La vita comincia domani: romanzo - 23

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si fosse chinata fuor dalla proda per guardare in giù.
— «Vedi?» — gli disse mentalmente, con un riso che non saliva sino alla
bocca.
Gli parve che alcuno avesse aperto l’uscio...
— «Vedi?»
Un usignolaccio, fuori, nella notte, nella ramaglia nera e balenante,
sufolava con ironia collerica, e tanto presso e tanto forte, che lo
stordiva... Il vano della finestra pareva un canale azzurro sgorgante
nell’inmensità.
«Uuh!... Fi... Perchè canti? — Vattene!» L’usignolaccio saltava. Era
proprio lì, nella grande magnolia; il suo pennaggio faceva rumore contro
le foglie sonore.
— «Vedi?»
Un filo d’aria notturna soffiò fra i capelli radi del morto, e li
scompose; poco dopo una nuvolaglia, correndo sopra la luna, ruppe il
filo che portava quel fascio d’elettricità.
— «Vedi?» —
E la nuvolaglia se n’andava piano piano, il raggio tornava, più mite,
più forte, parendo invadere la stanza e colmarla come un fiume.
— «Via... via... — balbettò quando fu ritta; — pórtami via!»
Su l’uscio, nell’entrare in quell’altra camera, involontariamente si
baciarono.
— «Dammi da bere!... — ella fece, comprimendosi il petto soffocato, —
brucio di sete!»
— «Acqua? — egli disse. — Non ho che acqua.»
Un lungo trillo melodico empiva la notte incantata, e nel rifugio
dell’alto suo ramo il cantatore solitario snodava, buttava i suoi
gorgheggi con impetuosa magnificenza, come nell’aria brillando lancia i
suoi vertici una fontana. Di tanto in tanto qualche rana grassa metteva
nelle pause del canto la sua sgangherata vociaccia, come se le
vellicassero il ventre viscido per farla ridere, o si fosse ubbriacata
fino a creparne del buon odore che mandavano i gelsomini.
Egli si andò a sedere su l’orlo del letto, curvo, stanco, tenendo i
gomiti su le due ginocchia, le mani allacciate, la fronte china.
Ella fece per la camera un lungo giro e si fermò alla finestra,
guardando fuori, curiosa, nella notte stellata.
Soffiava ora un poco di vento; i prati lontani mutavano colore.
Ella vide a pochi metri dalla finestra, su l’albero gigantesco, un
grande fiore di magnolia sfasciarsi, cadere in frantumi sotto il lucente
albero, come una porcellana spezzata.
Andò vicino all’amante, gli pose una mano sui capelli e sottovoce disse:
— «Che ora è? Tardi?»
Egli guardò l’orologio distrattamente:
— «Le tre passate.»
Cominciava un dondolio sonnolento per le cime degli alberi; i prati
lontani mutavano colore.
— «Che faremo?...» — ella domandò con un tremore fin nell’anima.
— «Non so.»
Stava ritta contro le sue ginocchia, tenendogli ora le mani su le
spalle. Egli aveva la fronte quasi nascosta contro il suo petto, e,
senza toccarla, sentiva tuttavia l’impressione della sua pelle nuda,
sentiva il profumo della stoffa tenue somigliante all’odore stesso di
lei.
— «Tu l’amavi!» — egli esclamò d’un tratto con iracondia, senza levare
il capo.
— «No... taci...»
E come per soffocare ogni parola, su la bocca, affannosamente, lo
baciò...

... poi lontano, per l’ultimo cielo, fra i mazzi di stelle che
imbiancavano, videro salire una gran fiumana di vapori ondeggianti,
quasi una colonna di fumo che soffiasse, non da un incendio, ma da un
gelido remoto mare. Veniva per la finestra, con l’odor fluviale dei
narcisi, con l’abbrividire delle foglie che si destavano, un’ondata
d’aria fredda, quasi visibile, che faceva il giro della stanza, come un
vortice...
Una chiarità nasceva nell’oriente concavo; i prati lontani mutavano
colore.
Egli le ravvolse nella camicia di batista i seni che si ergevan nudi, la
fasciò fino alla gola entro la vestaglia di seta, e baciandola su gli
occhi pieni d’ombra disse a lei che non parlava:
— «Dormi?...»
. . . . . . .
Fu la notte più lunga e più calamitosa che vissero mai nella vita. Li
divideva solamente una parete, una fragile parete, attraverso la quale
si vedevano, si udivano, — ed una porta non difficile ad aprirsi, che
ogni tratto pareva si spalancasse da sè.
Non s’erano mai amati con tanto brivido nè con un senso più inesorabile
della loro complicità. Ora si accorgevano che il delitto era veramente
l’essenza della loro passione, comprendevan che il senso della morte
aveva sempre alimentato come un’esca la lor tragica fiamma.
Perchè non gli avevano data la medesima stanza dell’altr’anno? Chi mai,
nella casa, aveva creduto necessario avere questo delicato e crudele
pensiero per lui? Perchè tacitamente l’avevan messo a dormire presso la
camera di Novella, con una sola porta fra loro, e che potesse aprirsi
con tanta facilità?...

La mattina dopo s’incontrarono, lividi, come se avesser ucciso ancora
una volta. E compirono il rito funerario con una specie di meccanica
obbedienza, di freddo rispetto, al senso di quel dovere ultimo. Ancora
una volta la famiglia dell’ucciso li aveva lasciati soli, vicino a
quella tomba.
Vi andaron per la via della campagna, veloci, senza guardarsi, con le
braccia cariche di fiori. Il sole raggiante li assiderava; l’orizzonte
si moveva davanti alle loro pupille, come, dalla prua d’un veliero, il
confine dell’oceano.
Ella camminava rapidamente, vicino a lui, talora toccando il suo
braccio, talora lontanandosi d’un passo; fili d’erba e fuscelli di
paglia s’attaccavano alla balza della sua gonna rumorosa; ogni tratto
egli vedeva luccicare le fibbie d’acciaio brunito che ornavano le gale
delle sue scarpine.
Aveva il torto, in quel mattino di primavera, d’essere più nuda e più
femminile che mai.
Senza che lo facesse apposta, l’abito nero e la compunzione del suo
volto non facevano che accrescere visibilmente i segni della sua
impurità. Era bella, bella, bella, e pareva scesa da un letto nel quale
avesse amato infinitamente, pareva che portasse per una offerta profana
quel fascio di fiori profumati.
— Andrea...
— Mio amore?
Egli disse queste parole senza volerlo, istintivamente, come le avrebbe
dato un bacio. Se ne pentì.
— Non camminare così presto; inciampo...
Egli rallentò il passo, e proseguirono a fianco a fianco, fra due siepi
di robinie cariche di grappoli che mandavano un profumo soverchiante.
Dietro le siepi vedevano qua e là i buoi camminare possentemente,
trascinando l’uomo e il solco.
Ella non s’era messo nè mantello nè cappello; solamente un velo di trina
su la capigliatura luminosa. In quella semplicità, la sua carne
trasparente brillava come un gioiello di straordinaria purezza.
— Andrea...
— Che vuoi?
— Non ho dormito.
— Io nemmeno.
Parlavano, ella sommessamente, egli forte.
Il cimitero biancheggiò d’un tratto. Ella disse:
— Férmati.
Egli ubbidì; rimase qualche attimo fermo; poi le prese una mano, quasi
di nascosto, e la condusse.
D’improvviso, davanti alla tomba, s’accorsero che non avevano più alcuna
paura. Fra i cimiteri, su l’orlo dei sepolcri, dove la polvere torna
polvere, l’uomo non può più credere neanche nella divinità della morte.
Invece li afferrò senza remissione la gioia d’ogni cosa viva, il senso
pagano della vita; s’accorsero che faceva un bel mattino di primavera;
la terra fertile si gonfiava di rugiade iridescenti; l’aria inondata di
sole tramandava ilarità; le tombe non erano che piccoli giardini; fra
gli alberi del cimitero le nidiate cantavano.
Ella disse, _come allora_, deponendo i fiori:
— Povero, povero amico mio...
Ed egli, con una specie di atono stupore, andava leggendo le parole
incise nella pietra funeraria:
GIORGIO AURELIO FIESCO
INGEGNERE DELLA MINIERA DI HASWILL
COSTRUTTORE DEL PONTE DI CIMBRA
NATO... MORTO...
PACE
«_Pace_» — Che mai significava questo voto funerario? C’era forse una
verità superumana in questo segno di quattro lettere? Quale senso aveva?
Era essa una parola di ammonimento?... Una sigla tombale?... Una fredda
ipotesi?...
Era una parola: — ossia niente.
«_Pace_»
Tuttavia, nell’irrealità universale della umana conoscenza, pareva che
questa parola avesse un significato maggiore di tutte le altre, più
profondo, più interminabile... «_Pace_»
Ed egli pensava:
«Qui dorme l’uomo che uccisi. Di sotto quel puro marmo la sua faccia
devastata mi guarda. Ride, ride... come allora... sì, me ne ricordo. — È
un fatto grave? — Non è grave: è nulla.»
Davanti alla opaca terra che nasconde il perpetuo marcire che si compone
di dissolvimento in ogni átomo della sua polvere, la morte non era più
una cosa grave, non era più che un’astratta immanenza del passato
nell’avvenire, in verità somigliante alla parola: «_Pace_», — una specie
di sorda memoria delle cose che furono, dentro quelle che saranno.
Egli rilesse, questa volta con maggiore attenzione, le parole incise:
GIORGIO AURELIO FIESCO
INGEGNERE DELLA MINIERA DI HASWILL...
D’un tratto, come se si squarciasse nel suo cervello una densa tenebra,
umanamente lo rivide, com’era nella sua gioventù, quando insieme avevano
intrapreso ad ascendere per il cammino della vita. E intanto rileggeva
macchinalmente la parola di quattro lettere, vuota come un cerchio
d’ombra che s’allargasse nel brillante etere, la parola che gli sembrava
beffarda come il sogghigno della morte... «_Pace_»
Sul marmo polito un’iride di sole picchiava nel triangolo della terra
«A»: la pietra balenante si purificava nel fuoco settemplice
dell’arcobaleno.
Da quando Giorgio era morto, ella non aveva pregato mai più; teneva ora
le mani congiunte, ma il cuore non le suggeriva alcuna parola, ed anzi
le pareva ormai che fosser morti anche il senso e l’ideale della
preghiera.
D’un tratto egli afferrò le sue mani, ch’erano intrecciate, le strinse
con una dura forza, e la condusse via.
Oh, come cantavano le nidiate in quel mattino di primavera!... Quanto
sole, quanto sole a perdita d’occhio, su la magnificenza della vita!...
Varcaron il cancello, e, fermi su la proda, guardaron abbacinati nel
chiarore della strada maestra.
Venivano in su due carri, al passo, levando poca polvere; i carrettieri
distesi sulla paglia, cantavano a voce spiegata.
Senz’abbandonare la sua mano, egli la trascinò lontano dalla strada,
rasente il muro del camposanto, per il viottolo che s’inoltrava nella
campagna; ed ella, sentendosi più lieve, si appese felicemente al suo
braccio.
— Dimmi, — egli domandò convulso: — vuoi ancora essere mia?...
Ella non comprese la sua domanda, oppure non volle interamente
comprenderla; ma gli si annodò contro la spalla, con un movimento
femineo, rovesciando il capo all’indietro per fargli vedere che la sua
bocca rideva.
— Dimmi, — egli ripetè con forza: — vuoi ancora non abbandonarmi, non
odiarmi anche tu?...
S’eran fermati nel folto; invece di rispondere gli tendeva la bocca
rossa, gli occhi innamorati, la sua turgida gola bianca di cipria,
stringendolo così forte nelle sue braccia ch’egli doveva da ogni fibra
udirsi rispondere: — Sì!
— Allora ódimi — egli disse, pallido in verità come la morte: — bisogna
che tu sappia una cosa, perchè non posso più conoscerla io solo.
— Raccóntami... — ella rispose, impaurita, lasciando cadere le braccia
che a lui si reggevano.
Con uno sguardo mortalmente vuoto egli fissò l’amante, la campagna, il
mondo... fu sul punto d’incominciare; poi tacque.
— Raccóntami... — ella cercava di persuaderlo, carezzandogli la faccia
pallida con le sue falangi odorose di fiori.
— No, — egli rispose, — non qui. È meglio che non sia qui. C’è troppo
sole...


XII

«Fai la ninna, fai la nanna,
fantolino della mamma...
. . . . . della mamma...»
A poco a poco, nell’alta camera dell’infante, anche la nutrice
s’addormentò.
Egli rimase ancora per qualche attimo, solo, nel buio. Per le connessure
dell’uscio filtrava luce dalla camera di Novella. Voleva sentirsi
pronto, come nelle ore di battaglia, davanti a questa ch’era l’ultima e
la più inattesa fra tutte. Ma invece la volontà non gli bastava per
chiudersi ancora una volta in quell’armatura inflessibile che lo rendeva
così padrone di sè.
Aveva lottato per uccidere — e di questo era stato capace; aveva lottato
per nascondere il suo delitto — e di questo era stato capace; aveva
lottato prima di distruggere la sua magnifica vita in un fiero esilio —
e di questo era stato capace... ma quello che non poteva comandarsi più,
era lo sforzo di suggellare nel perpetuo silenzio il grido che gli
prorompeva dall’anima. Bisognava dividere questo peso almeno con
un’altra creatura, bisognava consumare il delitto fino all’ultimo,
facendo sì che investisse lei pure.
Quella tentazione crudele che aveva sentita poche ore dopo l’uccisione,
lungi dallo spegnersi, era cresciuta continuamente, in ogni giorno di
quel tempestoso anno, ed or gli pareva che ogni ulteriore indugio non
fosse che una più lunga viltà. Quante volte la parola rivelatrice gli
era venuta su l’orlo della bocca!... e sempre, sempre, nei baci più
deliranti, quel desiderio s’infiltrava in lui come la tentazione di una
più forte voluttà. Qualche volta era perfino giunto al godimento
perverso di trascinare l’amante con parole ambigue su l’orlo del
sospetto, come su l’orlo d’un abisso, dove il peso dell’ultima
complicità li avrebbe fatti cadere, avvinghiati per sempre.
Cercava con tal mezzo d’investigare quale sarebbe stato l’animo suo
davanti alla rivelazione. Ma ella non mostrava che un’infinita
smemoratezza e il desiderio di non rivolgersi mai verso quell’ora
lontana.
Anche durante i giorni dell’accusa, ella di ciò non gli aveva parlato,
se non quel tanto che fosse indispensabile: ne aveva parlato con fretta,
sbadatamente, senza guardarlo negli occhi, attenuando con un sorriso
femminile ogni parola inavvertita che paresse nascondere un suo pensiero
profondo.
Egli aveva talvolta immaginato che, nella sua fragilità, ella fosse
tuttavia la più forte.
Infatti avviene talora che l’anima femminile ci sembri assai lieve in
paragone della nostra e non obbediente a quell’ordine logico dal quale
si muove il nostro pensare; ma forse quell’anima è solo diversa dalla
nostra, e noi spesso non riusciamo ad intravvederne il fondo.
Egli era dunque rimasto, fra le rovine d’ogni altra certezza, davanti al
suo grande amore; i culti positivi, che aveva liberalmente professati
nella vita, erano insorti con ribellione davanti a quel primo atto di
vera libertà; rimaneva una sola cosa che non era distrutta nel mondo:
l’amore.
Ma quando le avesse detto chiaramente: — «Guárdami negli occhi: sono io
che l’uccisi!» — qual mutamento avverrebbe in loro e nella passione che
li univa? L’amerebbe ancora? Sarebbe amato ancora da lei?
Due mortali domande che gli pesavano, da quella tragica notte, sul
cuore.
Adesso, nella casa dormente, il silenzio era profondo come la fuga d’un
fiume sotterraneo. Egli si provò ripetutamente a sospingere l’uscio che
lo divideva dalla camera di Novella, ma sentì che ogni volta il coraggio
gli veniva meno.
Ed allora, come già un’altra volta, quando il pagliaccio rimase inerte
nella poltrona di cuoio, e bisognò sollevarlo, diede a sè stesso il
comando che lo irrigidiva: — Ubbidisci!
Piegandosi alla propria volontà come al potere d’una forza non sua,
comprese di non aver più scampo, e si avvicinò a quella soglia.
Filtravano per le connessure spiragli di luce; a tastoni cercò la
maniglia, sospinse l’uscio, ed entrò.
Ella era seduta sull’orlo del letto, in vestaglia, coi tacchi delle sue
pianelle aggrappati al cassone di mogano, i gomiti sulle ginocchia, i
polsi congiunti, la faccia raccolta nella cavità dei palmi — e lo
aspettava.
— Non hai udito, — ella disse, — come piangeva poco fa il bimbo?
— Ma ora s’è addormentato, — egli rispose. Poi, dopo un silenzio, le
domandò: — Gli vuoi bene?
La madre aperse le braccia, si abbandonò all’indietro, sui cuscini, e
rispose: — Ora sì, ora per la prima volta lo amo.
Egli aveva la sua ruga profonda incisa fra i sopraccigli; era smagrito
in viso, e nel guardarlo pareva ch’ella se ne dolesse. Allungò il
braccio per chiamarlo a sè, indi soggiunse:
— Tanto bene gli voglio, Andrea... ma non come a te!
Il braccio nudo si dorava nel chiarore della lampada, il polso dolce si
muoveva con una specie di naturale insidia, facendo trasalire i tendini.
— Sièditi, — ella disse, battendo la mano su la coltre; — sièditi qui
sul letto... Pàrlami, bàciami... ti amo.
Come quando il loro bimbo era nato, sul tavolino da notte v’erano tre
rose, in un bicchiere.
Andrea si chinò su lei, cercando con le mani fredde il suo tepore più
vivo e più nascosto. Così la teneva, da sentirne contro la persona tutto
il corpo discinto; così la teneva, da immergere la bocca ne’ suoi caldi
e pesanti seni; così da stordirsi nel profumo del suo respiro.
Ella scivolò sotto di lui, si volse, come per adagiarsi nel letto
supina, e le venne al sommo della gola quel gonfiore contenuto che in
lei pareva quasi uno sforzo per resistere alla voluttà. Ma era uno
sforzo debole, tantochè subitamente gli occhi le smorivan di un sonno
palpitante; un poco di gengiva umida le appariva tra i labbri fermi.
— Dormiamo... — ella disse.
Andrea non rispose; la guardava, teso, attento, come per contare i
battiti d’ogni sua vena.
— Perchè non ti spogli?
Ella diceva queste parole con una voce assonnata, che trascinava le
sillabe con ambiguità, quasichè fosse molto stanca, troppo stanca, e non
volesse dormire altrove che nelle sue braccia.
Poich’egli non rispondeva, gli mise una mano tra i capelli:
— Non vuoi dormire vicino a me? No?... Perchè non vuoi?
Gli toccava la fronte, le tempie, gli occhi, le guancie, la gola.
— Non sai com’è tardi, amore?... Perchè non hai sonno? Perchè ti
stanchi?
Le forcine, che le davan noia nella capigliatura, se le tolse ad una ad
una, posandole sul marmo del tavolino. Producevan cadendo un rumore
sottile, come di spilli sul vetro. Nel muovere la mano faceva brillare
contro il lume il suo rubino meraviglioso. Con le dita, come con un
pettine, si ravviava i capelli disciolti.
— Se tu non ti córichi vicino a me, sai che non dormo... Spógliati...
Allora gli disfece la cravatta, e col braccio nudo gli ricinse il collo,
attraendolo in modo che la bocca dell’amante s’immerse nella sua gola.
Egli cominciò a baciarla piano piano, ed ella con le dita irrequiete si
snudava il petto. Irritata, s’aggrappò alle sue spalle, si torse,
affondando il capo nel cuscino, sollevando il grembo, tendendo alla sua
bocca l’àpice dei seni erti.
— No, no... spógliati!... — ripeteva.
La sua voce era quasi gemente; con le dita irrequiete lo molestava come
se volesse batterlo; era tutta inarcata; il suo grembo si offriva; le
pianelle caddero.
Ma con ira egli divelse da quel bacio la sua bocca ansante, sollevò il
corpo su le due braccia tese: gli occhi suoi bruciavano di febbre, il
suo viso era terribilmente contraffatto, i suoi polsi tremavano.
— Vuoi, — disse repentinamente, — vuoi che facciamo una cosa?...
Ella si rovesciò indietro, abbandonata, con un semiriso d’affanno e di
piacere su la bocca; lo guardava traverso il vapore de’ suoi occhi
sperduti, senza ben comprendere quel che l’amante le diceva.
— Quale cosa? — mormorò.
— Che andiamo insieme a rivedere la camera di Giorgio?
Ella trattenne un grido, rivolse la faccia nel cuscino, gli puntò con
forza una mano contro la gola, per respingerlo da sè, quasi volesse
punirlo di quella orribile celia.
— Sei pazzo, Andrea?... Andrea!
Ma egli rideva malvagiamente, e lasciatosi cader sui gomiti raccolse il
capo di lei fra le sue mani, con tutta la capigliatura.
— Non sono pazzo, no! Guárdami!
Ella fissò gli occhi, troppo grandi, ne’ suoi: con gli occhi lo
ascoltava.
— Ti amo, Novella! ti amo più che mai!... più che mai!... — le diceva
scuotendole il capo; affondando le falangi nel tepore della sua nuca
morbida. — Eppure, chissà, fra un’ora, fra un momento... non sarai più
mia!
Balbettava queste parole, curvo sulla bocca di lei, quasi piangendo, e
le serrava il collo con i polsi, nei quali sentiva battere la veemenza
del dolore che pativa.
— Andrea, cosa dici?... non so cosa dici? Ma no! ma no!...
Egli scuoteva il capo, e scuoteva lei pure, duramente, facendole male.
— Ascóltami bene... cerca di bene comprendere questa orribile cosa...
Mentre ti amo come un pazzo, bisogna che mi provi a perderti! Mentre ti
amerò ancora, e sempre, fino alla disperazione... tu, forse, mi odierai!
Amore, amore mio, puoi comprendere? Mi ascolti?...
Le abbandonò il capo, la sollevò intera fra le braccia, la strinse
convulsamente, gli si empiron gli occhi di lagrime: poi rise. Anch’ella
piangeva, lentamente, senza saperne il perchè.
— Non importa se dopo mi odierai... Ma devi sapere una cosa che non
posso più tacerti. È venuta l’ora nella quale ci dobbiamo conoscere
interamente. Non importa se griderai... Solamente lasciami parlare!
parlare! perchè ti amo, e sono pazzo... e tu devi essere al pari di me,
pazza, pazza!...
Nel convulso, ella pure singhiozzava, stremata, soffocata, stringendosi
forte alla sua persona come in uno spasimo di voluttà.
Allora egli si tese, fece un arco di tutta la sua forza, dai calcagni
alla fronte, cercando quasi d’imprigionarla nel suo amore terribile; poi
le disse con ira:
— Solamente ricórdati questo: — se dopo mi odii, e mi abbandoni, e sei
d’un altro, e ti lasci baciare da un altro... io t’uccido! t’uccido!
t’uccido... _come ho già fatto un’altra volta!_
E ricaddero avviluppati nella profonda coltre.
Poi, nel dubbio che non avesse bene inteso, ripetè, scandendo le
sillabe:
— Come ho già fatto un’altra volta.
Ella era così stordita e soverchiata dalla sua violenza, che, invece di
rispondergli, cominciò nervosamente a ridere.
— M’hai bene inteso?... Perchè ridi?
Ma senz’attendere la risposta, egli, d’un balzo, fu in piedi, si curvò
su l’amante, le disse:
— Guarda: con queste mani ho ucciso!
Gli occhi di lei, stupefatti, si avvinsero alle sue mani, divenendo a
poco a poco enormi, vuoti, fermi.
— Chi?... — fecero le sue labbra, dopo un lungo silenzio.
— Giorgio!
Ella, ch’erasi un po’ sollevata, si rovesciò indietro, nel solco dei
guanciali, come se le avessero rotto il cuore. Le sue mani sperdute
brancolarono, quasi per respingere un’ombra; poi, atterrita, si strinse
i pugni contro la fronte.
— Allora... — mormorò senza fiato, — allora è proprio vero...
— Sì, è vero, — egli rispose, ben forte.
Ecco: aveva l’impressione d’essersi sparato nel cervello e d’aspettare
che la morte cominciasse nelle profonde sue vene. Invece una calma
subitanea, una lievità sorprendente gli pervase a poco a poco lo
spirito. La vita cominciava un’altra volta, dopo un’attimo
d’interruzione.
Allora tolse una rosa dal bicchiere, la odorò forte, ne morse il gambo
coi denti. Poi fece una riflessione veramente futile, e cioè che quello
stelo aveva un sapor brusco, dissimile dal profumo della rosa, e che
inacidiva la sua bocca leggermente, come il sapore d’un frutto acerbo.
Poi, guardando l’amante, s’accorse che sotto le sue braccia sollevate un
seno magnifico ed inverecondo le sbocciava dalla camicia di batista. Lo
guardò senza lussuria, come si guarda curiosamente la nudità di un
bimbo.
Insieme volle conoscere cosa ella sentisse per lui dopo quelle parole
irrevocabili, e paurosamente si provò a toccarla. Poichè rimase ferma,
una oscura tentazione lo spinse al desiderio di darle ancora un bacio.
Su la sua fronte, sopra i suoi pugni serrati, pose le labbra cautamente.
— Guárdami!
Ella infatti lasciò cadere le braccia, e, pallida come non era mai
stata, con tutta l’anima lo guardò. Allora fu egli stesso ad aver quasi
paura di quegli occhi; lento, muto, curvo, si ritrasse.
La rosa caduta si schiacciò sotto il suo piede.
— Andrea...
Ma, nel parlare, la mascella le tremava d’un irresistibile tremito; una
sensazione di freddo le traversò tutto il corpo; macchinalmente si
ricoverse.
— Andrea, sì, mi ricordo... Una volta mi hai detto: «Così e più
forte...» «Così e più forte...» Queste due parole: — «più forte» — mi
sono rimaste nella memoria come una promessa funesta e grande. Anche tu
forse te ne ricordi... Ma, guarda come tremo... Dammi, dammi uno
scialle!...
Egli cercò per intorno senza veder nulla; poi prese il piumino di seta
sul quale poltrivano i suoi piedi scalzi e le fasciò il corpo. Nello
stenderle sotto il mento la seta lucida e soffice, premeva un po’ le
dita per toccare la sua gola, e per farle sentire che la toccava, quasi
provasse una singolare gioia nell’accorgersi che gli era tuttavia lecito
carezzarla come un amante.
Ella chiuse gli occhi senza guardarlo, rannicchiò sotto la vestaglia i
piedi scalzi, e rimase in quella supinità, ferma, addormentata.
Andrea, ritto in piedi, assiderato in una specie di attesa immobile,
ascoltava dentro di sè, fuori di sè, il volo del tempo. Gli parve di
nuovo che la vita cominciasse in quell’ora, ma fosse di una lentezza
esasperante, cupa, monotona, quasi ferma. Sul tavolino da notte, fra la
lampada e il bicchiere, un piccolo orologio d’oro batteva i minuti
secondi; nell’indugio del suo tempo interiore quella velocità lo
irritava.
Si accorse d’un disegno di luce che la lampada formava su la
tappezzeria; si accorse d’un moscerino che ballonzolava intorno al
paralume, come se pendesse dal soffitto appeso ad un lungo ragnatelo.
Incominciò a ricordarsi di cose lontane, saltuarie, minime: d’una certa
satira piena di garbo e di malizia che uno studente aveva messo in voga
nella sua Clinica, per farsi beffe della signora Maggià; poi rivide
l’aspetto medesimo della Direttrice, e quel suo camminare impettito per
le corsìe dell’ospedale, con un’aria da sergente nel corpo di guardia;
poi si rammentò di certe canzonette che soleva cantare su la chitarra
Egidio Rosales, talvolta, nelle sere d’estate, quando i medici di turno
se ne uscivano a fumare una sigaretta sotto gli alberi del giardino...
poi d’un seppellimento a bordo, al quale aveva casualmente assistito,
molti anni addietro, nel corso d’una lunga navigazione.
A quel tempo egli era un oscuro e povero medico, laureatosi appena;
traversava sui transatlantici per vedere un po’ di mondo. Il morto, egli
se ne ricordava, era un cileno erculeo, proprietario di fattorie, forse
quarantenne, che aveva per moglie una piccola donna, gracile, miope,
senza età, senza ornamento alcuno, tale da non potersi comprendere per
qual modo gli fosse piaciuta. In alto mare lo avevano preso le febbri e
la dissenterìa; si ricordava ch’era morto bestemmiando, in un accesso di
furore che gli fermò l’aorta. Di notte lo portarono sulla tolda ravvolto
in un lenzuolo, e quattro marinai, prima di lanciarlo in acqua, lo
avevano fatto dondolare cinque o sei volte a forza di braccia, sovra il
parapetto lucido...
Era precisamente quel dondolìo bianco e lento che ora i suoi occhi
rivedevano.
— Andrea...
Egli udì, ma non rispose. Volontariamente si lasciava sperdere in una
ridda continua d’allucinazioni, che a poco a poco assumevano l’evidenza
della realtà.
Ora gli pareva d’esser lontano, frammezzo ad una notte stellata, per
mare, con il vento a prua. D’improvviso irrompeva nell’ombra un’aurora
violenta; il confine azzurro del cielo si popolava di città fantastiche;
sui moli percossi dal sole infuriava una folla gesticolante...
Od era invece una notte profonda, in una città senza lumi, con strade
ambigue, con porte sbarrate. Egli l’attraversava correndo, per giungere
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