí dotte
ricerche, che possiamo venire a conclusioni certe, le quali, ponendo
in evidenza lo stretto legame della famiglia romana con la società
politica che ne derivava, ci aiuteranno a trovare la via da seguire,
per ritrovare questo medesimo legame nella storia italiana.

II
Chi dice diritto romano, dice due parole solamente; ma chi studia
le _Pandette_ s'accorge che esse sono la sintesi d'un lungo lavoro
precedente, un'ultima forma di giurisprudenza, che non si può
ben capire, senza l'analisi di tutti gli elementi storici che la
prepararono e la costituirono. E allora subito la storia del diritto
romano si trasforma come in una storia di molte legislazioni diverse,
le quali si succedono di tempo in tempo. Dalle XII Tavole fino a
Giustiniano, questo diritto non s'arresta un'ora sola nel suo continuo
svolgimento. Anche nel Medio Evo, quando glossatori e commentatori
lo studiavano con religiosa devozione, nelle raccolte compilate a
Costantinopoli, e non volevano far altro che riprodurlo fedelmente
e diffonderlo; anche allora esso si trova nelle loro mani alterato,
senza che se ne avvedano, trascinati come sono dai tempi mutati e
dai nuovi bisogni sociali. Solo nel secolo XV si può dire che questo
storico svolgimento cessi del tutto fra noi, e che il diritto romano
divenga piú che altro un soggetto di erudite ricerche. Apparisce allora
manifesta la storia e la vita propria d'un nuovo diritto moderno,
il quale ha già una sua forma indipendente, sebbene anch'esso, in
parte non piccola, derivi dal romano, che perciò continua ad avere un
grandissimo valore e si studia anche oggi da noi con ardore, ma con uno
scopo assai diverso da quello che si aveva nel Medio Evo. Si tratta ora
di conoscere un monumento immortale dell'antica sapienza, di formare
con esso la nostra educazione giuridica, di meglio intendere i nostri
codici, di contemplarlo nelle sue successive manifestazioni, ricercando
la legge che le regola. Questa legge infatti, appena che fu trovata,
gettò una luce nuova sulla storia di tutto il diritto romano; perché
si vide che essa lo dominò sempre, senza interruzione, in maniera da
fargli prendere un carattere cosí costante e continuo nelle sue varie
trasformazioni, che quella apparente successione di legislazioni
diverse si mutò di nuovo ai nostri occhi, sí che ci sembra ora di
assistere come all'evoluzione d'una stessa idea, allo svolgimento
progressivo d'un'opera della natura.
Tutto questo cammino, questa evoluzione fu il risultato di due forze,
di due elementi diversi. A Roma v'era stato in origine un diritto, il
vero e proprio diritto dei Quiriti, del quale troviamo gli avanzi nelle
XII Tavole, severo, ristretto, pieno di formole, la cui osservanza,
tenuta come sacra, era affidata ad un piccolo numero di cittadini,
di cui la scienza era occulta e l'autorità era sanzionata dalla
religione. Il piú piccolo errore nella forma annullava il piú giusto
diritto, e quando la legge non determinava la formola da osservare,
mancava ogni efficace azione giuridica. Il dolo, l'inganno non potevano
sciogliere un contratto, se la formola che doveva legare era stata
una volta pronunziata: _Ut lingua nuncupassit ita ius esto_. Schiavo
delle forme, il giudice non poteva ascoltare la voce della morale
e della buona fede; il piú giusto lamento lo trovava indifferente,
se non era appoggiato ad un testo di legge. Il difensore non osava
muovere un passo, se non era continuamente guidato dal legislatore,
perché ogni forma giuridica era inviolabile e sacra, e la scienza
del diritto, fatta monopolio del Collegio dei Pontefici, il corpo piú
aristocratico e conservatore che fosse in Roma, divenne una specie di
scienza occulta. Eppure questo carattere, in apparenza cosí ristretto
e pedantesco, fu quello appunto che dette la sua gran forza alla
legge in Roma. Liberato per la prima volta il diritto da ogni elemento
estraneo, proprio della morale o della buona fede, esso divenne fermo
ed inesorabile. Chi aveva in suo favore la legge, era sicuro di vederla
prontamente eseguita: nella storia non s'incontra mai una sanzione e
riparazione legale cosí pronta e sicura come quella che aveva luogo
a Roma. Ad Atene, infatti, dove le leggi erano piú filosofiche, e la
coscienza popolare giudicava, ricercando le intenzioni, disprezzando le
formule, mirando alla sostanza, l'arbitrio facilmente signoreggiava,
e il diritto non ebbe mai la fibra ferrea e tenace della romana
giurisprudenza.
Se non che, col mutare dei tempi, ogni cosa mutava in Roma. Questa
giurisprudenza, rispettata come sacra, che il Vico chiamò _tutta di
formole, tutta di umani parlari_, era propria d'un popolo rozzo e
primitivo. Ai tempi di Cicerone le idee erano già tanto mutate, che
egli, nella sua orazione pro Murena, fece la piú amara satira d'una
scienza divenuta ai suoi occhi ridicola: _res enim sunt parvae,
prope in singulis literis atque interpunctionibus occupatae_. Egli
la riteneva perciò un'impostura dei sacerdoti, i quali ne volevano
soli far monopolio. Aveva ragione o torto? Il Vico, esaminando una
tal questione, dimostrò come Cicerone si fosse ingannato. Questi ed
i suoi contemporanei, egli disse, vivevano in tempi troppo culti,
per comprendere la primitiva e rozza giurisprudenza; essi non ne
intendevano piú il vero significato, e giudicavano le leggi antiche
colle idee e i principi d'una età nuova. Un tale concetto, messo
in luce la prima volta nella _Scienza Nuova_, fu poi da molti altri
accolto, e venne sempre piú confermato che il primitivo diritto di
Roma non fu un artificio di pochi dotti, ma un prodotto spontaneo e
necessario del popolo in mezzo a cui nacque.
Dapprima il costume, chiaramente distinto dal diritto già formulato e
scritto, ne temperò la troppo dura rigidezza. La buona fede e l'equità,
non curate, respinte dalle leggi, trovarono la loro sanzione nei
costumi; ebbero i loro tribunali propri, e furono sempre rispettate,
perché il magistrato, a cui ne era affidata la tutela, pronunziava
una sentenza, non legale, ma morale, che aveva però la sua grande
efficacia, come genuina espressione della pubblica opinione. La sua
condanna non costringeva, è vero, colla forza, ma portava l'infamia,
ed egli poteva da ultimo menar l'accusato dinanzi al popolo, giudice
e legislatore supremo. Piú tardi però i costumi si corruppero,
e non bastarono piú a tutelare la pubblica fede e la morale, che
furono costrette a cercare un asilo ed una sanzione nel diritto,
cominciando cosí, a poco a poco, ad alterarne il primitivo carattere.
La sostanza prevalse allora sulla forma, l'equità sull'antico testo
di legge, la intenzione dei contraenti sulle parole pronunziate per
errore: il diritto divenne piú morale, a misura che i costumi furono
piú corrotti. Questa trasformazione, cominciata assai lentamente,
fu poi accelerata dalle nuove condizioni della Repubblica, nella
quale avvenne qualche cosa che si può paragonare a ciò che seguí
nella storia della scienza, verso il principio del secolo XVII. I
vari Stati d'Europa, colle loro diverse leggi, avendo stretto nuove
relazioni, si videro allora nella necessità di ritrovare alcune norme
di diritto comune, e cosí sorse con Ugo Grozio, quella che si chiamò
la scuola del Diritto Naturale. Non nella scienza, ma nella pratica
del diritto, seguí lo stesso a Roma. A misura che il dominio della
Repubblica si stendeva nell'Italia, aumentavano le sue relazioni coi
popoli vicini, nelle cui leggi prevalevano i principi piú filosofici
e meno severi della giurisprudenza greca. Non era possibile imporre
a tutti, senza alterarlo, il rigido diritto dei Patrizi romani. Si
formò quindi e crebbe rapidamente un nuovo diritto, comune, naturale,
piú largo, che si chiamò _delle genti_, a differenza dell'altro,
che fu detto _civile_. _Ius gentium est quod naturalis ratio inter
omnes homines constituit_. Esso non veniva però dedotto da principi
filosofici sull'umana natura, come nel secolo XVII il diritto naturale
propriamente detto; nasceva invece, per necessità pratica, dalle
nuove relazioni dei Romani coi popoli italici; era alimentato dai
principî della greca giurisprudenza filtrata nell'Italia meridionale;
rispondeva ai nuovi bisogni di Roma stessa, e pigliando il posto che
prima tenevano i costumi nei giudizî romani, crebbe accanto al diritto
dei Patrizi, e continuò lungamente insieme con esso. Cosí vi furono a
Roma due diritti. E quindi si ebbero da un lato giudici e giudizî che
restarono fedeli al vecchio formalismo; dall'altro giudici e giudizî
che tennero conto dell'equità, della buona fede, sostituendo quasi
l'ufficio del Censore. Il continuo e progressivo avanzarsi del diritto
delle genti, l'azione che le due giurisprudenze esercitarono l'una
sull'altra, per confondersi finalmente in una sola, nella quale il
vecchio formalismo romano andò perdendo la sua rigidezza, e il diritto
d'equità, incorporandosi col civile, andò pigliando forme piú regolari
e determinate, sono conseguenza della legge che domina la vita e la
storia del diritto romano, si può dire anzi che la costituiscano. Esso
si è formato e diffuso nel mondo, ereditando dagli antichi Quiriti
uno scheletro di ferro, e dal contatto cogli altri popoli, dai germi
che cosí poté assimilarsi della cultura greca, ereditando uno spirito
piú generale, piú largo, piú umano. In tal modo raggiunse quella sua
forma matematica e filosofica ad un tempo, e sembrò che divenisse il
diritto universale per eccellenza, quasi il fondamento necessario
di tutte le legislazioni. Il Pretore fu colui che promosse questo
giuridico connubio; rappresentò lo spirito nuovo e lo spirito vecchio,
allargando l'antico diritto con le eccezioni di equità, la quale egli
rese piú severa, sottoponendola alla procedura tradizionale. Questo in
sostanza è ciò che ebbe luogo nei costumi, nelle lettere, in ogni cosa.
La fusione della cultura greca e della romana è la storia del mondo
antico.

III
E ciò, come è naturale, si riscontra anche nella storia della famiglia,
dalla quale scaturisce in gran parte il diritto civile. Chi infatti
guarda la primitiva famiglia romana, vi ritrova subito la base su cui
si costituí poi la futura grandezza giuridica e politica di Roma. La
famiglia è sacra; il padre è padrone dei beni, della libertà, della
vita cosí della moglie, come dei figli. Egli è sacerdote, giudice,
arbitro supremo: moglie, figli, nipoti formano con lui una stessa
associazione, una sola persona giuridica, da esso rappresentata. La
donna può essere venduta, uccisa, rivendicata in giudizio, come una
schiava; libera appena dalla tirannia paterna, ricade sotto quella
degli agnati, e la sua incapacità giuridica l'accompagna per tutta
la vita. Ma i primitivi costumi temperano per modo questa dura legge,
che non si trova nell'antichità un altro popolo, il quale abbia uguale
ossequio alla santità della famiglia, uguale rispetto alla donna. Il
matrimonio è chiamato: _consortium omnis vitae, divini et humani iuris
communicatio_. Il divorzio per parte del marito (_repudium_) non è
proibito dalla legge; ma colui che ripudia la moglie, è disonorato
dal Censore, scomunicato dal sacerdote, ed in cinque secoli di rado
se ne trova qualche esempio. In Grecia si trovano ancora tracce della
poligamia orientale, ma in Italia la monogamia è antica quanto Roma.
I figli naturali non formano mai parte della famiglia, sebbene si
possano legittimare. L'adozione è un atto solenne, la cui moralità è
affidata alla sorveglianza del Pontefice, custode della santità della
famiglia, ed è sottoposta alla sanzione del popolo. La donna non si
vede in piazza, fra le riunioni popolari; ma nella casa è _domina_,
e cosí la chiama il marito. L'_atrium_ è il centro e santuario della
casa. Ivi si radunano parenti, amici e stranieri; ivi è il focolare
domestico, con l'altare degli Dei Lari, e gli oggetti piú sacri della
famiglia; il letto nuziale; le immagini degli avi, calcate in cera sul
volto degli estinti; la rócca; il fuso della matrona; il forziere in
cui sono i registri e i denari della casa. E tutto ciò è affidato alla
custodia e direzione della madre di famiglia, che sacrifica col marito,
e con lui amministra il patrimonio comune: essa veglia ai lavori
domestici, all'educazione dei figli. Negli annali e nelle leggende di
Roma, il nome di una qualche eroina, come Virginia o Lucrezia, è sempre
congiunto alle glorie maggiori della Città Eterna: non cosí in Grecia.
Quando i Romani fondarono e santificarono la famiglia, essi posero la
prima pietra del Campidoglio.
Ma per mantenere sempre stretto e compatto questo nucleo primitivo
della società romana, la legge deve vegliar sempre con gelosa
accortezza, e moltiplicare le sue prescrizioni. Bisogna tenere unita
la proprietà di famiglia quanto piú lungamente e piú rigorosamente
si può. Il padre ne è il padrone e l'arbitro; ma alla sua morte, il
patrimonio si divide in parti uguali tra i figli e le figlie. L'unità
della famiglia allora deve essere protetta, difesa dalla legge, perché
il pericolo maggiore le viene dalla donna, che, andando a marito,
porta fuori di casa la proprietà domestica. Essa viene quindi dalla
legge sottoposta ad una continua tutela, che le impedisce di disporre
ad arbitrio de' suoi beni. Morto il padre, la donna cade sotto la
tutela degli agnati. I giureconsulti del tempo di Cicerone, quando
s'era, come notò il Vico, perduto il vero significato del primitivo
diritto romano, credevano che questa tutela fosse su di lei stabilita
a cagione della sua fragilità, _propter sexus infirmitatem_. Ma Gaio
notò l'errore d'una tale opinione, che egli chiama volgare e speciosa,
dichiarando che la tutela era stabilita invece nell'interesse degli
agnati; affinché la donna, di cui erano eredi presuntivi, non potesse
alienare, diminuire l'eredità, o in qualunque modo defraudarli.[3]
Fino a che la donna restava sotto la tutela paterna, essa non aveva
ereditato ancora, e la legge le permetteva perciò di assumere obblighi
giuridici; ma alla morte del padre, ereditava, e cominciava quindi
per la famiglia il pericolo; laonde allora appunto essa cadeva sotto
la tutela degli agnati, suoi eredi, e non poteva piú obbligarsi senza
il loro consenso. La tutela era dunque per gli agnati non solo un
dovere, ma anche un diritto ed una proprietà. Se l'agnato era minore,
incapace o alienato di mente, non perdeva il suo diritto, salvo a farlo
esercitare da un terzo. Il tutore costituiva la dote, che era della
donna; ma il resto del patrimonio di lei doveva restare intatto, per
tornare poi agli agnati della famiglia. Essa non poteva testare, perché
non doveva aver diritto di defraudare la famiglia. Venendo però sotto
la _manus_ del marito, la donna subiva una _capitis deminutio_, entrava
quasi _loco filiae_ in un'altra famiglia, e allora suoi eredi legittimi
essendo i nuovi parenti, la legge le consentiva di testare, perché cosí
poteva, non ostante la nuova parentela, far tornare il patrimonio alla
sua originaria famiglia.
Quando la donna era nella _manus_ del marito, usciva dalla patria
potestà e dalla tutela degli agnati. Pure la gelosia della sua propria
famiglia era tale, che si cominciò ben presto a fare un matrimonio per
semplice consenso, secondo il quale la donna veniva personalmente sotto
l'autorità del marito, senza che questi avesse su di lei la _manus_,
il che gli veniva a togliere la potestà sui beni di lei. In tal modo
essa restava ad un tempo sotto la potestà del padre o degli agnati, e
sotto quella del marito, dal che nascevano collisioni inevitabili, le
quali accelerarono quella che doveva essere, col tempo, la piú profonda
alterazione della famiglia romana: la piena indipendenza della donna.
Ma prima d'arrivare a ciò, i conflitti trovarono, per lungo tempo, un
freno ed un efficace rimedio in un potere mediatore, in una istituzione
di somma importanza: il tribunale domestico. Regolato dai costumi
e non dalla legge, questo consiglio di famiglia si componeva degli
agnati, cognati, propinqui, e qualche volta vi pigliavano parte anche
gli amici. Esso presiedeva agli sponsali, al primo vestir della toga
virile; proteggeva gli orfani; assisteva il capo della famiglia nei
giudizî e nelle condanne, temperandone l'autorità. Secondo la legge,
il padre poteva agire anche senza il Consiglio; ma si esponeva alla
infamia ed alla pubblica disapprovazione del Censore, che, occorrendo,
l'accusava dinanzi al popolo. La donna nubile era sottoposta e
protetta da questo Consiglio. Maritata con la _manus_, usciva dalla
sua famiglia, per far parte d'un'altra; maritata senza la _manus_,
continuava invece ad essere sottoposta al Consiglio, in cui veniva ad
aggiungersi il marito.

IV
Al tempo di Cesare la famiglia romana non è piú quella di prima.
Tutto è mutato: leggi, costumi, idee ed ogni cosa s'avvia a sempre piú
radicale trasformazione. Il diritto delle genti ed il diritto civile
piú rigoroso sembrano divenuti una cosa sola. Il fide-commisso acquista
quasi la forza del legato, e forma come parte del diritto civile; il
contratto verbale, l'antica _stipulatio_, tanto schiava delle formole,
diviene cosí pieghevole da somigliare ad un contratto di diritto delle
genti. Ma piú di tutto è mutata la famiglia. Il focolare domestico
non è piú il tempio della casa. L'_atrium_ è trasformato in una corte
aperta, rallegrata da fiori e limpide fontane, ornata di busti dorati
e di statue, spesso oscene; in essa non si sacrifica piú agli Dei, nel
silenzio e nella castità dei domestici e sacri affetti; l'arricchito
e corrotto patrizio vi riceve i numerosi amici e clienti. L'antica
famiglia, una volta quasi Stato nello Stato, è ora disciolta e come
assorbita dal potere politico: gli agnati si separano; il tribunale
domestico non ha piú forza, o è scomparso; l'autorità paterna, divenuta
meno dispotica, pesa di piú, perché i mutati costumi non la sopportano.
Se il padre disereda il figlio, il giudice cancella il testamento;
se rifiuta il suo consenso al matrimonio di lui, lo Stato l'obbliga
a darlo; se lo punisce con la morte, l'Imperatore lo esilia; egli non
può neppure maltrattare gli schiavi senza essere punito dalla legge,
che è divenuta morale in mezzo alla cresciuta corruzione dei costumi.
La donna, a poco a poco, sfugge alla tutela ed alla _manus_; acquista
finalmente la sua indipendenza. Ma essa, sempre piú libera dalla
famiglia e dai suoi, si trova sempre piú sottomessa allo Stato, e nella
nuova indipendenza, ritrova incapacità nuove, le quali non derivano
piú dal suo essere moglie o figlia, ma dal suo essere donna, e non
sono stabilite nell'interesse della famiglia, ma create a tutela della
fragilità di lei. Ecco perché i nuovi giureconsulti s'ingannarono,
nell'interpretare il significato dell'antica tutela sulla donna.
La dote le è sempre piú garantita, e diviene finalmente quasi una
proprietà inseparabile da lei: non può alienarla, né diminuirla; ne
resta padrona se vedova, se divorziata, se torna nella casa paterna.
Il marito che scopre la moglie in adulterio, non può piú giudicarla e
punirla col consenso del tribunale domestico, nascondendo o soffocando
la vergogna fra le pareti domestiche. Egli deve essere vendicato
dallo Stato, e deve ricorrere al giudice anche per le pene minori.
Il divorzio è divenuto un atto pubblico, assai frequente. La donna,
insomma, non è piú sotto la mano del marito, né sotto la patria
podestà, né sotto la tutela degli agnati, ma è protetta dallo Stato.
Quando la legge richiede ancora un tutore o procuratore, essa può
scegliere un estraneo, che diviene il suo servo, piuttosto che il suo
padrone, fino a che anche quest'ultima ombra di soggezione scomparisce.
Padrona di sé, ella possiede, si arricchisce, fa testamento, si
corrompe; ma la sua dote, garantita e mantenuta intatta dalla legge,
l'accompagna per tutta la vita.
Nondimeno la donna ancora non ha diritti uguali ai maschi, nella
successione. Alla morte del padre, è vero, le viene _ab intestato_
una parte della eredità, uguale a quella dei fratelli; ma in tutti
gli altri casi, le agnate piú prossime vengono dopo gli agnati piú
lontani. La donna non può ora fare per altri alcun atto in giudizio, il
che prima non le era vietato; non può testimoniare; non può impegnarsi
pei debiti altrui. Il Senato-consulto Velleiano stabilisce, con norme
determinate, e in parte rispettate fino ai nostri giorni, che la
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