I primi due secoli della storia di Firenze, v. 2 - 12

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ad nuptias properat_. Si rallegrino gli oppressi, che la loro salute
è vicina. Perdonino, perdonino coloro che come me hanno sofferto
ingiurie, perché ora il Pastore, mandato da Dio, ci ricondurrà tutti
all'ovile».[238] Ma piú tardi, quando Arrigo stava per andar contro
Cremona, e i Fiorentini già gli si erano dichiarati aperti nemici, la
gioia dell'Alighieri si mutò in ira, e dalle sorgenti dell'Arno, sui
monti del Casentino, scriveva il 31 marzo 1311, una nuova Epistola
indirizzata: _Scelestissimis Florentinis_. «Non sapete voi che Iddio ha
ordinato il governo del genere umano sotto un solo Imperatore, a difesa
della giustizia, della pace, della civiltà, e che l'Italia fu sempre in
preda alle guerre civili ogni volta che l'Impero mancò? E osate, voi
soli, ribellarvi al giogo della libertà, e cercare nuovi regni, come
se _alia sit florentina civitas, alia sit romana_? Voi, vanissimi ed
insensati, soccomberete all'aquila imperiale. Non sapete che la libertà
vera sta nell'obbedire volontariamente alle leggi divine ed umane? E
mentre che presumete di volere la libertà, cospirate contro tutte le
leggi!»[239] Quando poi Arrigo, invece d'andare innanzi, si fermava in
Lombardia a combattere le città sollevategli contro dai Fiorentini,
lo sdegno di Dante arrivò al colmo, ed il 16 di aprile dello stesso
anno gli scriveva nuovamente: «Si dice che tu esiti nella tua impresa,
e che, scoraggiato, vuoi tornare indietro. Ma non sei tu dunque
l'aspettato da tutti noi? Quando le mie mani toccarono i tuoi piedi, io
esultai, esclamando: _Ecce agnus Dei, ecce qui abstulit peccata mundi_.
Che indugi? Se non ti muove la tua propria gloria, ti muova quella
almeno di tuo figlio:
Ascanium surgentem, et spes haeredis Iuli
Respice, cui _regnum Italiae_, romanaque tellus
Debetur...
(_Aen_, IV, 272).
A che ti giova fermarti a sottomettere Cremona? Insorgeranno Brescia,
Bergamo, Pavia, altre città, fino a che non estirperai la radice
del male. Ignori tu forse dove riposa e cova la fetida volpe? Essa
s'abbevera nell'Arno, che avvelena con le sue labbra. Non sai che si
chiama Firenze? Questa è la vipera che s'avventa al seno della madre,
la pecora che corrompe il gregge, la Mirra incestuosa col padre.
Infatti è dessa che dilania il seno della madre Roma, che la fece a
sua similitudine, e viola gli ordini del Padre dei fedeli, che è teco
d'accordo. E mentre che dispregia il proprio sovrano, parteggia con
re non suo, diritti non suoi. Dunque non esitare, e colla frombola
della tua sapienza, colla pietra della tua fortezza abbatti il nuovo
Golia».[240]
Questo linguaggio scolastico, biblico e classico ad un tempo, spesso
anche ampolloso, dipinge mirabilmente le idee del tempo, e dimostra
quanto si fosse esaltato lo spirito di Dante. Egli è certo il primo
che chiaramente esponga il nuovo concetto dei Ghibellini, che s'era
andato svolgendo e maturando nella sua mente, quando egli si separò
sdegnosamente dai compagni d'esilio, per chiudersi nello studio. Questo
concetto che, come già dicemmo, trovasi ampiamente delineato nella
_Monarchia_, era di certo piú teorico e letterario, che pratico; ma
esso aveva profonde radici nelle idee del tempo, e nel libro che lo
espone si vede già assai chiara la tendenza del secolo a trasformarsi.
Leggendo, noi siamo assai spesso ricondotti nel Medio Evo, ma una nuova
aurora biancheggia pure dinanzi ai nostri occhi. «L'Impero rappresenta
il diritto, che è il saldo fondamento dell'umana società; deriva perciò
da Dio, da cui l'Imperatore riceve il suo potere, non altrimenti che il
Papa». Come si vede, è già la società laica, indipendente, emancipata
dalla Chiesa, ed è la prima volta che l'idea d'uno Stato fondato sul
diritto, idea ispirata dall'antica Roma, suggerita da nuove necessità
pratiche, viene formolata in sull'uscire dal Medio Evo, che l'aveva
negata. Dante però non s'accorge che il nuovo Stato deve di sua natura
essere nazionale, e non vede che l'Impero universale, rappresentato
da Arrigo VII, che egli invoca, è quello appunto che rende impossibile
questo Stato. Cosí ciò che v'ha di nuovo, quasi di profetico, nel suo
libro, è distrutto da ciò che vi ha di teorico e di scolastico. Lo
Stato laico, indipendente, che egli già vede con la sua gran mente,
deve trionfare; ma questo trionfo farà sparire l'Impero medioevale, di
cui egli, col suo libro, voleva scrivere l'apoteosi, e scriveva invece
l'epitaffio, come fu giustamente osservato. Eppure il concetto non solo
dello Stato, ma dello Stato nazionale, sebbene in confuso e da lontano,
piú d'una volta balena nel suo libro, svolgendosi faticosamente
attraverso il classicismo che risorge. L'Impero infatti è inseparabile
dalla Città Eterna, da cui deriva, di cui è l'erede. La venuta
dell'Imperatore a Roma, sua sede naturale, permanente, dovrà ricondurla
all'antica grandezza. E Roma e l'Italia non sono una sola e medesima
cosa? Arrigo VII è il rappresentante non solamente del diritto, ma
della pace, della libertà, della civiltà, e l'Italia troverà in lui la
fine delle sue miserie, la garanzia delle sue libertà. Non è egli il
padrone del mondo? Epperò nulla può desiderare di piú, e non potrà non
essere a tutti giusto signore e padre, rispettando tutti i diritti e
le giurisdizioni legalmente acquisite. Ma era appunto questo suo voler
esser signore di tutto e di tutti, ciò che si opponeva a quello spirito
nazionale, che già si cominciava a sentire da molti, e che, quasi a sua
insaputa, veniva cosí vivamente esaltato dall'Alighieri, nel momento
stesso che lo negava col chiedere la resurrezione dell'Impero.
Una tal contraddizione rendeva tragica davvero la condizione in cui lo
spirito di Dante si trovava. Egli era profondamente sincero e convinto
della verità delle sue idee. Pieno di santo sdegno contro coloro che
aiutavano il Papa e gli Angioini, memore di ciò che aveva visto operare
da Bonifazio VIII e da Carlo di Valois in Firenze, prevedeva, quasi
vedeva le molte calamità che i suoi avversari avrebbero, colla loro
ostinazione, fatto ripiombare su tutta Italia. Ma non vedeva che il suo
concetto politico avrebbe ricondotto l'Italia al Medio Evo feudale,
resa vana l'opera dei Comuni, e le loro lotte secolari, alle quali
egli stesso non era stato estraneo. In mezzo a questo conflitto, che
era nella sua mente, nacque la Divina Commedia, nella quale due mondi
sono in presenza, spesso a contrasto, ed uno spirito nuovo, rianimando
il passato, lo trasforma e ne fa sgorgare l'avvenire, un'arte, una
letteratura, una civiltà nuova. Nel grande poema la realtà umana delle
passioni e della vita, penetrando nelle mistiche nebbie del Medio Evo,
le dissipa finalmente per sempre. Il filosofo, lo storico vi trovano
quindi tutti gli elementi che costituirono quel secolo, in cui una
società muore, ed un'altra, quasi sotto i nostri occhi, apparisce e
si forma. Ma se da tale conflitto sgorgò una poesia immortale, non ne
sgorgò, e non poteva, una politica pratica.
Ed era ciò che dava il vantaggio ai Fiorentini, i quali si tenevano
invece stretti alla presente a prossima realtà. Essi contavano e
pesavano le balle della seta e della lana; calcolavano di quanto
sarebbero, col trionfo dell'Impero in Italia, diminuite la loro
importazione e la loro esportazione; e vedevano in esso la rovina
del loro commercio; il trionfo dei loro nemici, dei Grandi, di Pisa,
dei molti piccoli tiranni italiani; la rovina delle loro libertà e
del governo delle Arti. I fatti di Milano, di Cremona, di Brescia
non davano loro ragione? E perciò essi chiamavano a raccolta le città
guelfe, e nel nome d'Italia, della libertà e della comune indipendenza,
le confederavano a difesa contro lo straniero. Ma s'alleavano anche con
Roberto, e sposavano la causa della Francia e del Papa, il cui trionfo
sarebbe stato a sua volta, come fu di fatto, funesto alla libertà ed
alla indipendenza italiana. La nazione, noi lo abbiamo già detto,
poteva cominciare a formarsi solo colla distruzione, sulle rovine
dell'uno e dell'altro partito. Il lungo e faticoso processo di storica
evoluzione, che doveva apparecchiare un avvenire lontano, era allora
ignoto a tutti. I Fiorentini pensavano solo a salvare il presente, ed
in ciò ebbero ragione e furono fortunati.

X
Intanto Arrigo VII, vittima coronata del proprio fato, come dice il
Del Lungo, s'avanzava impassibile, fidente. Il dolore di avere egli,
re pacifico, insanguinate le città italiane, e seminata la discordia;
la perdita del fratello, e della moglie; la morte dei suoi migliori
soldati; l'abbandono di molti amici; il sarcasmo sprezzante dei nemici
non gli facevano perdere la sicurezza e la fede nella sua impresa. Il
6 marzo del 1312, tranquillo e sereno, entrava in Pisa, dove fu accolto
con grandissima festa, e si trattenne fino al 23 d'aprile fra un popolo
a lui veramente amico. I Pisani gli avevano già mandato 60,000 fiorini
a Losanna, ed ora gli professavano sincera sottomissione, accettando da
lui nuovi magistrati, e promettendogli altra uguale somma.[241] Né egli
si sgomentò punto, quando seppe che le forze del principe Giovanni,
fratello di Roberto, erano in Roma cresciute.
Il principe aveva seco piú di 600 cavalieri catalani e pugliesi, e
già glie ne erano venuti altri 200 dei migliori cavalieri fiorentini,
comandati dal De La Rat, che aveva menato anche mille pedoni, oltre i
suoi Catalani. Da Lucca, da Siena, da altre città erano venute nuove
genti. Il Campidoglio, S. Angelo, Trastevere, tutte le fortezze furono
cosí occupate. E finalmente il re di Napoli, che aveva prima affermato
d'aver occupato Roma come amico, si dichiarava adesso aperto nemico
d'Arrigo. Questi nondimeno s'avanzava con soli 2000 cavalieri, oltre
parecchi fanti, ed il 7 di maggio 1312 entrava nella Città Eterna. Il
Campidoglio fu subito da lui assalito e preso con la forza; ma quando
si provò ad aprirsi con le armi la via a S. Pietro, per pigliarvi la
corona imperiale, vi fu allora nelle strade una vera battaglia; ed
una sortita da Castel S. Angelo respinse le sue genti, che subirono
gravi perdite. Né la coronazione avrebbe avuto mai luogo, se il popolo
romano, che gli era favorevole, non avesse minacciosamente obbligato i
prelati a compiere, contro l'usanza, in Laterano la solenne cerimonia
(29 giugno). Ma ora dovette accorgersi che nemico gli era anche il
Papa, il quale gli ordinava di non assalire Napoli, di far tregua d'un
anno col Re, di lasciar Roma il giorno stesso della incoronazione,
di rinunziare ad ogni diritto sulla Città Eterna, né piú tornarvi
senza permesso. La maschera era finalmente caduta, e i Fiorentini
erano stati i piú accorti profeti. Però in questo stesso momento,
in cui la loro politica guelfa trionfava, e la rottura tra Papa e
Imperatore era cosí manifesta, il popolo romano proclamava Roma città
imperiale, ed il Campidoglio sede perenne dell'Imperatore, il quale
solo dal popolo romano doveva riconoscere la sua autorità. «_Dum
sola tribunitia, exterminatis Patribus, potestas adolevisset illo sub
magistratu.... omnia haec paravi Caesari, ipsum evocandum in Urbem,
vehendumque triumphaliter in Capitolium, principatum ab sola plebe
recogniturum_».[242] Era l'idea stessa di Dante proclamata ora dal
popolo di Roma.
Arrigo finalmente, dopo molto esitare, si decise a seguire il
consiglio, che l'immortale poeta già da un pezzo gli aveva suggerito,
e andò ad assediar Firenze. Traversò nell'agosto la campagna romana,
che con le febbri decimò le sue genti, e dopo aver preso Montevarchi
e S. Giovanni, venne a Figline.[243] I Fiorentini accorsero in gran
fretta, senza buoni capitani, quasi tumultuariamente, con molti fanti
e 1800 cavalieri, al Castello dell'Incisa. Ma non vollero poi accettar
battaglia, e l'Imperatore per altra via continuò il suo cammino,
respingendo vigorosamente tutti coloro che dall'Incisa gli vennero
incontro per fermarlo. Il 19 di settembre cinse d'assedio Firenze,
ponendo a S. Salvi il suo quartier generale. E i cittadini, che
non sapevano ancora nulla di ciò che era seguito del loro esercito,
trovandosi come sorpresi, corsero subito alle armi, e sotto i gonfaloni
del popolo andarono alle mura, dove venne anche il vescovo, armato
coi suoi preti. Dopo due giorni, i militi che erano andati incontro
all'Imperatore, per vie traverse tornarono in Firenze, dove arrivarono
anche aiuti da Lucca, Siena, Pistoia, Bologna, dalla Romagna, da tutte
insomma le città della Lega. E cosí, secondo il Villani, si mise
insieme un esercito di 4000 cavalli, con numero infinito di fanti.
L'Imperatore, che aveva solo 800 cavalieri tedeschi, mille italiani
e buon numero di fanti non poté far altro che dare il guasto alla
campagna. Fortunatamente per lui l'annata era stata assai fertile,
e quindi non mancarono le vettovaglie ai suoi soldati. I Fiorentini,
sebbene in numero tanto superiore, non osarono neppure adesso uscire a
battaglia; ma nella città si sentivano tanto sicuri, che solo le porte
di fronte all'Imperatore erano chiuse le altre restavano aperte, e i
traffici procedevano come in tempo di pace. In tal modo si continuò
sino al novembre, quando la notte d'Ognissanti Arrigo VII, ormai
stanco ed esausto, se ne parti per Poggibonsi e Pisa. Lo seguirono i
Fiorentini, e piú volte lo assalirono per via, ora con prospera, ora
con avversa fortuna. A Poggibonsi restò fino al 6 marzo 1313, privo
di denari e di vettovaglie, con l'esercito stremato in modo che non
aveva piú di mille cavalieri. Pure continuò la sua via e, sebbene gli
assalitori fossero, secondo il Villani, quattro contro uno, poté pur
sempre resistere, arrivando a Pisa il 9 di marzo.
Era allora, pei travagli dell'animo e del corpo, rovinato in salute,
senza danari, senza soldati, pure senza aver perduto la sua fede e la
sua calma. Iniziò quivi molti processi contro i Fiorentini, che privò
delle loro giurisdizioni; depose i loro giudici e notai; impose grosse
taglie; condannò nell'avere e nella persona molti dei loro cittadini,
sentenze che restarono tutte prive di effetto. Ma egli continuava senza
darsene pensiero. Proibí loro di batter moneta, consentendo ad Ubizzo
Spinola di Genova, ed al marchese di Monferrato di battere nelle loro
terre fiorini falsi col conio fiorentino, cosa che fu molto biasimata,
come contraria alla pubblica fede.[244] Condannò il re Roberto come
traditore dell'Impero, e s'alleò con Federico di Sicilia, con i
Genovesi. Voleva andare contro Napoli, non ostante che il Papa avesse
minacciato la scomunica a chi assalisse quel regno, ritenuto feudo
della Chiesa. Tutto pieno d'ardore e di fede nella nuova impresa, mandò
in Lombardia ed in Germania, per avere uomini e danari. Raccolse cosí
2,500 cavalli oltramontani, 1,500 italiani, oltre le genti a piede. I
Genovesi armarono 70 galere; Federico ne armò 50; i Pisani, che già per
lui avevano fatto ogni sacrifizio, ne armarono 20; raccolse anche del
danaro, e il dí 8 agosto 1313 parti, non senza ragionevole speranza di
buona fortuna. Ma il 24, arrivato a Buonconvento, morí, e cosí tutto fu
finito.
Il 27 dello stesso mese i Fiorentini, con grandissima gioia,
annunziavano ai loro amici, che «Gesú Cristo aveva fatto morire quello
fierissimo tiranno Arrigo, che i ribelli persecutori di S. Chiesa,
cioè i Ghibellini vostri e nostri nemici, chiamavano Re dei Romani
e Imperatore».[245] Già, lui vivente, essi avevano dato per cinque
anni la signoria a Roberto; gliela rinnovarono ora per altri tre,
a condizione, ben inteso, che il governo restasse libero, guelfo e
popolare nelle loro mani. Si trattava solo d'avere da lui un capo
militare che menasse, in nome e con la bandiera del Re, alcuni buoni
uomini d'arme, e potesse comandare le forze cittadine, per difendere
la Repubblica contro i possibili assalti di Genova e di Pisa, contro
i capitani ghibellini, come Uguccione della Faggiuola ed altri. Di
quest'ultimo soprattutto si temeva e di Pisa; che già aveva preso al
suo soldo mille dei soldati d'Arrigo, i quali formarono la prima di
quelle compagnie di ventura, destinate ad essere ben presto un vero
flagello d'Italia.[246] Il Papa, schiavo ormai della Francia, si gettò
nelle braccia di Roberto, che nominò Senatore di Roma, dove tornarono
subito i vicari angioini. Egli presumeva di potere, durante la vacanza
dell'Impero, assumerne tutta l'autorità, e quindi annullò il decreto
d'Arrigo contro Roberto, che nominò vicario imperiale in Italia, sino
a due mesi dopo la prossima elezione.
Non ostante la nuova potenza di Roberto, e la signoria a lui affidata
della loro città, i Fiorentini ebbero allora un grande aumento di
forza morale e materiale, poiché avevano meglio assai degli altri
preveduto l'avvenire, erano stati gli autori principali di tutto ciò
che era seguito, si trovavano amici ed alleati di coloro che insieme
con essi avevano trionfato. Il popolo rimaneva in sostanza padrone;
i Grandi erano disfatti; il commercio, non interrotto durante la
guerra, pigliava colla pace nuovo vigore. Ma che cosa era divenuta la
confederazione guelfa, e il nome d'Italia che essi avevano invocato
nel formarla? Tutto era svanito in un attimo. Il fatto stesso che essi
si sentivano appunto ora costretti a cercare un re che li proteggesse,
dimostra chiaro che, non ostante cosí prospera fortuna, la loro
repubblica, restando sola, non sentiva la fiducia e la forza necessarie
a renderla davvero indipendente e padrona di sé. Ciò minacciava di
necessità nuove complicazioni e nuovi pericoli, i quali pur troppo
non potevano tardar molto. Il Comune italiano doveva morire; lo Stato
moderno doveva nascere; ma per arrivarvi bisognava passar sotto la
tirannide. Questo è il fato che da lontano pesa ora anche su Firenze.
Dopo la morte di Arrigo VII muta il carattere dell'Impero e delle sue
relazioni con l'Italia. Dopo l'alleanza del Papa con la Francia mutano
sostanzialmente anche le relazioni del Papato coi Comuni italiani,
alla cui indipendenza e libertà esso si dimostra sempre piú avverso. Il
Medio Evo si chiude, un'epoca affatto nuova incomincia ora nella storia
di Firenze e dell'Italia.


AVVERTENZA

Della Cronica attribuita a Brunetto Latini, e di coloro che
recentemente se ne occuparono, noi abbiamo già parlato piú sopra (Vol.
I, pag. 42 e seg.); ora dobbiamo aggiunger poche parole a spiegare
le ragioni e il modo della pubblicazione che ne facciamo. Questa
Cronica degli ultimi del secolo XIII era nota da lungo tempo, e la sua
importanza fu subito riconosciuta, perché vi si trova il piú antico e
compiuto elenco di Consoli e Podestà fiorentini che si conosca. Esso
infatti comincia coll'anno 1180, mentre l'altro, che fu pubblicato dal
Fineschi (_Memorie storiche_ ecc.: Firenze, 1790) incomincia solo col
1196. E senza la Cronica non sarebbe possibile colmar la lacuna neppure
coi documenti, perché questi dal 1180 al 1196 sono ora scarsissimi. Il
nostro autore ne vide certamente alcuni che poi andarono perduti.
Per tutto ciò questa Cronica doveva richiamare l'attenzione degli
storici e degli eruditi. Del suo elenco di Consoli e Podestà si
valsero, infatti, l'Ammirato (_Storie fiorentine_) ed il Padre
Ildefonso (_Delizie_, VII, 137); l'infaticabile senatore Carlo Strozzi
lo copiò insieme con alcuni brani della narrazione. Piú tardi, nel
1832, L. M. Rezzi, bibliotecario della Barberiniana di Roma, pubblicò
da un codice del sec. XVII, ivi esistente, lo stesso elenco, con alcune
notizie degli anni 1210,[247] 1213, e specialmente una narrazione
del notissimo fatto del Buondelmonti (1215), assai diversa da quella
lasciataci dal Villani. E a tutto ciò, seguendo l'indicazione del
codice Barberiniano, dette il titolo di _Storietta antica: credesi
di S. Brunetto Latini_. Anche nel manoscritto ora smarrito, di cui
s'era servito il Padre Ildefonso, si leggeva: _cuius auctor dicitur
S. Brunettus Latini_. Per qual ragione poi, e da chi la prima volta
s'attribuisse a colui che fu tenuto maestro di Dante una cronica, la
quale narra fatti posteriori alla morte del presunto autore di essa,
noi non sappiam dire. L'averla però a lui attribuita dimostra che se ne
riconosceva l'importanza e l'antichità.
Ma allora si potrebbe qui domandare: perché mai nessuno pensò finora a
pubblicarla, come s'è pur fatto di tante altre croniche meno antiche
e piú voluminose? La risposta può darsi solo esaminando la Cronica
stessa nei codici che la contengono. Essi, come abbiam detto altrove,
sono due: l'Autografo, che è mutilo ed incomincia con la carta 39,
dove prima registra i Consoli del 1180, poi accenna al pontificato
di Alessandro III, che fu eletto nel 1159; ed il Gaddiano, che è una
copia del secolo XV, la quale ci dà tutta la Cronica, incominciando
da _Gesú Cristo primo e sommo pontefice_, e da Ottaviano imperatore.
In questo secondo codice, noi vediamo che essa procede, narrando le
vite dei Papi ed Imperatori fino al 1249, dove fa un salto di 35 anni
circa, per ripigliare il racconto al 1285, e continuarlo fino al 1303,
o piú veramente al 1297, con una sola notizia (di mano posteriore) del
1303, cui s'aggiunge l'indicazione dell'anno 1316,[248] con le parole
«Giovanni XXII...». E qui resta in tronco.
Si tratta evidentemente d'un lavoro abbozzato e non finito, con diverse
lacune, una delle quali, come s'è detto, dal 1249 al 1285, un'altra dal
1220 al 1226, dove sono, nell'Autografo, tre carte bianche. Esso lavoro
può dividersi in tre parti, ciascuna con un carattere suo proprio. La
prima, che è piú lunga delle altre due insieme riunite, arriva fino
al 1180 circa. Questa parte, che manca affatto nell'Autografo mutilo,
non è altro che un sunto italiano del testo latino delle vite dei Papi
ed Imperatori di Martin Polono, senza nessuna notizia su Firenze,
salvo alcuni pochi paragrafi, privi affatto d'ogni valore storico,
che riproduciamo in nota qui sotto.[249] La seconda parte, che va dal
1180[250] al 1249, continua il sunto di Martin Polono, aggiungendovi
però molte notizie fiorentine. Se la esaminiamo nell'Autografo, dove si
trova quasi tutta, a cominciare cioè dal 1181, vediamo chiaramente come
essa fu dall'autore compilata. Nella colonna di mezzo egli continuò il
sunto cominciato nella prima parte; ma nei due larghi margini, a destra
ed a sinistra, andò, via via che poté raccoglierle, registrando notizie
su Firenze. E si direbbe che, per aiuto della memoria, avesse voluto
usare una diversa scrittura, secondo le fonti diverse cui attingeva.
Nel codice Gaddiano, invece, tutto ciò venne riunito, fuso insieme,
probabilmente per opera di chi in esso copiò l'Autografo. Ciò si può
dedurre anche dal modo incerto e mal sicuro con cui furono qualche
volta connessi fra loro i vari brani.
Per qual ragione poi il cronista, arrivato al 1249, saltasse all'anno
1285, noi non sappiam dirlo. È possibile che, vivendo nel 1293, come
dice egli stesso, cominciasse dapprima la sua narrazione dall'anno
1285, con l'intendimento di scrivere solo una cronica di fatti
contemporanei, sui quali era a lui agevole avere maggiori e piú esatte
notizie. Arrivato però ai giorni in cui scriveva, si può credere,
seguendo la nostra ipotesi, che gli venisse l'idea di rifarsi da capo,
e cominciasse quindi dai tempi di Gesú Cristo, con l'intendimento di
compilare un piú vasto lavoro. Ma non riuscendogli fino all'anno 1180
di trovare notizie su Firenze, si dove contentar di fare un sunto della
storia generale di Martin Polono, aggiungendovi dal 1181 in poi quelle
notizie fiorentine che gli riuscí di raccogliere. Arrivato al 1249, non
poté forse, per morte o per altra ragione, continuare questa seconda
parte del suo lavoro, la quale rimase perciò interrotta al pari della
terza ed ultima, che era stata scritta prima, sebbene narrasse fatti
posteriori. Ma in ogni modo, sia che s'accetti o no la nostra ipotesi,
certo quest'ultima parte è di un genere affatto diverso da tutto ciò
che la precede. Non solamente le notizie su Firenze in essa abbondano,
e si vede, esaminando l'Autografo, che furono sin dal principio fuse
col sunto di Martin Polono; ma il sunto è qui divenuto qualche cosa
d'affatto secondario, ed in sostanza abbiamo una vera e propria cronica
fiorentina. Chi piú tardi raccolse tutti questi fogli, li riuní con una
numerazione sola, non interrotta neppure là dove si ha la lacuna di 35
anni.[251]
Da tutto quello che abbiam detto apparisce chiaro, che nessuno poteva
sentirsi invogliato a pubblicare una cronica fiorentina, la quale
per piú d'una metà non è che il sunto dell'opera di Martin Polono,
notissima fra di noi, e già sin d'allora stata assai spesso copiata,
tradotta, compendiata; una cronica che in tutto il resto appariva
compilata in maniera da doversi ritenere piú che altro un abbozzo
incompiuto, quasi una raccolta d'appunti. È ben vero che anche il
Villani ed il pseudo Malespini cominciarono col copiare e compendiare
Martin Polono; ma essi si valsero pure d'altre fonti storiche
medioevali, e dettero al Polono una parte molto minore nell'opere
loro, le quali perciò divennero ben presto vere e proprie croniche
fiorentine, assai piú corrette e limate nella forma. Bisogna inoltre
notare che, sin dalle prime pagine, essi aggiunsero tradizioni,
leggende, favole sulle origini di Firenze, ed il Villani anche notizie
cavate da antichi scrittori latini, specialmente da Sallustio.
Comunque sia di ciò, certo è che non solo la Cronica attribuita
a Brunetto Latini non fu mai pubblicata, ma si finí ancora col
perdere poco a poco ogni traccia dei codici che la contenevano.
Restaron sempre noti l'elenco dei Consoli e Podestà, con quei brani
di narrazione già dati alla luce dal Rezzi.[252] Piú tardi, col
ricominciare delle indagini sulle origini di Firenze, si ricercarono
di nuovo i manoscritti della Cronica. Noi abbiam detto altrove (Vol.
I, pag. 42 e segg.) quale fu la parte che ebbero in queste ricerche
l'Hartwig, il Santini e l'Alvisi. Il primo di essi, che ne fu il vero
iniziatore, pubblicò nelle sue _Quellen und Forschungen_ tutte le
notizie fiorentine, che poté cavare da quella parte della Cronica, che
si trova nell'Autografo da lui nuovamente scoperto. Il prof. Santini
ed il bibliotecario Alvisi, unitisi al dott. Rödiger, fecero poi
tutti gli studi necessari ad una compiuta pubblicazione della Cronica
stessa, che trascrissero dai due codici, e andarono stampando con note,
illustrazioni e confronti. È certo da deplorare che un tale lavoro, già
da molti anni condotto quasi a termine, non abbia finora visto la luce.
Né se ne è mai saputo altro.
Quindi è che, dopo aver lungamente invano aspettato ed anche
sollecitato questa pubblicazione, pensai che, fino a quando non sarà
compiuta un'edizione diplomatica ed illustrata della Cronica, poteva
essere opportuno farla in qualche modo conoscere agli studiosi; e
mi decisi perciò a stamparla in una forma assai piú modesta, come
appendice ad un lavoro su Firenze. Essa va fino al 1297, e quindi
abbraccia quasi tutto il medesimo periodo di storia fiorentina, di
cui mi sono occupato in queste _Ricerche_, nelle quali ho dovuto
spesso citarla. Di essa si è in questi ultimi anni molto e da molti
continuamente parlato, e qualunque opinione si abbia del suo valore
storico, certo è l'opera d'un precursore del Villani, a cui secondo
alcuni serví anche di modello. Ci dà poi varie notizie che in lui
non troviamo, e spesso narra i medesimi fatti con particolari nuovi o
diversi. Anche la forma incompiuta ed imperfetta, in cui ci è rimasta,
ha il vantaggio di farci meglio conoscere, quasi direi di metterci
sotto gli occhi il modo preciso che tennero, il metodo che seguirono
gli antichi cronisti fiorentini nel compilare le loro narrazioni. Certo
una edizione diplomatica o una fototipia dell'Autografo renderebbero
tutto ciò assai piú evidente; ma questo non poteva ora essere il
nostro scopo. Noi abbiam voluto solo pubblicare un documento che ci
pare importante, che illustra, spesso conferma la nostra narrazione.
E perciò credemmo opportuno di sopprimere tutta quella prima e piú
lunga parte della Cronica, che, dando solo un magro sunto di Martin
Polono, poco diverso da quelli che si trovano in molti codici, o anche
a stampa, nulla assolutamente dice di Firenze. Cominciammo di là dove
si legge la prima notizia di storia fiorentina.
Ci siamo nella stampa attenuti fedelmente ai manoscritti. Ed essendoci
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