La vita comincia domani: romanzo - 12

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«È lì sotto e non lo vedo... povero Giorgio! Era tuttavia un buon uomo;
quasi quasi potrei davvero piangere... Sebbene si fosse press’a poco
estranei, certe cose la natura le comanda. Siamo figli della stessa
madre: questo conta, per bacco! Poi, che male mi ha fatto? Qualche soldo
me l’ha sempre dato, anche molti, per dire la verità... Era un
brav’uomo. Certo non sentiva troppo i legami della fratellanza, ma
questo è un difetto che gli si può anche perdonare, adesso ch’è morto.
Io stesso, per dire la verità, non sono proprio uno stinco di santo...
Su, vediamolo, poveraccio!»
Ed allungava la mano per sollevare il lenzuolo; ma la mano titubante gli
si fermava a mezza strada.
«Diavolo!... E dire che non avrei paura di quattro malandrini!»
Si fece animo e si chinò. Quell’odore di cadavere e di naftalina lo
stomacava, serrandogli la gola. Tuttavia prese un lembo del lenzuolo e
cominciò a sollevarlo.
Allora si avvicinò la contadina, e inginocchiatasi all’altro lato della
bara:
— Volete vederlo, signore? — domandò. — Peccato che ora si guasta.
E piano piano sollevò il lenzuolo, come dal viso d’un bimbo che non si
voglia destare.
Tancredo per poco non dette un urlo, tanto al vedersi quella faccia era
spaventosa. Livida egli la vide, ma di una lividezza quasi nera, con
l’orecchie, i due zigomi, le mandibole chiazzate di macchie vinose, gli
occhi tumefatti, che parevan marci, la bocca enfiata, guasta, non
chiusa, che lasciava colare dagli angoli, tra i peli della barba, un
umore viscido e luccicante, il quale serpeggiava dentro il collo come
una tortuosa lumacatura. Aveva intriso il colletto e disamidava lo
sparato convesso, nel quale brillava la capocchia d’un bottone d’oro,
simile ad un chiodo mal confitto, che rattenesse a fatica lo sforzo del
torace gonfio. Pareva che l’abito nero lo infagottasse per una farsa
macabra, per un ultimo ballo sotterraneo, dove comincerebbero i vermi a
strisciare nella sua carne spenta, a propagarsi, a dondolarsi piano
piano, su la musica d’un valzer lento...
Ma la contadina lo tastava senza orrore, con le sue brune aride mani che
lo avevano rivestito da capo a fondo; poi lo ricoverse con il lenzuolo,
mentre si udiva la preghiera dei due uomini salir di tono, quasi per
vincere il sonno che li schiacciava, in quel silenzio soffice come il
feltro, nella greve lentezza della notte che passava. Entrò allora un
prete, che sedette vicino a mamma Francesca, parlandole piano, ma
continuamente.
Tancredo retrocesse contro il muro e strisciò fin presso la soglia.
Pensava: — «Povero Giorgio!... Non ho mai veduto nulla di più spaventoso
che la sua faccia! Come lo può toccare quella donna?»
E si mise a guardarla con ammirazione. Ella era tornata su la seggiola,
stava immota, con gli occhi fissi, le mani congiunte nel grembo. Il
giovane bifolco, cedendo al sonno, di tanto in tanto le piegava il capo
su la spalla, ed ella con un urto lo faceva sobbalzare. Il Ferento era
scomparso; Tancredo non sapeva che fare; cominciò a spaventarsi di dover
passare in quella camera l’intera notte. Quel cadavere gli aveva dato un
tal brivido, che ancora ne provava su l’epidermide una sensazione di
gelo, e guardava le fiammelle de’ cerei sventolar nell’aria come
bandieruole che si sfioccassero. Cominciò a scorgere nel vano della
finestra un gran disegno di alberi, che ogni tanto si piegavano
rumoreggiando, come larghe ondate.
«Ma cos’è questo? Un paese di morti? Non si ode la voce d’un cristiano.
Diavolo!... Quasi quasi era meglio che non venissi.»
Il prete ogni tanto si cavava di tasca la tabacchiera, e di nascosto ne
prendeva un pizzico, tirando su.
«Porco!» — disse fra sè Tancredo, che non amava i preti.
Maria Dora venne su l’uscio in punta di piedi, senza badare a lui.
— Don Domenico, vuol prendere una tazza di caffè?
Il calmo prete sorrise alla fanciulla, e con un cenno le rispose di sì.
Aveva un bel faccione, allegro lucido sostanzioso come un piatto ben
condito; era lì per fare il suo mestiere, per vegliare un morto, come in
altre occasioni gli toccava battezzare, maritare, assolvere, ossia far
credere all’uomo in qualche modo che la vita sia davvero una cosa santa.
— E tu mamma, vuoi nulla? — domandò Maria Dora, carezzandole il capo.
— Nulla: ripósati un poco. Dora.
La fanciulla tirò il prete per la sottana, si mise a parlargli piano, ed
uscirono. Tancredo li seguì.
La vista di una bella tavola sparsa di chicchere, con una grande
caffettiera fumante, una grossa torta inzuccherata, gli allargò il
cuore. Ma si tenne in disparte, perchè nella sala v’era molta gente
ch’egli non conosceva. Solo ravvisò lo scemo, e gli sorrise come ad un
amico. Finalmente Stefano ebbe la compiacenza di dirgli:
— Se vuol prendere un caffè, s’accomodi, signor Salvi.
Poi, ad uno ad uno gli ospiti se ne andarono, e per ultimo anche il
prete si levò, dopo avergli offerta una presa di tabacco. Stava per
alzarsi egli pure, quando lo scemo gli comparve dinanzi:
— Come ti chiami tu? — fece di punto in bianco, squadrandolo con una
severità inquisitoria.
«Càspita! che faccenda è questa? — pensava Tancredo; — il mentecatto mi
dà del tu?» Rispose:
— Mi chiamo Tancredo Salvi, per servirla. E lei?
— Io sono il professor Marcuccio Landi: celebre. Non lo sai?
«Càpperi!»
— Cosa dici?
«Ma guarda! ora mi lascian solo col matto!... Non vorrei che per caso
gli saltasse la mattana!»
Poi soggiunse, con un inchino:
— Tanto piacere di conoscerla, signor professore!...
Entrò la Berta per sparecchiare la tavola. Súbito lo scemo le si fece
intorno e cominciò a darle noia. La ragazza, posato il vassoio, fuggiva
intorno alla tavola rotonda; e lo scemo a saltellarle dietro, co’ suoi
lunghi passi barcollanti.
— Ma, dica, professore... cosa fa? — esclamò Tancredo. Marcuccio
ristette, e puntando l’indice contro la ragazza:
— Costei mi ama, — disse,
— Davvero? Ha buon gusto!
La Berta si mise a ridere e scappò via. Da quel sorriso Tancredo arguì
che una corrente di simpatia fosse nata fra loro. Lo scemo cominciò a
dondolarsi, e di nuovo a considerare l’estraneo con attenta curiosità.
— Cosa vieni a fare in casa nostra?
— Io?... Sono venuto per vedere mio fratello.
— Tuo fratello? Ah!... ah!... — E rideva tenendosi le due mani sul
ventre. — Ma chi è tuo fratello?
— Mio fratello Giorgio, che è morto... quello che è morto... — spiegava
Tedo con indulgenza. Ma lo scemo si rannuvolò, dubitando forse che il
forestiero si gabbasse di lui.
— Ora ti mando al manicomio perchè sei matto, — fece, seriamente.
— Già... già... — lo blandiva Tedo con dolcezza.
— E ti faccio legare perchè sei matto!
— Già... già... «Ma cominci anche a seccarmi!» — disse fra i denti,
guardandolo in malo modo. Per fortuna tornarono in quel mentre Maria
Dora, Stefano ed il fattore Mattia.
— Avete pronta una carrozza? — domandò lo scemo. — Bisogna portare al
manicomio quest’uomo ch’è diventato matto.
Il buon Tancredo sorrise con benevolenza, per mostrarsi alieno dal
ricevere scuse; poi disse:
— Oh, mi creda, signor Landi, è stato per me un vero strazio il ricevere
quel telegramma! Se non erro ne’ miei calcoli, quel povero Giorgio non
aveva che trentasette anni, è vero?
— Quasi trentanove, signor Salvi, — corresse Maria Dora, che lo guardava
con un semiriso.
— Appunto, appunto... Ed in che modo è morto?
— È morto di notte, solo, nel suo letto.
— Ha sofferto?
— Forse no; pareva tranquillo. Il professor Ferento crede sia morto nel
sonno.
— Quel professor Ferento era il suo amico intimo, non è vero?
Egli aveva posto a caso la domanda, e solo perchè gli avevano ricordato
il nome del Ferento. Ma s’accorse che la sua domanda non pareva loro
altrettanto naturale, anzi osservò che il padre e la figlia s’erano
guardati velocemente, con una certa perplessità.
— Erano amici sin dall’infanzia; erano quasi due fratelli, — Stefano
rispose.
«Perchè mai — pensò Tancredo — s’erano guardati a quel modo?»
E nella mente gli tornò la sembianza di Andrea: una bella testa
violenta, rigida, precisa, come un’arma d’acciaio bene affilata. — «Lei
è il fratellastro di Giorgio Fiesco, non è vero? E desidera vederlo?
Venga, la condurrò.»
Così gli aveva detto nel riceverlo, senz’altre parole.
— Senta, e la moglie? — fece il Salvi dopo una pausa.
Di nuovo il padre e la figlia si guardaron in faccia rapidamente, quasi
cercasser di nasconder l’uno all’altro il lor medesimo pensiero. Maria
Dora, che stando seduta e ferma teneva i piedi allacciati l’uno
all’altro fuor dalla balza della gonna, macchinalmente li disciolse; poi
di nuovo li annodò; Stefano trasse di tasca la pipa e ne battè il
fornello sul tallone per farne uscire un po’ di cenere.
— Eh, capirà... — Poi disse, molto in fretta: — Desolata, desolata...
Neppur lei non è stata felice, povera figliuola!
«C’è qualcosa nell’aria che non mi sembra naturale... — rifletteva
Tancredo. — Non saprei cosa, ma certo il mio buon fiuto non m’inganna.»
E gli parve che questo senso d’innaturalezza divenisse più immediato,
più avvertibile, quando il Ferento appariva, o quando nei discorsi
altrui fosse pronunziato il suo nome. Con quell’istinto particolare
degli uomini che son usi a vivere di mezzi equivoci ed a speculare su le
debolezze altrui, Tancredo s’accorgeva di respirare in un’atmosfera non
limpida e gli pareva che un non so che d’ambiguo stringesse tutti gli
abitatori di quella casa funesta.
Andrea si era seduto presso la tavola, sotto la luce dell’alto
lampadario, e celermente leggeva un fascio di telegrammi, passandoli poi
a Stefano con un moto meccanico.
Tancredo guardava quell’aspra fisionomia, gli pareva di temerla, ma
insieme di sentirsene avvinto. Nel vederlo, comprese la fama che di lui
correva, sentì con esattezza d’essere di fronte ad un uomo insolito, uno
di quegli uomini destinati a produrre avvenimenti estremi e che raggiano
da sè un fascio di potenza, benefica o dannosa, che li ricinge di
solitudine come insieme li avvolge di splendore.
Molto spesso Tancredo aveva udito pronunziare il nome di Andrea Ferento.
Era un uomo che, da un lato, riempiva di sè la vita scientifica del
paese, dall’altro, con veementi libri, ne scuoteva le forze
intellettuali; e quantunque avesse da parecchi anni abbandonata la
battaglia politica, non ancor sopiti si eran gli odî acerrimi e gli
amori tenaci ch’egli aveva suscitato e suscitava intorno a sè, agitando
bandiere. In verità era piuttosto un pensatore che un tribuno, piuttosto
un banditore d’idee che un uomo di parte. Nato con un cervello
d’autócrate, amava per istinto la ribellione, amava la guerra del
pensiero nuovo contro il pensiero antico, del domani contro la vigilia,
dei rinnovatori contro i sofisti.
Dalla sua cattedra d’Università, nelle vibranti pagine de’ suoi libri,
egli cercava di rappresentare con immagini vive l’enorme fantasma del
suo pensiero; logico, freddo, preciso, libero da influssi mistici come
dalle pastoie di qualsivoglia sistema, non curava l’uomo soltanto per
guarire la materia, bensì per indovinarla, e vedeva il problema della
conoscenza umana ridursi grado per grado ad una catena di scoperte
scientifiche.
«_Uno scienziato sarà il Dio dell’umanità ventura..._»
Tancredo Salvi si ricordava confusamente di aver letta questa frase nel
«_Dio lontano_» — il libro del Ferento che, per la sua forma accessibile
anche ai profani e per il suo contenuto suggestivo, si era più
largamente divulgato nel pubblico; libro d’anarchismo e d’irreligione
dov’egli cantava la Divina Inutilità.
E Tancredo ripensava queste pagine, mentr’era intento ad osservare
quella fronte salda, maestosa, que’ fini e lunghi sopraccigli pressochè
non curvati, che stavan sopra gli occhi violenti come segni di volontà.
Guardava la bella capigliatura, leggermente striata di bianco,
l’orecchie di lui, piccole, ben raccolte contro il cranio, quasi prive
di lobi, effeminate quasi nella sua maschilità. Considerava il mento
saldo, la guancia ben contornata, la bocca dissimile dagli altri
lineamenti, anch’essa un po’ lieve, un po’ delicata, in quella maschera
così bene impressa di virile fermezza. Era vestito di scuro;
semplicemente, ma con uno studio di eleganze quasi dissimulato, e si
vedeva una camicia di lino, freschissima, con i polsini chiusi da
quattro cerchi di zaffiri, «che gli stavan — pensò Tancredo — molto
bene, molto bene...»
Gli tornò in mente la biondina, ch’era così leggiadra nel suo lieve
abito nero, e poi l’altra, ch’era di sopra, la sua cognata vedova,
l’erede...
Come costei fosse veramente, non ricordava più; gli parve solo che fosse
molto bella, null’altro; che fosse alta, con le trecce d’un bel colore
bruno dorato... null’altro. Le rade volte ch’era stato in casa di
Giorgio, questi l’aveva ricevuto frettolosamente, nel suo studio, ed
egli lo rivedeva sempre nell’atto di aprire con un certo mazzo di chiavi
che si toglieva dalla tasca dei calzoni lo sportello d’una cassaforte
massiccia e tenebrosa. Poi rinchiudeva meticolosamente la serratura...
tric, trac... una quantità di ordigni che scattavano, e Giorgio tornava
presso la scrivania, piano piano, senza guardarlo, senza dir nulla;
cercava una busta, vi metteva dentro alcuni biglietti di banca,
ingommava, bagnando il dito in una spugnetta, e gli posava la busta lì
vicino, su l’orlo della scrivania, perch’egli la prendesse. Tutto questo
in silenzio, molto piano, con una delicatezza tediata ma dolce. Poi si
rannicchiava nel suo seggiolone, senza guardarlo, sfogliando un libro o
qualche lettera, in attesa che se n’andasse.
«Addio, Giorgio... Grazie.»
«Addio.»
Suonava il campanello; un domestico, il quale forse aveva l’ordine di
star fuori dall’uscio, entrava sùbito, l’accompagnava. Una volta, su lo
scalone, incontrò la moglie. Tancredo si trasse da parte, le fece un
grande inchino; ella curvò leggermente il capo e gli passò davanti con
un fruscìo. Per lo scalone, dietro di lei, rimase un odore freschissimo
di violette...
— Signor Salvi, mi perdoni, — fece d’un tratto il Ferento; — lei non era
tempo fa nella redazione d’un giornale ebdomadario che si chiamava, mi
pare, «Il Bisbiglio»?
Tancredo sobbalzò come se l’avesser côlto in fallo, e, cosa non
frequente in lui, divenne leggermente rosso.
— Appunto, — rispose impacciato. Ma sembrandogli che il dire «appunto»
fosse poco, soggiunse: — Appunto, per servirla.
— Vedo.
E si mise a tamburellar con le dita su la tovaglia. Dopo aver
riflettuto, gli domandò ancora:
— Il giornale continua?
— No, è cessato.
Andrea trasse di tasca un bellissimo astuccio d’oro ed accese una
sigaretta.
— Fuma? — domandò, avanzando verso Tancredo l’astuccio aperto.
— Volentieri, grazie.
Parlarono ancora un poco, poi Stefano andò a chiamare la Berta, perchè
accompagnasse il signor Salvi nella sua camera.
Il poveraccio aveva fame; una fame dolorosa, iraconda. Nel suo cervello
non faceva che riddare una visione pantagruélica di buone cose
mangerecce; per di più, dalla prossima cucina filtrava, intorno alle sue
narici vellicate, un odor proditorio di roba masticàbile. Tutte le
rinunzie morali erano per lui più facili che quella di un pranzo, e
l’idea della notte insonne, con i crampi allo stomaco, gli incuteva un
terrore inesprimibile. Rimase un attimo in dubbio se confessare al
vecchio i suoi tormenti, poi non ebbe il coraggio e si rassegnò.
«Amen...» — concluse fra i denti, e mosse per le scale, dietro la
ragazza che ad ogni gradino si puntava la mano sul ginocchio,
dondolando. La sua nuca tonda e fulva, allacciata da un nastro di
velluto, s’increspava, nel salire, come il collo carnoso d’una cagnetta
mops.
Quando furon sopra, ell’aperse l’uscio di fondo nel corridoio e,
mentr’egli stava per entrare, lo guardò con il suo riso di contadina
furba e sciocca.
— Eccola servita. Questa è la sua camera.
Teneva una mano su la maniglia; con l’altra, paonazza, reggeva il lume.
— Come vi chiamate, ragazza?
— Berta, mi chiamo. Perchè?
— Tanto per saperlo, ragazza. E vi trovate bene in questa casa?
— Peuh... non c’è male.
— Ci siete da un pezzo?
— Due anni. Buona notte, signor Salvi.
— Avete fretta?
— Ho sonno, sa... Sono in piedi dalle sei; pare niente, ma è lunga.
— Avete pranzato voi? — fece Tancredo impulsivamente.
— Eh... certo!
— Io no.
— Lei no? — disse la Berta, senza soverchio stupore.
— Proprio no.
Fece due lunghi passi, le andò presso, le diede un leggero pìzzico su la
manica:
— Fammi un piacere, brava ragazza. Se mi còrico a stomaco vuoto, sarà un
inferno. Tu, in cucina, devi certo avere qualche avanzo. Vallo a
prendere; fa quest’opera buona e non ci perderai nulla.
— Ma io, signore, non ho ordini.
Tancredo comprese che bisognava ricorrere a mezzi estremi; si cercò nel
taschino del panciotto e ne trasse un gruzzolo di monete: argento e
rame. Scelse un bel pezzo da due lire e lo fece scivolar nel palmo della
domestica, dicendole:
— Questo è per te.
Bisognava che avesse una fame diabolica per dare quella mancia da
scialacquatore.
— Senta allora... — propose a bassa voce la Berta, — non dica nulla ed
io le porto quel che ho.
— D’accordo. E cosa mi porti?
— Quello che c’è: forse un’ala di pollo, forse qualche fettina d’arrosto
freddo, con un po’ di pane.
— Ottimamente! — rispose Tancredo. E in attesa della cena se ne andò
alla finestra per guardare il paesaggio. Ma nella inoltrata ora notturna
faceva buio in lontananza, il paesaggio non c’era. Si vedevan soltanto
alberi e stelle, prati e nuvole. Forse la luna era dietro il tetto, e
lentamente sormontava la casa. Nella facciata non vide che finestre
spente; una sola immergeva nei lucenti alberi del giardino il suo fascio
di luce rossastra, propagava nell’ombra un colore torbido, che si
diradava. E Tancredo rivide le quattro torciere agli angoli della bara,
le sottili vampe che si staccavano dalle fiammelle con un guizzo, la
testa nera del morto sopra un cuscino di seta, il bottone d’oro che
premeva la camicia scoppiante...
Finalmente udì la Berta bussare all’uscio.
— Ma s’accomodi, signorina! — egli esclamò giovialmente.
La Berta comparve con un vassoio carico d’ogni ben di Dio, tutto sovra
un sol piatto insieme: carne, ossa di pollo, frantumi di formaggio,
pere, patate fredde. A lato, un tozzo di pane, mezza bottiglia di vin
nero, posate, saliera e tovagliolo. Per la contentezza Tancredo non
seppe trattenersi dal farle una carezza su la guancia; ella si mise a
ridere col suo riso di scioccona, e rimase in piedi vicino alla tavola,
mentr’egli cominciava il suo festino.
— Sièditi e fammi compagnia.
— Vuole?
— Sì, sì.
Ella sedette presso il lavabo, sopra una seggiola di paglia.
— Che buonissima roba, mia bella ragazza! Sei tu che fai in cucina?
— Proprio io, per servirla.
— Allora tu fai tutto in questa casa?
— Eh, no! Mi aiutano. C’è un’altra donna che lava i piatti, una che
scopa, e due uomini che vengono la mattina per i mestieri grossi. Da
sola non potrei, le pare?
— E ti trattan bene?
— Non c’è male. Se non fosse quello scemo che mi pizzica...
— Bel tipo!
— Ma sa che la notte è capace di starsene magari un’ora davanti alla mia
porta? Per fortuna che chiudo a chiave! Ho paura, sa...
— Cosa vuole il babbeo?
— Eh... lei capirà bene cosa vuole! — spiegò la Berta facendosi rossa.
Tancredo ammiccò verso lei con il fare d’un uomo che se ne intende:
— Ah, sì?...
— Ma, già!
— Porco! — esclamò Tancredo con la bocca piena. Poi soggiunse:
— Tu probabilmente hai un altro innamorato...
— Ho uno che mi parla, si sa...
— Uno che ti sposa poi? — fece Tancredo paternamente.
La Berta assentì col capo, seria, seria.
— E quando?
— Quando avrà fatto il servizio militare.
— Ahi!...
— Perchè dice «Ahi»?
— Così per dire. Ma ti consiglio di non fidarti troppo in ogni modo;
perchè gli uomini che non hanno ancor fatto il servizio militare sono
tutte canaglie.
— Questo lo so.
— E quando l’hanno fatto sono peggio di prima.
La Berta si mise a ridere.
— Oh, allora!...
— Allora cerca di non farti infinocchiare, perchè sei una bella ragazza
e sarebbe un vero peccato.
— Eh, eh... — cantilenò la Berta, accompagnando la sua cantilena con un
largo gesto, — la so lunga io... non c’è pericolo!
Tancredo mangiava scrupolosamente, raccogliendo le briciole.
— Dimmi un po’: e la signorina Dora non ha nessuno che le parli?... —
fece, con un’aria furbesca, strizzando l’occhio.
— La signorina Dora?... oh, no! Ci sarebbe Maurizio, quello dei cani,
che certo la sposerebbe volentieri, ma lei non lo vuole. Anzi lei... — e
fece una pausa repentina.
— Lei?... cosa? Di’ su!
— Niente, niente; non son mica pettegola io...
— Lo so che non sei pettegola, — rispose Tancredo per lusingarla; — ma
io sono un uomo serio e con me puoi parlare liberamente.
Placata la fame, s’accorse che gli si offriva un mezzo facile per sapere
molte cose.
— Dunque la signorina vuol bene ad un altro...
La Berta strinse la bocca per non rispondere, ma gli angoli delle sue
carnose labbra parevano dire di sì.
— Povera signorina!... — sospirò la Berta. — È tanto una brava ragazza!
Allegra, buona, un vero angelo!
— Glielo si vede in faccia ch’è buona, — disse Tancredo, attento. — E
perchè non lo sposa quest’altro a cui vuol bene?
— Se si potesse avere tutto quello che si vuole al mondo!... — esclamò
la Berta, con sapienza.
— È uno qui del paese?
— Non è di qui, ma ora è qui da un pezzo... o per lo meno vien tutte le
settimane.
— Ho capito, — fece Tancredo. «Guarda, guarda...»
Sbucciava una pera, distrattamente, pensando a quel proverbio fiorentino
del cacio con le pere...
— Sicchè, al professore Ferento, la signorina Dora non piace? — domandò,
per accertarsi che fosse proprio lui. La Berta strinse di nuovo la
bocca, e questa volta gli angoli delle sue labbra dissero di no.
— Il professore... — mormorò la ragazza, con intendimento.
Tancredo non volle aver l’aria d’interessarsi troppo alla cosa, e
tacque. La Berta fece un nodo coi nastri del suo grembiule, poi lo
disfece; ma intanto rideva.
— Il professore...
— Già... già... — malignava Tancredo, benchè non sapesse ancor niente. —
Ah, sì, eh?...
Ammiccava, guardandola in faccia con gli occhi penetranti e studiandosi
d’indovinare quelle sue reticenze.
— Ah, sì eh?... — rifece ancora una volta, come se avesse ormai capito.
— Io non dico nulla, — premise la Berta, — perchè non sono pettegola, e
di quello che succede in casa non parlo mai per abitudine... Ma, tanto,
lo sanno tutti, dal portalettere al capostazione, e lo sapeva perfino
quel povero diavolo ch’è morto.
— Ah, sì eh?... — Un pezzo di formaggio gli rimase fra i denti,
masticato a metà. «Guarda, guarda, guarda... — mormorava tra sè. — Che
razza di faccenda è questa?»
— Guai se dovessi parlare!... — esclamò la Berta. — Sa, per i signori
c’è un’altra morale che per noi: fanno e disfanno quel che vogliono;
tutto va sempre bene.
— Dici davvero che il professore sia l’amante...
— Oh, io non dico niente, per sua buona regola! Ma, guardi, lo sanno
tutti: lo sa la signorina Dora, lo sanno i miei padroni, ossia il signor
Stefano e la signora Francesca, lo sa il fattore, il prestinaio, il
macellaio, il falegname, il curato, il sindaco... lo sanno tutti
insomma, e quasi quasi crederei che lo sappia perfino lo scemo!
— Diavolo! — esclamò Tancredo, rannuvolato. Poi emise una sentenza che
gli pareva insieme scaltra e doverosa:
— Molte volte si racconta quello che non è.
— Eh!... — scappò a dire la Berta, — se avessi tanti biglietti da cento
quante sono le volte che li ho veduti con i miei occhi!
— Tu?
Egli s’era fatto così buio che la ragazza se ne impaurì.
— Per l’amor di Dio! — supplicò, levandosi in piedi, — non mi
comprometta... Ho parlato senza volerlo, perchè mi pareva che lei
sapesse già... Mi raccomando, signore...
Tancredo si levò, e, venutole presso, le diede un’altra carezza su la
guancia, ma questa volta paterna.
— Sta tranquilla, ragazza. Sono un uomo serio, ti ho detto; e per conto
mio sarà come se non avessimo nemmeno discorso. Ti basta?
— Grazie, signore. — Poi soggiunse: — Posso portar via i piatti?
— Sì, ho finito.
Accese un mezzo toscano e cominciò a camminare, avanti, indietro. —
«Guarda, guarda, guarda...»
Nonostante la confusione dei suoi pensieri, s’accorse che bisognava
tenersi buona quella domestica, e gli parve che due lire fosser poche
per tutto quello che aveva saputo da lei. Si cercò nel taschino e prese
un’altro franco.
— Sei una ragazza a modo mio! Tieni.
Ella stava per caricarsi il vassoio su le braccia, e guardò attonita la
moneta che gli luccicava tra l’indice ed il póllice.
— Non si disturbi ancora...
— Oh!... — egli fece, con aria principesca, — bazzécole!
Ma non appena fu solo, Tancredo pensò che la fortuna d’un uomo consiste
alle volte nel trovare il bandolo d’una matassa molto arruffata, e
mentre si piegava sul davanzale per rinchiudere le persiane, lungamente
i suoi occhi affascinanti rimasero avvinti a quel fascio di luce
rossastra, a quel lento fiume di polvere che scaturiva dalla finestra
del morto.


II.

Alle nove precise il funerale mosse giù per il viale carrozzabile che
traversava il giardino.
Da un lato del féretro mamma Francesca e Maria Dora scendevano insieme;
dall’altro, papà Stefano, tenendo sottobraccio il figlio scemo.
Maurizio, Mattia, la piccola Natalissa, il giardiniere, seguivan per
primi il carro funebre, con gli occhi rossi di lacrime, accasciati da un
semplice ma spontaneo dolore.
Solo, pressochè isolato in capo del corteo, camminava Andrea Ferento, a
capo nudo, bianco ma impassibile. Aveva impartito gli ordini con una
voce breve; poi, quando il carro si mosse, guardò rapidamente in alto,
verso una finestra chiusa, dove la cortina ricadde; volse uno sguardo
rapidissimo su le persone che aveva intorno, e s’incamminò dietro il
carro.
Tutti, per un rispetto simultaneo, lo lasciaron solo.
Dietro lui si muoveva il corteo bisbigliante, numeroso d’un centinaio di
persone, che dal borgo eran salite a casa Landi, o v’eran giunte coi
treni del mattino, poichè la morte del Fiesco era stata annunziata in
città la sera innanzi dalle ultime gazzette con frettolose necrologie.
Tancredo Salvi scendeva tra il sindaco Berra ed il medico Paolieri;
studioso di ben recitare la sua parte in quella estrema cerimonia,
faceva pompa dell’alta persona e del suo maestoso dolore.
Fuor del cancello era una ressa di contadini, che al passaggio del
féretro cominciaron a biascicar preghiere; alcuni s’inginocchiavano su
la proda erbosa del fossatello, e, passato il carro, si raddrizzavan in
piedi senza ripulirsi le ginocchia dalla polvere.
Il cielo era limpido, l’aria ventilata, un ridere di pannocchie
sbocciava nella biondezza dei campi, scaturiva dalla terra umida una
fragranza di mietitura, e quel corteo funebre camminante per la strada
polverosa pareva in contrasto singolare con l’allegrezza del mondo.
Di là dalla svolta il borgo apparve, con i suoi tetti rossi e decrepiti,
che, accesi dal sole, ripercotevan nell’azzurrità un dondolìo balenante.
La strada maestra si lanciava diritta nel mezzo della borgata, piegando
a valle, di là dall’estreme case, per il declivio della collina. Su
l’ingresso del borgo due lunghe siepi di curiosi attendevano il
funerale.
E il carro camminava piano piano, con un rumor soffice di ruote nella
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