La vita comincia domani: romanzo - 11

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fisionomia del morto un non so che di camuso. Qualche macchia d’un tetro
color giallastro invadeva la scarnezza delle guance; gli occhi non
facevan ombra; le ciglia parevano ingrommarsi. Ogni tanto avevano
entrambi la sensazione ch’egli respirasse, poichè la morte non pare
immobile, finchè si muove negli occhi nostri l’incredula paura con la
quale noi la guardiamo.
Egli voleva parlarle, ma indarno cercava nella mente un pensiero da
comunicarle; si sentiva sperduto in una specie d’annientamento
cerebrale. Ebbe voglia di sedersi a piè del letto e di vegliarlo, in
attesa d’un fatto imprevedibile, o forse d’un suggerimento che salirebbe
a lui, nello spirito, stando presso quel morto. Allora si accorse
dell’estrema fatica fisica ond’era oppresso; gli parve d’aver sonno, ma
un infinito sonno ed oblioso, in quella notte così limpida.
Ella stava un passo lontano da lui, un passo lontano dal morto; si
stringeva le braccia contro il petto, incrociate per i polsi, con le
mani sotto la gola, il capo sovr’esse piegato, gli occhi attentissimi.
Poi allungò la mano, quasi volesse toccarlo; invece lambì la coltre,
lievemente, ritraendola con velocità.
— Giorgio... — profferì, non per chiamarlo, ma quasi per riconoscere se
veramente fosse lui.
Sì, avrebbe voluto, dal suo cuore di sorella, e nonostante la presenza
dell’altro, mandargli un ultimo saluto, comunicargli una dolce parola,
toccarlo con una carezza lieve, posare la bocca su la sua fronte che non
ricordava più... Adesso aveva rimorso, un orrendo rimorso ed una
infinita voglia di piangere per lui; adesso le pareva necessario di
fargli conoscere il suo dolore, e dirgli, se pur non udisse: — «Povero,
povero amico mio, forse non mi perdonerai... no, certo non mi
perdonerai!...»
E s’avvide che s’erano lasciati senza una parola di commiato, senza un
bacio, nè una confidenza, nè un secreto, senza una di quelle parole
conclusive che fanno meno buia la morte a chi vi sprofonda ed a chi
guarda morire. Si ricordava di lui, ch’era buono, ch’era malato, ch’era
un povero essere debole, triste, soave, che a lei voleva bene come forse
nessuno al mondo, e come forse nessuno al mondo per lei, per lei sola,
soffriva... Si ricordò la pazienza disperata, il disperato amore che
appariva nelle sue chiare pupille quando la guardavano, e la dolcezza
paurosa della sua voce quando parlava con lei, l’amore di cui l’aveva
circondata quell’essere morente, la beatitudine grande che lo
trasfigurava se appena, quand’eran soli, ella gli avesse detto una
parola buona...
In quel momento il suo proprio amore non esisteva più; non si
considerava più come la schiava di quell’infermo inguaribile; provava
solo un rimorso angoscioso di non essere stata con lui nell’ultima ora,
quando il suo pensiero fuggente l’aveva cercata ed il suo cuore cessante
l’aveva con sè trascinata nel silenzio della morte...
«Sì, mi hai chiamata e non c’ero! hai voluto vedermi, e non c’ero! hai
voluto forse confidare, a me sola, un ultimo desiderio, e non t’ho
potuto ascoltare... Anzi tu sei morto «sapendo!» Oh, come devi aver
sofferto, povero cuore! Sì, eri buono, mi tutelavi, mi carezzavi con la
tua anima dolce; da te non ho inteso mai, mai, che parole d’amore... Ed
io non t’ho fatto che male! io non ho fatto che ucciderti giorno per
giorno, senza volerlo... Sì, sono stata infame, povero amore, e non mi
perdonerai!...»
Si curvò, protese di nuovo la mano per accarezzarlo, e tuttavia non
osando, gli passò con la mano sopra il volto in un rapido gesto, che
pauroso era solenne.
Poi, di schianto, cadde presso il letto, a ginocchi, e pianse.
Quand’egli vide la donna genuflessa ed il cadavere supino, gli parve che
un legame li unisse, che una simiglianza fosse tuttavia tra le lor
dissimili positure, ed offeso da quella concordia che gli era nemica si
aderse contro di loro con una ferma violenza, levando tanto più la
fronte, quanto più l’amante sua la curvava nella vergogna nel rimorso e
nelle lacrime per il morto.
Ella era inginocchiata sopra un ginocchio solo; su l’altro teneva un
gomito e nei palmi la fronte.
Ora, dal lenzuolo inazzurrato, il manto lunare cadeva su lei
stupendamente; la bellissima sua nuca scoperta era densa di capelli
quasi fulvi, che brillando si arruffavano. Pur così accasciata, il suo
dorso conservava una mirabile elasticità; la gamba su cui stava
inginocchiata, uscendo fuor dalla balza della vestaglia scopriva il
bianco malleolo ed il tendine teso, che s’allentava nella rotondità del
polpaccio.
Quasi tutto il piede era fuori della pianella, e si vedeva il tallone
roseo svanire in un incavo profondo verso le dita flesse, che tenevan
ritta la calzatura piegandosi contro l’orlo d’ermellino.
Nel medesimo tempo egli guardò il morto e gli parve straordinario che
vicino ad un cadavere si trovasse una cosa tanto profana ed avesse,
nell’atto che compiva, una qualsiasi comunanza con lui.
Voleva parlarle, chiamarla; ma un senso di rispetto più forte non gli
consentiva di muover labbro. Ascoltò con una specie di rancore
taciturno, ed intese che pregava.
Sì, dall’atto delle sue labbra e dalla ferma sua genuflessione indovinò
che l’amante pregava. Dunque non sarebbe mai la sua complice, non
crederebbe mai che all’uomo sia lecito far morire. Anzi, poichè pregava,
qualcosa v’era di non distrutto fra la sua bella gioventù e quella morte
infinita, qualcosa v’era in quel silenzio, di più sacro e di più forte
che l’amore, poich’entrambi avevano creduto nella parola inverosimile:
«Dio».
Allora si trasse indietro, e pensò ch’ell’avrebbe trasalito per la paura
di rimaner sola in vicinanza del morto. Ma ella non si mosse, non
s’accorse, non ebbe un solo tremito nella persona. Investita così dal
raggio lunare, prosternata com’era davanti al letto funerario, pareva
una monaca seminuda, che, in una notte piena di stelle, si fosse
trascinata con delirio verso il marmo dell’altare, affinchè la pietra
del sacrario purificasse la sua carne disperata. Ed egli non udiva più
nemmeno il bisbiglio della sua preghiera, nè più vedeva il suo petto
muoversi, la nuca trasalire, il tallone roseo staccarsi od avvicinarsi
al tacco della pianella: ma due sole immobilità perfette occupavano la
stanza, un solo raggio le ammantava nel suo fermo splendore.
— Novella... — egli chiamò sommessamente.
La sua propria voce lo ferì come la voce d’un estraneo, senza che le due
creature si movessero. Le andò vicino, ed invece di chinarsi, attese.
Era tramortita; ma da presso egli vedeva le sue spalle trasalire
insensibilmente. Stando così piegata in avanti, con la fronte che quasi
toccava il lenzuolo, la prima vertebra spinale formava tra le piane
scapole un forte rilievo; il fascio lunare non impediva che presso
l’attaccatura del collo le sue bianche spalle fossero piene d’ombra.
Poi d’un tratto la vide roteare sul ginocchio piegato, allentar le
braccia ed accasciarsi a terra come un peso inerte, senza quasi far
rumore. La pianella scappò via dal piede roseo, fece un piccolo salto,
si rovesciò. Era scoverta fino a mezzo il petto; i calmi seni formavano,
sollevando la camicia, una profonda incavatura.
Dopo di lei fissò il morto, e gli parve strano che la sua faccia non si
fosse chinata fuor dalla proda, per guardare in giù.
«Vedi? — mormorò in lui una voce estranea. E gli parve di ridere nel
cuore sarcastico, ma d’un riso che non gli saliva fino alla bocca.
«Vedi?»
Gli parve che alcuno avesse aperto l’uscio. Senza maraviglia si volse e
guardò.
Su l’uscio batteva tagliente l’ombra d’uno stipite; null’altro che
l’ombra d’uno stipite. La maniglia luccicava.
Un usignuolaccio, fuori, nella notte, nella ramaglia nera e balenante
sufolava con ironia collerica, e tanto presso e tanto forte, che lo
stordiva. Gli parve che stesse a cantare, lì, sul davanzale. Si volse e
guardò. Ma la pietra del davanzale frammista di selce non mandava che
lampi ed il vano della finestra pareva un canale azzurro sgorgante
nell’immensità.
«Uuh!... Fi! Perchè canti? Vattene.»
L’usignuolaccio saltava.
Era proprio lì, nella grande magnolia; il suo pennaggio faceva rumore
contro le foglie sonore.
«Vedi?»
Un filo d’aria notturna passò su di lui, percorse la lunghezza del
letto, soffiò tra i capelli radi del morto, li scompose. Poco dopo una
vasta nuvolaglia, correndo sopra la luna, ruppe il filo che portava quel
fascio d’elettricità, e, fattasi buia la stanza, egli si sentì serrare
nella caligine come fra due pareti che si chiudessero.
«Vedi?»
E la nuvolaglia se n’andava piano piano; il raggio tornava, più mite,
poi più forte, parendo invadere la stanza e colmarla, come un fiume...
Allora si chinò su l’amante, la prese per un braccio, la scosse. Ella
sbarrò gli occhi, guardò intorno, si risovvenne, lo prese ai polsi e con
tutta la forza delle due mani congiunte s’aggrappò a lui per sollevarsi.
— Via... via... — balbettò quando fu ritta. E lo sospingeva indietro col
peso della sua persona, chiudendo gli occhi, come se non volesse
volgersi per riguardare il morto. — Via... portami via!
Egli vide lo scendiletto sconvolto e l’accomodò con la punta del piede,
resistendo per un poco all’urto dell’amante; poi si lasciò respingere.
Uscirono.
Camminando senza cautela rifecero il breve cammino, tenendosi avvinti,
quasi tornassero dalla consumazione d’un delitto e andassero impuni,
lievi, a goderne la preda. Su l’uscio, nell’entrare in quell’altra
camera, che a lor parve gioconda, involontariamente si baciarono.
Ell’aveva nella gola un riso singhiozzante, negli occhi una febbre
luminosa, nelle vene un battito celere che le soverchiava il cuore. A
lui pareva di averla rubata quasi dalle mani d’un avversario più forte,
o trascinata via da un incubo, via dal talamo di un altro che
gliel’avesse rapita.
Un lungo trillo melodico empiva la notte incantata, e nel rifugio
dell’alto suo ramo il cantore solitario snodava, buttava i suoi
gorgheggi con impetuosa magnificenza, come, nell’aria, brillando, lancia
i suoi gettiti una fontana. Di tanto in tanto qualche rana grassa
metteva nelle pause del canto la sua sgangherata vociaccia, come se le
vellicassero il ventre viscido per farla ridere o si fosse ubbriacata
fino a creparne del buon odore che mandavano i gelsomini.
— Dammi a bere... — ella fece, comprimendosi il petto soffocato: —
brucio di sete!
— Acqua? egli disse. — Non ho che acqua.
— Sì.
Prese la caraffa, il bicchiere, lo riempì fino all’orlo, poi, stillante,
lo porse alla sua bocca. Ella ne ingoiò un sorso avidamente, facendo
gorgogliare l’acqua nel deglutirla; poi guardò l’amante:
— E tu non hai sete?
— Sì; dopo.
— No, bevi, — ella fece, prendendogli la mano che teneva il bicchiere e
spingendola verso la sua bocca. Egli ubbidì. Bevve con ingordigia, con
ira, due volte, poi guardò il bicchiere vuoto.
— Ancora ne vuoi? — diss’ella.
— Non più. — Respirò forte, soggiunse: — Lo sai ch’eri svenuta?
Ma ella si coverse gli occhi, piegò il mento sul petto, e, come chi si
ritrae da una visione paurosa:
— Non parlarne... — pregò. — Che orrore! che orrore! Ho bisogno per un
momento di scordarlo... Non parlarne più!
Egli rimise a posto la caraffa, si andò a sedere sull’orlo del letto,
curvo, stanco, tenendo le mani allacciate, fra le ginocchia, la fronte
china.
Ella fece per la camera un lungo giro e si fermò vicino alla finestra,
guardando fuori, curiosa, nella notte stellata.
Soffiava ora un poco di vento; i prati lontani mutavano colore;
incominciava un dondolìo sonnolento per le alte cime degli alberi;
dentro, nelle frasconaie, qua e là, un fruscìo prolungato, uno strepito
scorrevole, come se vi rimbalzasse in mezzo, tra foglia e foglia, una
lentissima pioggia di sabbia.
Ella vide a pochi metri dalla finestra, su l’albero gigantesco, un
grande fiore di magnolia sfasciarsi repentinamente, cadere giù, lembo a
lembo, ciascun petalo roteando come una spola, finchè si posava disfatto
su la ghiaia luccicante. Quel fiore, lo sfacelo di quel grande fiore,
l’assorbiva interamente, e, senza ben comprenderne il perchè, non poteva
ritrarsi dal guardare l’opulento ramo, che per quella caduta seguitava a
dondolarsi oscillando, e quel fiore sparso, rotto in frantumi, che
giaceva sotto il vasto albero, come una bianchissima porcellana
spezzata.
E vide un piccolo rospo che vi saltellava nel mezzo, traversando la
ghiaia.
Senza volgere il capo ella chiamò per nome l’amante; ma egli non si
mosse.
Allora, affacciandosi ancor più, si mise a guardare, nella facciata
bianca della casa, quella finestra poco lontana, dietro la quale, ma in
fondo, contro l’opposta parete, c’era un uomo che dormiva per sempre nel
letto illuminato, nel sudario del raggio lunare, di fronte alla
magnificenza delle stelle.
Vide, o le sembrò, che ne uscisse un fumo azzurro, torbido, il quale
navigava per la notte, sperdendosi; e intimorita si ritrasse, onde non
respirare nel vento neppure un átomo di quel fumo.
Andò vicino all’amante, gli pose una mano sui capelli. Egli non levò il
capo, non disse parola. Ed ella, tacendo, prolungava la sua carezza con
una specie di voluttà, indugiando nei caldi capelli, un po’ chinata su
la sua pallida fronte. Infine disse:
— Che ora è? tardi?
Egli guardò l’orologio, distrattamente:
— Le tre passate.
— Hai sonno?
— Non ho sonno; e tu?
— Nemmeno. Guàrdami!...
Andrea levò gli occhi. Entrambi, nel fissarsi, parvero maravigliati.
— Che faremo? — ella disse, tremando fin nell’anima.
— Non so.
Stava ritta fra le sue ginocchia, tenendogli ora le mani su le spalle;
egli aveva la fronte quasi nascosta contro il suo petto, e, senza
toccarla, sentiva tuttavia l’impressione della sua pelle fresca e
giovine, sentiva il profumo della stoffa tenue somigliante all’odore
stesso di lei.
— Tu l’amavi! — gli esclamò d’un tratto, con iracondia, senza levare il
capo.
— No... taci...
— Sì, lo amavi! ora l’ho visto! lo so... — egli disse caparbio.
Novella si chinò presso l’orecchio dell’amante, quasi baciandolo, e
bisbigliava di continuo:
— Taci... taci...
Subitamente egli serrò le braccia intorno alle sue reni e l’attrasse,
alzando la bocca verso la bocca di lei, che lo cercava.
— Sei mia, ora?
Ella rise, non colle labbra soltanto, ma con tutta la persona, con tutta
l’anima rise.
— Rispóndimi!
— Sì... sì!
— Ma per poco... — egli fece, tetro.
— Come?
— Ho detto: per poco. Adesso non c’è più divieto, e allora...
— E allora? — ella interrogava con la medesima voce.
Poi gli prese la faccia tra i palmi, e, quasi per soffocare ogni parola,
su la bocca, affannosamente, lo baciò.
E rimasero avvinti in quel bacio, disperati, sitibondi, colmi fino alla
gola di orrore e di amore, sentendo che in quella voluttà esecrata una
coscienza invisibile, quasi, un Dio, li malediva...
. . . . . . .
... poi, lontano, per l’ultimo cielo, fra i mazzi di stelle che
imbiancavano, videro salire una gran fiumana di vapori ondeggianti,
quasi una colonna di fumo, che soffiasse non da un incendio ma da un
gelido remoto mare, e videro per l’universo effondersi quella specie di
scolorimento, quel brivido, quella bianca tenebra che precede il salire
del giorno.
Un grande velario, di mussola o di tulle, passava su le migliaia di
stelle per diminuirne lo splendore; una chiarità nasceva nell’oriente
concavo; la notte a poco a poco s’incanalava in quella zona pallida,
lasciando portare dal vento le sue gonfie spirali di fumo.
Piccole stelle morte, randagie, vi cadevano dentro, scomparivano,
lasciavan un solco impercettibile nello spazio dov’erano a migliaia; le
grandi costellazioni, luminose come navigli notturni, affondavan
nell’oceanica immensità; la luna colava a picco imbiancandosi nella
voragine d’una nuvolaglia simile ad un cratere.
Lontano, all’alba sopravveniente, un gallo cantò.
Ilare, mandava in alto la sua chiacchierata pretensiosa, lisciandosi
forse il bel pennaggio lustro, come una donna mattiniera, che alla
finestra péttini cantando la sua liscia capigliatura.
Entrava, con l’odor fluviale dei narcisi, con l’abbrividire delle foglie
che si destavano, un’ondata d’aria fredda, quasi visibile, che faceva il
giro della stanza, come un vortice...
Egli le ravvolse nella camicia di batista i seni che si ergevan nudi, la
fasciò sino alla gola entro la vestaglia di seta, e baciandola su gli
occhi pieni d’ombra disse a lei che non parlava:
— Dormi?...


SECONDA PARTE


I

Tancredo Salvi arrivò il giorno appresso in villa, non appena gli ebbero
telegrafato ch’era morto il suo fratellastro. Giunse in tempo
esattamente per i funerali, ma sopra tutto per aver notizia del
testamento: il che gli stava molto a cuore.
Dalla prima giovinezza, dal tempo lontano in cui Giorgio Fiesco era
partito dalla casa del patrigno in cerca di fortuna per il mondo, non
s’erano quasi mai riveduti, nè alcuna fratellanza era tra loro, bensì
per costumi e per indole una invincibile avversione. Venuta a morte la
madre comune, Tancredo aveva brigato in mille guise per contendere a
Giorgio la meschina eredità, e dopo aver dato fondo a quel denaro,
d’ogni espediente viveva tranne che del suo proprio lavoro. Lo si era
veduto alla Borsa e nei mercati, farsi mezzadro d’affari equivoci o
pericolosi; lo si vedeva nelle bische, nelle bottiglierie, su
gl’ippodromi, un po’ male in arnese, ma tuttavia giocondo.
Più tardi s’era messo in un certo giornalismo di pettegolezzi e di
raggiri, che sfioravano il ricatto; aveva inoltre aperta un’agenzia
d’informazioni secrete, una di quelle tante che pullulano per i sinistri
vicoli delle grandi città.
Non ancor quarantenne, alto, forte, un po’ calvo, con la faccia quadrata
e sbarbata, il colorito plumbeo, gli occhi profondi, una fronte
malvagia, la tempia destra fiaccata come da un pugno dato in una creta
molle, quest’uomo esprimeva nella sua rozzezza un non so che
d’intelligente e di maestoso, un non so che d’amaro e di buffo, che
prima insospettiva la gente, poi talvolta faceva sorridere chi avesse a
trattare con lui.
Giuntagli ora la notizia della morte di Giorgio Fiesco, Tancredo non
aveva indugiato in lunghi dubbi, e cacciate alla rinfusa le sue poche
robe in una sacca sfiancata, empitosi di mezzi toscani il portasigari
sdruscito, contate nel voluminoso portafogli le poche centinaia di lire
ch’erano pressochè tutto il suo bene, aveva chiamato con robusta voce la
serva-consorte che gli faceva da massaia, e le aveva dato l’ordine di
far scendere la sua borsa in portineria.

Nel treno che lo portava dolcemente, per una sera ventilata, traverso le
campagne fragranti, egli cominciò a sentirsi ravvolgere da un senso di
vera beatitudine, quasi avesse l’intima coscienza di volare leggermente
incontro alla fortuna.
Pensava: — «Se mi capitasse di azzeccarne una finalmente! — Centomila
lire!... Cosa sono centomila lire per il mio povero fratello? Dopo tutto
siamo nati dallo stesso grembo! Lo so: c’è la moglie; ma non hanno
figli. Centomila. Poi sono curioso anche di conoscere l’amico intimo, il
gran professore... Centomila.»
E questa parola numerosa, interminabile, con uno strascico di zeri tondi
e roteanti che parevano intessere nell’infinito la chioma d’una
straordinaria cometa, gli turbinava intorno, moltiplicandosi nel cielo,
finchè lontano si disperdeva in una striscia ondeggiante, o forse nel
pennacchio di fumo che la vaporiera si lasciava dietro camminando.
Adesso il treno correva diritto per la rasa campagna, disegnando nella
seguace ombra il traforo bianco dei finestrini. Veniva dalle pingui
zolle un odor fertile di semenza matura; su l’estremo válico
dell’orizzonte il disco paonazzo del sole affondava come un rotondo
vomero nella terra lampeggiante.
Allora Tancredo fece un sogno, che non era del tutto un sogno e che
appunto lo seduceva per la sua possibilità.
Un notaio, alto, allampanato, con gli occhiali a stanghetta, una
voluminosa cravatta nera, leggeva il testamento del morto in una grande
stanza dove c’erano molte persone attente. Lui, Tedo, se ne stava in un
angolo, dietro tutti, ma seduto in una poltrona molto comoda, e guardava
in alto, verso il lampadario, distrattamente... «Lascio mia moglie erede
universale de’ miei beni, con un legato di L. 100.000 ( — dico centomila
— ) a Tancredo Salvi, mio fratello di madre, e...»
Tutte quelle persone attente si voltavano a guardare lui, ch’era
tuttavia distratto, ma non poteva trattenere un certo risolino
involontario che gl’increspava gli angoli della bocca. E il notaio
seguitava a leggere con la sua voce fastidiosa come il ronzìo d’una
vespa:
«Legato A... — legato B... — legato C...»
La vedova se ne stava seduta poco lontano da lui, pallida, nelle recenti
gramaglie, e co’ suoi grandi occhi pieni di torbide ombre insidiosamente
lo guardava.
«Scritto di mio pugno, da me testatore, in piena coscienza di...»
Era il notaio che finiva di leggere il testamento, con la sua voce
nasale ma ronzante; poi si nettava gli occhiali a stanghetta dentro un
enorme fazzoletto blu...
Subitamente il quadro di quella grande stanza piena di persone attente
si cancellò dal suo cervello; ma vide bensì la vedova, di sera, che
saliva le scale con un candeliere in mano, forse per non trovar pace
nella coltre insonne ove si contorcerebbe la sua profumata e vedovile
solitudine...
. . . . . . .
Alla stazione, quando giunse, nessuno l’attendeva. Chiamò l’unico
vetturino che già stava per volgere il suo cavallo, e di galoppo
traversarono il borgo addormentato. A quell’ora le case degli artigiani
eran buie: solo mandavan lume un paio di taverne, la bottega del
farmacista, l’invetriata del caffè. Quando giunse a villa Fiesco, il
cancello era chiuso ed il vetturino cominciò a schioccar di frusta. Uscì
fuori dalla casa rustica la piccola Natalissa, e con la sua vocina di
capinera da lontano gridò:
— Vengo sùbito.
Nell’alta casa una finestra s’aperse; confuse ombre vi si affacciarono,
e s’udì sopra gli alberi del giardino la voce di Maria Dora che
domandava:
— Chi è venuto, Natalissa?
— Un forestiero, — gridò la bimba. E da brava donnina già grande prese
la sacca dell’ospite, lo accompagnò per il viale fino alla scalinata.
Maria Dora, Stefano, la Berta stavano sul limitare, in attesa. Nessuno
fra loro conosceva Tancredo, se non di fama, e vedendo quello
sconosciuto avanzarsi tranquillo dietro la bimba del giardiniere, a
tutta prima non seppero immaginare chi fosse.
Egli pensava tra sè: — «Questo è il momento grave. Occorre una certa
presenza di spirito...»
Giunto a mezzo della scalinata, si levò il cappello e disse, fermandosi:
— Io sono Tancredo Salvi.
Maria Dora, senza rispondere, scappò dentro a dare la notizia. Papà
Stefano alquanto impacciato, gli rispose:
— Non eravamo preparati alla sua visita, signor Salvi.
Tancredo salì con disinvoltura gli ultimi gradini.
— Mi scusino; arrivo in questo momento; non feci che balzare nel primo
treno; sono ancora sotto il colpo dell’orribile notizia... vengo per
rivedere il mio povero fratello. Grazie, grazie, d’avermi avvertito!...
E metteva nella sua voce robusta una specie di affannosa riconoscenza,
mentre col palmo della mano faceva l’atto di rasciugarsi una lacrima.
Stefano non sapeva che dire; se ne stava irresoluto, squadrandolo.
— Allora lei desidera pernottare qui? — mormorò infine, accennando alla
sacca da viaggio che Natalissa aveva posata sopra una seggiola.
— A meno che non rechi troppo disturbo... — disse Tancredo con umiltà. —
Volevo scendere all’albergo, ma non conosco il luogo, e, sopra tutto, il
desiderio di veder súbito il mio povero fratello m’ha spinto a venir
qui.
— Mi perdoni un momento, — fece Stefano; ed entrò nella casa. Mentre
stava per salire, incontrò Maria Dora con il Ferento che scendevano.
In quel mentre apparve Marcuccio sul limitare della sala.
— Chi arriva? Ospiti? Ma che c’è? Forse un ballo?
Nessuno gli rispose. Stefano tornò su la veranda e disse alla Berta
ch’eravi rimasta:
— Va sopra in fretta e prepara una camera al secondo piano, l’ultima. —
Poi disse a Tancredo: — Entri pure.
Egli avanzò con circospezione, guardandosi attorno, quasi temesse
d’andar incontro ad un agguato. Vide il Ferento, Maria Dora, Marcuccio,
e, non sapendo che fare, fece un inchino. Il Ferento lo squadrò da capo
a piedi, con uno de’ suoi sguardi rapidi che investivano come un urto;
il Salvi sogguardò lui con una delle sue occhiate oblique, che
accerchiavano come un laccio.
— Lei è il fratellastro di Giorgio Fiesco, non è vero? — disse il
Ferento. — E desidera vederlo?
— Appunto.
— Venga: la condurrò.
Bisognava traversar la sala e Marcuccio stava su l’uscio, attento. Si
trasse da parte per lasciar passare il Ferento, ma súbito si rimise
traverso la soglia, in guisa da sbarrarne l’adito. Allora Tancredo, per
non urtarlo, si fermò di botto, guardando in faccia quasi con timore
quel lungo giovinotto sbilenco, dai capelli corti, vestito con panni che
gli cascavan di dosso, il quale invece, nel fissarlo, rideva. Tancredo
non poteva comprendere perchè mai quel personaggio gl’impedisse di
passare. E lo scemo ad insistere:
— Chi sei? Dove vai? C’è un ballo forse?
Andrea tornò indietro, e preso lo scemo per un braccio lo costrinse a
togliersi di mezzo. Poi disse:
— Marcuccio, sono le dieci: va a dormire.
Costui tirò fuori un grosso orologio d’argento e si mise ad ascoltarlo,
poi ad osservarlo, contando le ore su le dita. Non gli tornava il conto.
— Eh!... — gridò appresso al Ferento, — non sono le dieci!... una di
più! C’è un ballo forse?
Allora Tancredo, nel salir le scale, si risovvenne che Giorgio Fiesco
aveva un cognato scemo.
«E adesso mi tocca pure di vedere un morto... — pensò. — Non è
piacevole. Con questa fame da lupo!»
Giunti sul pianerottolo, Andrea lo avvertì:
— È già nella cassa perchè si decomponeva, ma la cassa non è chiusa e lo
potrà vedere.
Tancredo avrebbe voluto rispondere a quel celebre scienziato in maniera
degna della propria eloquenza, ma non trovava parole adatte, perchè
l’idea di entrare così precipitosamente nella camera d’un morto gli
scompigliava tutte le facoltà.
Il corridoio era buio; da una porta nel fondo si diffondeva una striscia
di luce.
«Dev’essere là il morto... — pensava. — Purchè non mi lascino solo
davanti alla bara...»
— Venga, venga, — disse il Ferento, fermo su la soglia della camera
funeraria.
Tancredo si avanzò. Vide per prima cosa un letto vuoto, senza federe nè
lenzuoli, con un pannolano sopra la coltre, da capo a fondo cosparso di
fiori; poi vide una vecchia in una poltrona, che pregava, ed era mamma
Francesca; indi una contadina, un contadino, ed un ragazzone di
vent’anni, un bifolco nero come il carbone, seduti lato a lato, contro
il muro, e che pregavano anch’essi. Da ultimo vide, nel mezzo della
stanza, posata per terra fra quattro candelieri gocciolanti, la bara,
coperta da un lenzuolo. Il coperchio stava poggiato verticalmente contro
il cassone del letto.
Intorno alla bara il pavimento era cosparso di fiori; egli cercò di non
camminarvi sopra. Intorno alle quattro torciere si ravvolgevan spirale
da ramoscelli fioriti; le fiamme piegate dal vento si allungavan come
lingue vibrátili; ogni tanto se ne staccava una specie di vampa nera,
che pareva guizzar via nell’ombra, di qua, di là, velocissima.
«Ora, che faccio?»
Di levare il lenzuolo da sè, proprio con le sue mani, Tancredo non aveva
cuore; si chinò sopra il catafalco, restando immobile, come se recitasse
una preghiera. Il lenzuolo era teso; non lasciava trasparire affatto il
rilievo del cadavere.
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