La vita comincia domani: romanzo - 22

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suo pensiero metafisico, gli parve di comprendere che tutto l’edificio,
d’un tratto, con le sue colonne ciclópiche, i suoi fastigi avvampanti,
stesse per minacciar rovina; ed egli era incapace di ritrovar la via
tortuosa di quel tarlo struggente, incapace di costrurre un arco più
solido sotto quello ch’era in pericolo di sprofondare.
Ancora una volta, nella storia dei sogni umani, l’uomo temerario ch’era
salito in cima alla montagna del mondo si sentiva riafferrare da una
mano invisibile, trascinare in giù, per il pendìo tenebroso, verso la
sua catena ed il suo covo. Il ponte gettato su l’infinito peccava come
sempre d’un millesimo nel calcolo della sua curva, e ciò bastava perchè
il peso microscopico d’uno uomo pericolasse di farlo rovinare.
Andrea Ferento aveva cantato il «Dio che muore con l’uomo», aveva
creduto nella passante Inutilità della vita; come tutti i sognatori,
come tutti gli apostoli, aveva rifiutato di piegare la sua dura fronte
sotto il peso delle inevitabili obbedienze umane.
Un giorno, a mezzo del cammino, gli era stato necessario di sopprimere,
di chiamare a sé, per anticiparle un dono, «la pallida alleata, Morte»;
— e, sicuro d’averne il diritto, reso incolpevole dalla sua temerità,
uomo contro uomo, vita contro vita, sereno, implacabile, aveva ucciso.
Ecco: a biasimarlo, in lui non s’era levata la voce oscura d’un Dio; a
incatenare il suo polso libero non era bastata la forza vindice dei
poteri sociali; sopra il suo delitto travolto la vita rifluiva, come
sopra la diga sommersa il fiume barbaro.
E tuttavia, da quel giorno, qualcosa d’inafferrabile era entrato a
disordinare la sua mente; la terra da quel giorno brulicava davanti agli
occhi suoi d’infinite agonìe; sopra tutte le speculazioni del pensiero
appariva, scaturiva chiaramente una verità essenziale, non facile ad
esprimersi con parole, per quanto essa brilli e traspaia da ogni cosa
viva: — e cioè, nell’immanenza perpetua dell’anima universale»,
insoffocábile divinità che tutto compénetra il senso della vita e della
morte.
Obbiettivamente poi, quel suo coraggioso atto di libertà aveva prodotto
un bene anzichè un male; aveva lasciato vivere due creature giovini e
fertili, rendendo appena più celere una insanabile agonìa. Egli era
medico: non credeva quindi nel miracolo; quell’agonìa poteva essere
tenace, diuturna forse, ma era infallibilmente un’agonìa. Il medico
dunque aveva solo armato il suo polso di quel virile coraggio, che in
talune circostanze verrà forse comandato ai medici di domani.
Davanti al suo cervello, egli non aveva peccato se non contro quella
«volontà negativa» insita nella materia e che pareva esserne la qualità
divina. Ma il piccolo tarlo era in ciò: ch’egli aveva lesa una legge
fondamentale, s’era impadronito della morte, s’era fatto complice di
quell’avversaria che l’uomo deve odiare. Per lui, medico, per lui,
apostolo della vita, quest’alleanza era tradimento. Ed ormai gli era
impossibile non sentirlo, anche sopprimendo il cuore, con il solo
cervello.
Aveva in verità vôlte le spalle sul campo di battaglia, disertato dalla
sua bandiera.
Se veramente, com’egli aveva concluso, la vita era un fatto aleatorio ed
inutile, si doveva poterla sopprimere senza udire nell’eco interiore
dell’essere quel grido universale che si eleva dalla materia lesa,
contro l’atto che uccide.
Ma se all’uomo più forte non era lecito far sì che questo grido tacesse,
c’era forse mai nell’Inconoscibile una potenza che non poteva in alcun
modo accedere al pensiero dell’uomo, che certo non era Dio, ma non era
neanche l’Inutilità?...
E il tarlo camminava, camminava, tra le screpolature del castello
ciclópico, senza dargli pace.
Fra tutte le colpe dell’uomo gli pareva che il tradimento fosse la più
spregevole, poichè anche il delitto può esser bello, se richiede un
grande coraggio. Ma il tradimento non ne richiede alcuno; ed egli
appunto sentiva di tradire, nel chinarsi ancora, con una pietà ormai
simulata, sul letto degli infermi, nel vestirsi da benefattore, da
salvatore, _egli che aveva ucciso_.
Gli altri medici della sua clinica forse ne sapevano meno di lui, ma
erano più degni; que’ chirurghi dalle braccia nude, sporche di sangue,
ferivano anch’essi, ma ferivano per salvare; que’ medici attenti, che
negli alti armadi sceglievano e mescevano con saggezza le dosi dei
veleni, troppo spesso lo inducevano a rammentarsi di quella composizione
chimica perfida e sottile che gli era servita per propinare a dosi lente
una introvabile morte. L’aspetto medesimo di quel sereno edificio, dove
la sofferenza era santificata come nelle chiese la preghiera, non gli
riusciva più familiare come una volta, e spesso provava la sensazione
d’esservi pressochè in esilio. Nel traversarne ogni mattina le diritte
corsìe non aveva più accanto la limpida figura di Egidio Rosales, e
questo, questo sopra tutto, gli stringeva il cuore come nella forza
d’una mano crudele.
Ogni tanto volgeva indietro gli occhi, e per abitudine credeva di
rivederlo. Alto, biondo, con il càmice che gli scendeva sino alle
caviglie, una profonda cicatrice, pur visibile tra la barba, gli feriva
il principio del collo sotto la mandibola sinistra; teneva un libro
aperto su l’avambraccio e scriveva rapidamente, con una penna
stilografica, facendo stridere la carta...
Ora non più. Il Rosales era lontano, vestito di un’altra stoffa più
ruvida, la tela del reclusorio, e chissà mai, forse in quel momento
risognava con i suoi occhi allucinati la corsìa luminosa dell’ospedale
per dove il suo maestro passava...
Salvarlo interamente non gli era stato possibile; aveva ottenuto che una
perizia lo dichiarasse irresponsabile. In luogo dell’ergastolo fu
condannato al manicomio criminale, nè mai passava giorno senza che il
Ferento tentasse qualcosa per abbreviargli o per lenirgli la pena.
Fra i moribondi, fra i malati, fra i convalescenti, egli provava sempre
più un senso d’esilio; veder morire gli pareva ormai una cosa snervante
e laida; guarire, un fatto accidentale, che altri potevan operare meglio
di lui. La sua Clinica non gli pareva più un limpido e sereno tempio
elevato al dolore dell’uomo, bensì una triste casa, ove tutte le
putredini della carne eran manifeste, i gemiti confusi, la morte
accumulata.
Sentiva talvolta il bisogno subitaneo di uscirne, verso l’aria libera, o
di cercare nelle braccia dell’amante il rifugio e l’oblìo.
Non lo avevano condannato le leggi: si condannava da sè, in silenzio, da
vero giudice di sè stesso, con la condanna più alta e più crudele che
mai si potesse infliggere, ossia rifiutando a sè medesimo di vincere
ancora.
Non il suo delitto, ma il tradimento gli era di peso; in ogni attimo
aveva la tentazione di provocare i suoi nemici, affermando loro la
verità. Libero e solo, forse lo avrebbe fatto; ma due creature complici
della sua colpa gli comandavano il silenzio: — e tacque.
La sua lotta fu lunga, e dibattuta nel modo più crudele; ma un giorno
subitamente si risolse. Con una lettera concisa e ferma rassegnò al
Ministero le dimissioni dalla sua cattedra universitaria; nello stesso
tempo, radunata in una sala dell’Istituto l’assemblea dei medici, con
brevi parole comunicò loro di aver donata la sua Clinica al Comune e di
trapassarne in quel giorno stesso la direzione al suo collega più
anziano, l’illustre professor Damiato.
Questi era presente al convegno ed era per l’appunto quegli cui dava
insopportabile ombra la gloria di Andrea Ferento. Nel suo geloso cuore
d’uomo, aveva intimamente sperato che l’accusa lo rovesciasse.
Fra quei medici che, da molti anni, con il potere della sua grande
anima, nell’alta solitudine della sua virile gioventù, limpido e libero,
Andrea Ferento capitanava, la sorpresa ed il cordoglio per quella
notizia furon estremi. In un silenzio pieno di perplessità la voce
tranquilla del Ferento parlava: era in piedi fra loro, a qualche passo
dal semicerchio silenzioso che gli formavano intorno. Parlava ritto su
l’alta persona, ravvolto in una specie di assiderata e brillante
solitudine, come quando era dinanzi al feretro del suo fratello che
ponevano in sepoltura. Nella sua faccia non un muscolo trasaliva; ne’
suoi fermi occhi non brillava che una decisa tranquillità. Tra quel
silenzio, la sua voce scandiva le parole vibratamente, quasi volesse
inciderle a duri colpi nella memoria dei compagni e dei discepoli. Ogni
tratto, al termine delle frasi, rovesciava un poco all’indietro la
fronte pallida, con una mossa che faceva tutta rilucere la sua bella
capigliatura.
Essi lo guardavan muti, protesi verso di lui, senza osare interromperlo.
— «Sì, miei amici; voi continuerete, buoni e valorosi come foste finora,
la strada che vi ho tracciata. Per me, oggi, non ho bisogno che di
riposo. Anzi, questa non è la parola: ho bisogno di pace.»
Abbassò gli occhi d’improvviso luccicanti, e tacque, mentre le sue
parole vibravano ancora nell’alto silenzio della sala. Poi tese la mano
verso loro, con un gesto di commiato, come per salutarli tutti, e
risoluto si volse. Ma d’un tratto, con un disordine di clamori e di
proteste, il semicerchio si chiuse, l’assemblea sollevata in un concorde
impeto si strinse commossa e fedele intorno all’uomo che l’abbandonava.
Egli non aveva detta parola intorno al suo dramma, eppure tutti
supponevano di comprendere la verità: «non era nè malato nè stanco; ma
il suo rifiuto era sdegno; sdegno e tristezza per l’orribile assalto.
Messo alla gogna davanti al paese intero, ferito volgarmente ne’ suoi
amori più nascosti, costretto a scendere nella piazza, s’era difeso come
doveva; — ma ora il cuore non gli reggeva più, l’angoscia lo
soverchiava, con tal delusione da fargli preferire ad ogni cosa
l’esilio...»
Ed allora quel gruppo d’uomini, che nonostante le piccole gelosie,
nonostante le asprezze talvolta eccessive del suo carattere, lo avevano
pur veduto per tanti anni, con un amore indefesso, con una bellezza di
mente e di spirito non eguale ad alcuna, limpido, buono, instancabile,
governare quella casa benefica, essere veramente il genio della
sofferenza e dell’agonìa, dare tutto sè stesso a quel mondo che poi
l’aveva oltraggiato... e in verità, — poichè tutti, ad un momento dato,
sopra l’invidia e l’ira sentono il potere dell’uomo più forte — in
verità essere stato il lor maestro, il lor compagno, il lor fratello di
pazienza e di fatica, — tutti, e perfino lo stesso rivale, ch’egli
debellava con quell’atto di generosità, tutti, come obbedendo
all’impulso di un solo cuore, gli si fecero intorno, tumultuosi, e con
atti e con parole rifiutavano ch’egli si partisse da loro.
Sembrava che almeno per una volta, quel che c’è di buono, di leale nel
cuore dell’uomo venisse al fiore delle fisionomie, su l’orlo delle
bocche, all’ápice quasi delle mani che cercavano di fargli una fedele
violenza, e pareva che, pur non osando per il grande rispetto alludere
al suo dramma, ognuno volesse dirgli tuttavia:
— «Che importa? che importa? Non è laggiù la vostra casa, ma qui, fra
noi, dove siete in mezzo ad una famiglia numerosa, che ben vi conosce.
La forza che vi difende siamo noi. Vi abbiamo già difeso... lo sapete! —
vi difenderemo ancora. No, no! è impossibile quello che voi ci
annunziate!... A chi ubbidiremmo noi dunque il giorno che non ci foste
più?»
Egli ascoltò a fronte china quel tumulto di parole, abbandonò le sue
mani a coloro che parlando le stringevano — ma, invece di rispondere,
guardava interiormente in sè stesso, provava più che mai la tentazione
di sopraffare quel tumulto con un grido, e rispondere: «Ma non sapete,
non sapete, o pazzi, che l’ho veramente ucciso? Io, che mi chiamo Andrea
Ferento, con le mie proprie mani, l’ho veramente ucciso!»
La tentazione era così forte che già gli pareva d’aver gridato, nel suo
silenzio interiore; e levò gli occhi smarritamente.
No! non bisognava decretargli quella specie di trionfo, innalzarlo ancor
più, credere ancor più nella sua menzogna!... Li aveva traditi! traditi!
e non poteva nemmeno pretendere alla bellezza di accusarsi, all’orgoglio
di ricingersi d’una ben altra impunità!...
Fra gli uomini v’era chi lo incolpava e chi lo credeva innocente; non
v’era tuttavia nessuno al quale potesse dire: — «Sì, ho ucciso», — ed
affermarlo tranquillamente, come si dice: — «Ho fatto il mio dovere».
Ma in quell’ora, tra i suoi compagni che salutava per l’ultima volta,
egli provava di questo coraggio la tentazione più insensata; e fu
soltanto il pensiero di colei che amava, il pensiero che in lui
sopraffaceva tutte le immagini della vita, quello che gli comandò: —
Taci!... — che più volte gli comandò: — Taci!... — ed offrendole un
ultimo dono, poichè l’amava, poichè l’amava... obbedì.
Li guardò in faccia ad uno ad uno, poi tutti, come per imprimersi bene
dietro la fronte il calco delle loro sembianze, come per costringerli ad
ammutolire sotto l’ultimo imperio della sua volontà, — e disse
duramente, retrocedendo:
— No! mai!


XI

— Non vedo la ragione per la quale preferiresti ch’io vada senza di te,
— ella rispose con voce carezzevole, davanti al suo rifiuto. — Spiégami,
Andrea, perchè desideri ch’io mi ritrovi sola fra quelle orribili
memorie?... No, no, Andrea! bisogna che tu venga; è necessario che venga
tu pure.
— Necessario? E perchè?
— Cosa penserebbero papà e mammà, ed anche Maria Dora, e tutti laggiù,
se tu evitassi di compiere questo, che mi sembra un dovere? un triste ma
inevitabile dovere? Dopodomani — ricòrdati — è l’anniversario.
— Già, — egli fece distrattamente, senza guardarla, con gli occhi
sperduti nel fumo della sigaretta, che intorno gli formava una larga
nuvola.
Era già, sul cader del giorno, l’ora soave quando incominciano a suonar
le campane. Aveva piovuto nel pomeriggio ed ora il cielo rischiarato
rompeva tra le nuvole in fuga: una fragranza primaverile rinfrescava
l’aria luccicante.
Ancora ella portava gli abiti da lutto; ma, seduta presso la finestra,
teneva su le ginocchia una leggiadra camicetta di colore, tutta pizzi,
frange, nastri, merletti, e con le forbici nel grembo, e con l’ago
infilato di seta flessibile pianamente l’andava ricucendo. Intorno al
collo s’era già rimessa un filo di perle, al dito le brillava il suo
meraviglioso rubino, e già dalla veste nera le spuntava sopra le
caviglie la frivola balza d’una gonnella colorata. Ugualmente si
vedevano, sotto la trasparenza del tulle che le velava la scollatura,
correre intorno al petto e sopra le spalle malnascoste i nastrini rosei
d’una camicia delicata. Fili di seta le si attaccavano alla sottana;
portava sul dito medio della man destra un piccolo ditale d’oro.
— Poi, vedi, — ella disse, posando su le ginocchia la camicetta che
ricuciva, — non voglio andarvi sola... Credo che ne morrei di tristezza.
Or che sono divenuta con felicità una cosa tua, mi spaventa il lasciarti
anche per un sol giorno. Andrea, dimmi che verrai!
Egli era seduto a poca distanza da lei, sopra un divano basso; e protese
una mano per stringere la sua.
— Prométtimi! — ella insistette.
— Perchè mi vuoi costringere ad una cosa inutile? — rispose Andrea. — Mi
opprime l’idea di rivedere quella casa, quella tomba, e sopra tutto mi
sembra che il tornare insieme laggiù sarebbe quasi una ironia, quasi un
insulto... Non lo comprendi?
Ella riflettè un momento, poi disse, chinando il volto:
— Sarebbe assai più crudele non andarvi affatto.
Andrea non volle rispondere; gettò in un portacenere la sigaretta
finita, ne accese un’altra macchinalmente, facendo scintillare la brage
nella ingorda boccata che aspirò.
— Quanto fumi!
— Come sempre, Novella. — Poi contò le sigarette che gli rimanevan
nell’astuccio, e convenne: — Forse hai ragione: fumo troppo.
Ella si levò dalla finestra e venne a sedergli accanto sul divano. La
dorata penombra della sera entrava dalle finestre azzurre, portando nel
suo lieve álito un buon odore d’invisibili giardini; si udivano, sopra
il mormorìo della città, rispondersi le campane distanti. Una striscia
lontanissima del cielo ardeva come un braciere, nel tramonto.
Ella si appoggiò contro il suo braccio, facendogli su la spalla un nodo
con le mani congiunte; sopra vi posò la guancia, e disse:
— Raccòntami... cos’è accaduto ancora? Che hai?
Il respiro delle sue parole gli tormentava il collo.
— Non mi ami più?... — soggiunse, con una voce piena d’incredulità,
mentre tuttavia le sue labbra si orlavano di sorriso. — Non mi ami più?
Egli allora non fece che attirarla sopra di sè, chiuderla nelle sue
braccia forti e rovesciarsi con lei su la spalliera del divano, quasi
volesse godere interamente la fatica del suo morbido peso, la gioia del
suo vivo tepore. Invece di risponderle, circondò con un lungo bacio la
sua calma fronte, le radici fulve come l’oro de’ suoi capelli finissimi,
ch’eran pieni d’un’ombra luminosa, d’un foco buio, quasi avessero due
luci, come le foglie dei tralci vendemmiati, quando, asperse di rugiada
mattutina, brillano, d’autunno al sole.
Questa era la sua pace. Solamente così la sua fronte si rasserenava;
solamente nel calore della sua bellezza egli dimenticava ogni cosa. Gli
avveniva talvolta di guardarla con un senso di novità, come se non
l’avesse ancor del tutto conosciuta; nell’accarezzarla provava una
specie di religiosa paura. Quando pensieri troppo forti gli martellavano
il cervello, prendeva le sue piccole mani per fasciarsene le tempie.
Quelle mani avevano il colore luminoso delle perle orientali, erano
calme, lente, impure, come se non sapessero far altro che prodigare con
insidia carezze troppo voluttuose; quelle mani lo addormentavano: egli
era totalmente beato.
Così bella non era stata mai: nè quando la vide per la prima volta, nè
quando per la prima volta la baciò. In quei giorni per lui così
drammatici ella s’era quasi riposata, e rinasceva dopo la maternità,
sana, felice, con le vene gonfie d’amore, l’anima d’oblìo. Non aveva più
che un sogno: infrangere con quel rito anniversario l’ultimo anello
della catena, poi, trascorso alcun tempo, essere finalmente sua, sua per
sempre, legata, vincolata con lui fino all’ultimo giorno della vita.
Ormai poco le importava ch’egli abbandonasse una strada gloriosa, e
volontariamente, per cause non ben definite, si ritraesse a vivere
d’inerzia e d’esilio, se per tal modo ella poteva più strettamente
ravvolgerlo nel suo geloso amore. Egli le aveva comunicata quella
decisione con parole semplici: — «Era stanco, si era fatto troppo rumore
intorno al suo nome; già da lungo tempo aveva desiderato di ritirarsi a
vivere per lei sola e con lei sola, fors’anche lontano di lì,
ricominciando la vita... L’occasione era propizia: l’afferrava.»
Ella credette, o finse di credere, a tutte quelle parole; ma nell’intimo
della sua bontà femminile pensò che bisognava medicargli a poco a poco
il cuore ferito. Essere in tal modo la sua compagna, e doverlo, non solo
amare, ma far scendere un velo d’oblìo sopra il suo dolore silenzioso, —
questo era per lei, per il suo amore, la più dolce cosa. Gli disse
tranquillamente: — Sì, Andrea, fai bene; hai ragione; anch’io pensavo
che avresti dovuto fare così.
E guardando con occhi di sorella nei profondi occhi dell’amante, spesso
gli mormorava con fedeltà:
— Diméntica l’ombra dalla quale veniamo; la strada è ora così piena di
sole... Andremo, se vuoi, lontano; tanto lontano che nessuno ci conosca
più...
Ma egli frattanto non guariva, ed anzi ogni giorno la sua fatica
interiore diventava più manifesta; le pareva talvolta di sorprendere,
nelle sue parole, ne’ suoi gesti, un’ambiguità indefinibile.
Ed allora, serrandosi contro l’amante, come per affacciarsi con occhi
ridenti sopra il suo dolore non espresso, gli mormorava sottovoce, con
un tremito:
— Raccòntami... cos’è accaduto ancora? che hai?
Egli non rispondeva che frasi vaghe, ma invece ubbidiva come un bimbo ad
ogni sua volontà, e poich’ella desiderava di condurlo verso quella
tomba, fu debole, si arrese, partì.

Il treno li portava con rapidità per quella medesima campagna che tanti
sogni aveva inutilmente fatti nascere, un anno addietro, nello spirito
immaginoso di Tancredo Salvi. Ancora si vedevano a perdita d’occhio
infrangersi, con burrasche di fiori, le ondate immense delle praterie,
curvarsi la ricchezza dei frumenti, e il biondo color dell’estate
nascere nei venti della primavera. Su l’estremo válico dell’orizzonte il
disco paonazzo del sole affondava come un rotondo vómero nella terra
lampeggiante.
L’uomo che aveva ucciso, nel tornare incontro al suo delitto sentiva
nascere in sè, proprio nel fatto intrinseco della sua vita, una
dissimiglianza, un antagonismo con quanto era principio e continuazione
di vita.
Anch’ella non era loquace; qualcosa d’imprecisabile, forse la sola
musica del treno corrente, li fasciava entrambi d’un vago malessere,
d’una sorda e pesante malinconìa.
Egli comprendeva quel silenzio, ed ella il suo; vicini l’uno all’altra,
con la paura entrambi d’aver fatto male a venire fin lì, guardavan per i
finestrini lo spazio fuggire indietro, verso il confine dell’orizzonte,
verso le imprecise lontananze, ov’era il mondo libero...

Erano entrambi così assorti nelle reminiscenze d’un passato non lontano,
che tanto Novella come Andrea non avevano quasi pensato alla gioia di
rivedere il loro bimbo. Sicchè furon quasi percossi di maraviglia
quando, nello scendere di vettura davanti alla scalinata, si videro
venire incontro, su le braccia d’una calma e robusta nutrice, un
bambinello in fasce, che stralunando gli occhi agitava le manine
paonazze.
Ambedue si guardaron fugacemente, non seppero se commossi o vergognosi,
e per nascondere la loro confusione si chinarono entrambi con un moto
concorde sopra le spalle ampie della nutrice, che sapeva di latte
odoroso. Ed ella, ridendo nella faccia adusta, sollevò su le braccia
rotonde, abili nel cullare, quel prospero infante, il qual parve
appartenesse a lei più che alla sua madre.
I cavalli andaron via facendo stridere la ghiaia; tra gli alberi
s’attenuava il rumore delle sonagliere. La serena casa era ferita nei
vetri dall’opposto sole; un’unica finestra rimaneva chiusa — ed entrambi
la guardarono.
Adesso mamma Francesca s’affaccendava intorno a Novella, narrandole
infinite storie del suo piccolo bimbo.
«Quel bocconcello di carne aveva uno spirito indiavolato... quel
bocciolo di tulipano, gonfio e lucido, era d’una intelligenza e d’una
forza che sbalordivano; certamente incomincerebbe a parlare prima degli
altri bimbi, e — secondo mamma Francesca — somigliava come due gocce
d’acqua a Marcuccio quand’era piccino...
Nella serena casa nulla era mutato. Entrandovi, quei due che s’amavano
si sentiron d’un tratto investire dall’ombra di lontani fantasmi, furono
ancora subitamente l’amico e la moglie del morto.
Ecco: avevan scoperto il luogo dov’egli abitava. Non già nella sua
tomba, ma lì, sotto la loggia vetrata, nella poltrona di cuoio, carico
di scialli, vicino a Marcuccio che scriveva o faceva la calza, con i
suoi gomitoli di lana... — lì, nella sala terrena, dov’era il cembalo,
il bellissimo cembalo a coda, in ebano luccicante, sul quale, un certo
pomeriggio ch’eran rimasti soli, ell’aveva suonato per distrarre
l’infermo una vertiginosa fuga di Bach, quand’era entrata la piccola
Natalissa con il suo fascio di rose gialle... Abitava lassù, nella
stanza chiusa, buia, morta.
Rabbrividirono.
E nel loro amore, che si era quasi dimenticato d’essere una cosa
nefanda, ritornò a vivere lo sgomento di allora, il tradimento che li
agghiadava e li ubbriacava, la febbre di tante lussurie che consumarono
vicino alla morte.
Quando la notte incominciò, nell’alte stanze della casa la nutrice
sonnolenta cullava il bimbo nella cuna, cantilenando con una nenia lenta
lunga lenta, che i muri antichi ripercotevano.
«Fai la ninna, fai la nanna,
fantolino della mamma...
. . . . . della mamma...»
Ed allora quando si coricarono, lontani, senza dirsi parola, stretti nel
peccato che li univa come in un gelido sudario, a poco a poco, nell’alta
camera dell’infante, anche la nutrice s’addormentò.
Il silenzio divenne profondo come la fuga di un fiume sotterraneo. Ma
udivan entrambi, nello spessore delle pareti, piovere, scendere, un non
so che d’inafferrabile, che non faceva rumore, come neve.
Eran presso e lontani, solo divisi da una fragile parete; facevan quasi
uno sforzo mentale per allontanarsi ancor più; ma provavano tuttavia la
sensazione che l’ombra li tenesse avvinti, bocca su bocca, mortalmente,
implacabilmente avvinti, in un amplesso che li stremava d’ebbrezza e di
terrore.
Ma d’improvviso ricominciò a passare, come per un miracolo della
memoria, quella notte che ormai erasi evaporata nella dispersione
continua del Tempo. E come allora, d’un tratto rividero nella chiara
camera funeraria il raggio di luna che vestiva il cadavere dal piede
alla fronte, poltrendo su l’ampiezza del letto come un fascio di bianca
elettricità...
. . . . . . .
«... non solo morto pareva, ma deposto sopra un catafalco luminoso, e
freddo pareva di quell’algida luce che somigliava stranamente al colore
della sua carne, al gelo della sua materia spenta.
— «Vedi, — egli disse — com’è tranquillo?»
Ma ella non rispose, forse non l’udì, assorta com’era nel guardarlo,
cogli occhi avvinti, la respirazione ferma, il cuore sospeso.
Gli usciva dal lenzuolo una mano, e quella mano pesava nella coltre come
fosse piombo.
Alte, nel miracolo della notte, le stelle così numerose che parevan nel
deserto cosmico una bufera di polvere in combustione, infuriavano di
splendore come fosforo avvampato, come resina in fiamme, come cristallo
frantumato nella sabbia e balenante sotto lo sfarzo del sole. La notte
bruciava ne’ suoi vertici, aveva sopra il suo fosco edificio invaso
d’ombre una cupola incendiata; l’eternità era espressa in luce,
l’infinito aveva i suoi limiti nella magnificenza del fuoco.
— «Vedi, com’è tranquillo?»
La luce azzurra gli metteva intorno alle radici dei capelli una specie
di scintillamento.
Ella stava un passo lontano da lui, un passo lontano dal morto, e teneva
le braccia contro il petto, incrociate per i polsi.
— «Giorgio...» — profferì, non per chiamarlo, ma quasi per accertarsi
che fosse ben lui.
Poi allungò la mano e lambì la coltre, lievemente, ritraendola con
velocità...
Sì, avrebbe voluto, dal suo cuore di sorella, e nonostante la presenza
dell’altro, mandargli un timido saluto, profferire per lui una dolce
parola, toccarlo con una carezza lieve, posare la bocca su la sua fronte
che non ricordava più... Adesso le pareva necessario di fargli conoscere
il suo dolore, e dirgli, se pure non udisse: — Povero, povero amico
mio...
E s’avvide che s’erano lasciati senza una parola di commiato, senza un
bacio nè una confidenza nè un secreto, senz’una di quelle parole
conclusive che fanno men buia la morte a chi vi sprofonda e a chi guarda
morire...
— «Sì, mi hai chiamata e non c’ero! hai voluto vedermi e non c’ero! Hai
voluto forse confidare a me sola un ultimo desiderio e non t’ho potuto
ascoltare... Da te non ho inteso mai, mai, che parole d’amore...»
— «Vedi, com’è tranquillo?...»
Ella era inginocchiata sopra un ginocchio solo, ma su l’altro teneva un
gomito e nei palmi la fronte.
Nel medesimo tempo egli guardò il morto, e gli parve straordinario che
vicino ad un cadavere si trovasse una cosa tanto profana. Ma due sole
immobilità perfette occupavano la stanza ed un solo raggio le aumentava
nel suo fermo splendore.
Poi, d’un tratto, la vide roteare sul ginocchio piegato; la pianella
scappò via dal piede roseo, fece un piccolo salto, si rovesciò. Era
scoverta fino a mezzo il petto; i calmi seni facevano, sollevando la
camicia, una profonda incavatura.
Dopo di lei osservò il morto, e gli parve strano che la sua faccia non
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