La vita comincia domani: romanzo - 07

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giorno... le margherite... ahi! ahi! sorelluccia... le margherite!...
Allora Andrea lo afferrò per le spalle, in guisa da fissarlo ben negli
occhi e disse:
— Ascolta, Marcuccio. Tu, quel giorno, hai veduto un sogno; ed i sogni
non si devon mai ripetere ad alcuno, perchè il parlarne porta disgrazia,
m’intendi? E guai, guai a chi li racconta, i sogni!...
Parlava imitando il suo linguaggio, per essere meglio inteso; lo scemo
apriva la bocca attonitamente:
— Ah, sì?...
— Certo. E se tu narrerai queste cose bugiarde, io dirò a tutti che
bisogna bruciare i tuoi libri, perchè sono falsi. Così non avrai alcuna
gloria. Capisci, Marcuccio?... la gloria!...
Egli tremava, tremava, e balbettò:
— Sì, la gloria... Ma se non dico nulla?
— Di che?
— Dei sogni...
— Allora, Marcuccio, tu avrai... — Ma in quel mentre, udendo rumore,
Andrea si volse: — Chi è?
La voce di Stefano rispose:
— Sono io: Stefano. Si può?
— Entrate, entrate.
— È la Canzone di Marcuccio che mi ha fatto scendere. — Poi disse con un
sorriso indulgente: — Oh, conversate sempre di cose profonde, voialtri
pensatori!
— E tu sempre ci disturbi, padre Stefano! — affermò con sussiego lo
scemo.
— Ti credevo già coricato, Marcuccio, quando invece udii la tua canzone.
— Coricato? ah! ah!... È una notte d’Aprile; vorrei camminare,
camminare, in mezzo alla foresta e lungo il fiume, con il mio violino su
la spalla, improvvisando canzoni. Ma ho paura dei cani!... E tutte le
donne che non dormono, in queste notti di primavera, scenderebbero dal
letto con i capelli sciolti, per camminare a piedi scalzi dietro di
me... ma ho paura dei gufi. Vorrei camminare, camminare, per la foresta
e lungo il fiume, suonando sul mio violino la canzone più bella che so,
e trascinandomi dietro le donne seminude... Ma ho paura dei vampiri.
Uh!... i vampiri dalle ali di feltro, che succhiano sangue, sangue... La
sai, padre, la Canzone dei Vampiri? No?... Ascolta...
E ritraendosi lentamente, con un passo d’automa, urtò l’uscio con la
schiena e scomparve nel buio del corridoio, ricominciando a suonare sul
violino singhiozzante la sua Canzone Disperata, che a poco a poco, per
l’alte camere, in una lugubre risata si spense.
. . . . . . .
«Se corri, — mi dice, — «si arriva stasera o domani mattina...
«Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina!...»
. . . . . . .
— Povero me! — proruppe Stefano con un gesto di sconforto. — La sventura
s’è abbattuta su la mia casa.
— Non disperate, Stefano. Voi credete in Dio, non è vero?
— Sì, fervidamente.
— Pregatelo, voi che potete pregare! Io credo in me stesso più
fermamente che in Dio, e nella volontà umana più che nel miracolo.
Quindi penso che per resistere alla sventura abbiamo un solo rimedio: il
nostro proprio coraggio.
Ma Stefano scosse il capo, e cominciò a guardarlo come se volesse dirgli
qualcosa. Certo, per essere venuto a quell’ora nella camera di Andrea,
uno scopo lo guidava e quei perplessi discorsi parevano la ricerca d’un
esordio.
— A proposito di Giorgio, — disse infine, — cosa pensate voi? Che stia
proprio molto male?
Andrea, forse per nascondere il suo disagio, metteva in ordine una
quantità di cose, andando dagli scaffali alla scrivania, frugando nei
cassetti, rimovendo libri.
— L’eterna domanda! — esclamò nervosamente. — Se sapeste che poca cosa è
la scienza d’un medico davanti ad un problema così complesso come la
vita d’un uomo!
— Ma io vedo che muore! — interruppe Stefano soffocando la voce.
— È un’opinione, la vostra; null’altro che un’opinione, — rispose
freddamente Andrea, stringendosi nelle spalle.
— No, non ingannatemi, Andrea! Benchè vecchio, sono ancora un uomo e
voglio sapere la verità. Ditemi, ditemi la verità... Il suo caso è
disperato?
— Non ancora, ma è grave.
— Sapete? Giorni sono mi ha detto quasi allegramente: Bisognerà che un
momento o l’altro diamo un’occhiata ai nostri affari, papà Stefano,
perchè è sempre meglio essere previdenti.
— Questo non mi riguarda! — esclamò Andrea con asprezza. — Se è di
questo che dovete parlarmi, io non voglio saper nulla!
— Oh, Andrea!... non crederete, per l’amor del cielo, ch’io voglia fare
un calcolo qualsiasi... no, vi giuro! Ma ho due figlie, un figlio ed una
moglie vecchia; ora voi sapete bene che la casa, le campagne, tutto
quanto, appartiene a Giorgio.
— Questo non mi riguarda, ripeto. Giorgio è un uomo onesto, penserà da
sè stesso alla moglie.
— Ma Giorgio ha pure un fratellastro, un uomo dissoluto e rapace, che
gli ha dato già troppe noie cercando in mille guise di estorcergli
denaro.
— Insomma, Stefano, — egli lo interruppe, — se bene comprendo, voi
desiderate che in un modo qualsiasi m’interponga presso Giorgio per
fargli fare testamento, o per sapere se lo ha fatto e come lo ha
fatto... Non è vero?
Fece una pausa, guardando Stefano, che abbassò il capo senza rispondere.
— Ebbene, sentite: ho molto affetto, molta venerazione per voi, padre
Stefano; capisco anche la ragione, del tutto giustificabile, che
v’induce ad un tal passo. Ma di questo non parlatemi, vi prego. Fate
quel che volete, ma io non ci voglio entrare. Anzi vi dirò una cosa,
recisamente: vicino a Giorgio, nè preti nè notai, a meno che non li
chieda egli stesso. E non parliamone più.
— Perchè tanto calore? Non vi ho mai veduto eccitarvi così.
— Bisogna lasciare un’anima libera, padre Stefano, sopra tutto vicino
alla morte. Io non mi occuperò di queste cose, e credo che Novella sia
dello stesso parere.
— Lo è, infatti... Ma questo, in un certo senso, è anche sorprendente!
— Niente affatto, padre Stefano. L’ora della morte è quella della
riconoscenza o del rancore: bisogna che l’uomo si risolva da sè all’una
od all’altra cosa. E Giorgio ha la mente lucidissima. Infine, ancora una
volta, questo non mi riguarda! Solo una cosa vi dirò: Fin quando io
viva, nè voi nè i vostri figli avrete mai nulla da temere.
— Oh, siete migliore di me, Andrea! — esclamò con effusione il vecchio,
— ed ora mi vergogno...
— Di nulla! Voi pensate ai vostri figli; è più che umano. E lasciamo
questi discorsi. Risponderò invece alla vostra domanda con sincerità: —
Il caso di Giorgio è grave; molto grave. La mia opera può darsi che non
basti; è forse opportuno chiamare altri medici. L’ho detto a lui stesso,
ma egli rifiuta.
— E chi può salvarlo, se voi non potete? — esclamò Stefano alzando le
braccia. — Poi, che serve? Io vedo bene che muore, povero Giorgio... e
noi vecchi sappiamo riconoscere di lontano la morte. Bah!... buona
notte, Andrea! Se stesse male, chiamatemi; buona notte.
Andrea rimase lungo tempo fermo dietro l’uscio, ascoltando quel passo
tardo che saliva pesantemente i gradini; poi tornò a sedere presso la
tavola ingombra, si raccolse nei palmi la fronte, che gli doleva, e
mentre nell’immobile silenzio gli battevano forte le vene dei polsi,
lasciò che il suo cuore, come un nembo di polvere, si allontanasse nella
vertiginosa bufera.
Il riflettore elettrico, vôlto sul microscopio, traeva dal polito
metallo un barbaglio fermo, continuo, che si propagava su le piccole
siringhe di cristallo, su gli aghi affinatissimi, sui molti arnesi
lucenti che ingombravano la scrivania.
A poco a poco una stanchezza fisica maggiore del suo tormento lo
sopraffece; i gomiti gli scivolaron dall’orlo della tavola, piano piano;
la fronte si affondò nella piega dell’avambraccio; cadde in sopore. Da
lunghe notti rimaneva con gli occhi sbarrati, nel buio, insonne fino
all’alba, con il cervello assediato dall’assiduo pensiero; ma vi son
momenti nei quali il corpo affranto, che ha fame, che ha sonno, che ha
bisogno d’oblìo, soverchia lo spirito e lo salva da tutte le sue
calamità.
— Odimi, Andrea...
Era entrata Novella, senza far rumore, e si chinava su lui.
Egli sobbalzò atterrito, si eresse in piedi, con gli occhi pieni di
spavento, e fissandola ripeteva:
— Che c’è? Che è stato?!
— Nulla... parla piano... Perchè ti guardi attorno? Che fai? Sognavi?
Sì, eri stanco, ed io t’ho svegliato, povero amore...
Allora egli prese la sua mano, la strinse, la baciò quasi con
riconoscenza. Era felice che fosse stata lei a destarlo, non altri, e
che non venisse per portargli qualche notizia temuta.
— Ah, sei tu, sei tu... — la guardò, le sorrise; — ma ora, non
rimanere... sii buona. Forse potrebbe udirci. È imprudente, molto
imprudente quello che fai!
— Mi scacci sempre...
— Non ti scaccio, non dire questo. Ma, vedi, è pericoloso... Lavoravo e
mi sono assopito. Poi ho l’intuizione che stanotte Giorgio, non dorma e
sorvegli...
— Sì, ora me ne vado; ma prima... Come sei pallido, mio amore...
— Sono stanco.
— Prima dimmi perchè da qualche giorno mi lasci tanto sola, non mi
parli, non mi guardi, e si direbbe quasi che tu faccia il possibile per
allontanarmi da te.
Egli ricadde su la seggiola, si compresse contro le tempie i due pugni
che tremavano:
— Taci, taci.
— Cosa t’ho fatto, io? Non vedi come sono disperata?... non mi ami più?
Allora egli esclamò con un selvaggio impeto di passione:
— Da qualche giorno ti amo più che mai! più che mai! non lo senti?... Ma
sei tutta vestita d’ombra e non ti posso toccare.
Ella rispose, appassionata:
— Chiudi gli occhi un momento, per non vedermi, e báciami, báciami!...
Curvata su lui, la sua gonna gli avvolgeva le ginocchia, i suoi capelli
gli toccavano la fronte. In quel bacio ella mormorò:
— Che faremo?...
Egli le rispose, all’orecchio, con un bisbiglio ch’era solamente un
álito: — Aspettare.
Ella voleva interrogarlo, ma l’amante si ribellò:
— Silenzio!... E lasciami solo. Se io non ti chiamo, non tornare.
Ella ubbidì; si ritrasse. Ma nell’orecchio le suonava quella parola
grande, minima: — Aspettare.
— Vai nella sua camera? — egli chiese ancora.
— No; ho paura. Da me sola, ho paura. Non è stato mai così dolce... mi
prende le mani, le bacia... e le mie mani divengono fredde.
Così dicendo le nascose dentro le pieghe della gonna, quasi avesse
ancora su la pelle quella sensazione di ribrezzo che tutta la raggelava.
— Ogni tanto mi carezza i capelli come un bambino... non è stato mai
così dolce.
Egli, senza batter ciglio, l’ascoltava, la guardava.
— Sai? Un’ora fa si è assopito, tenendomi una mano fra le sue. Non c’era
lume nella stanza, però dalla finestra veniva luce abbastanza perch’io
vedessi la sua faccia. Che orrore!... Mi stringeva la mano con una forza
convulsa, il suo viso era fermo in una contrazione di dolore. Sognava, e
ogni tanto, dagli angoli della bocca, gli usciva un fiotto di saliva...
Che orrore! Poi ha rovesciato un occhio indietro, uno solo, senz’iride,
ed è rimasto così... Pensai che fosse morto, volli sciogliermi da quella
stretta e non ebbi forza, volli gridare e non potei... perchè
quell’occhio senz’iride mi fissava e la sua bocca morta sembrava ridere
del mio terrore...
— Basta, basta!
Poi entrambi sussultarono, avvertendo rumore da una camera vicina, che
poteva essere quella del malato. Novella cautamente si sporse fuori
dall’uscio in ascolto, e sparve nel corridoio scivolando lungo il muro.
Egli rimase nel mezzo della camera, diritto, pronto, perchè udiva un
passo avvicinarsi, un passo che gli era noto.
— È lui... — pensava. Ma non gli rimase tempo ad alcuna riflessione,
perchè Giorgio aperse l’uscio e si fermò su la soglia, cadaverico,
vacillante. Rimasero a guardarsi un attimo, poi Andrea disse:
— Ti senti male?
Giorgio scosse il capo.
Era interamente vestito, portava una giubba di lana rossiccia, intorno
al collo uno scialle avvoltolato. Si avanzò nella camera con un passo
malfermo, poi tese l’índice verso l’uscio e disse:
— Chiudi a chiave la porta, ti prego.
Attonito, Andrea non si mosse.
— Chiudi la porta; voglio rimanere solo con te.
Macchinalmente, quasi piegandosi ad una forza incontrastabile, Andrea
ubbidì.
Quando s’intese il rumore della chiave nella toppa, e furon soli, di
fronte, viso a viso, e fu passato qualche attimo d’un silenzio mortale,
Giorgio disse con voce spenta:
— Novella era qui.
— No.
— Era qui.
— Ossia, — corresse Andrea confusamente, — passava per il corridoio...
si è fermata un momento a parlarmi. — E soggiunse dopo una pausa: — A
parlarmi di te.
Poi avanzò verso Giorgio una vasta poltrona di cuoio, spingendola per la
spalliera; l’infermo vi si lasciò cadere, premendosi le due braccia sul
petto quasi per comprimere un dolore inesprimibile.
Ma d’improvviso, dopochè i suoi occhi febbricitanti si furon incontrati
con gli occhi aspri e fermi del suo fratello antico e per qualche tempo
l’ebbero vigilato in silenzio:
— Andrea!... — esclamò con accento d’indulgenza e di sconforto estremi,
— Andrea non mentire più! È inutile, poichè muoio... non mentire più!
L’altro si curvò, si radunò in sè stesso, come un aggredito che sta per
raccogliere tutte le sue forze in una disperata difesa, poi, dibattuto
fra la verità inconfessabile e la menzogna insostenibile, si ritrasse
meccanicamente nell’alta ombra che l’armadio propagava dal muro, e muto
vi stette, guardando fissamente terra, in attesa della parola che li
avrebbe separati per sempre.
— Hai paura di me, o mi odii? — Giorgio gli domandò, ergendosi a fatica
sui bracciuoli della poltrona.
E poichè l’altro taceva, lo incalzò: — Non puoi rispondermi? Non vuoi
che ci si guardi a viso aperto? I tuoi occhi, una volta, sapevano
fissare!
V’era nella sua voce un sarcasmo, anzi una sfida manifesta, contro la
quale, di colpo, l’avversario si raddrizzò. L’uomo che non s’era mai
piegato, che non aveva mai temuto, comprese di doversi avventare
contr’essa, come soleva, nel mezzo di tutti i pericoli, con spavalderia.
— Fra noi, — rispose, — mi pareva migliore il silenzio.
La sua voce non aveva alcun tremito: fu dura, fredda, lucida come una
lama ben affilata. Con più dolcezza, quasi con affetto, l’altro ripetè
la domanda:
— Hai paura o mi odii?
— Nè una cosa nè l’altra, Giorgio.
— E allora?
— Sento la distanza insormontabile che ci divide, sento che siamo
ridotti ad essere due semplici automi l’uno di fronte all’altro, e che
parole, fra noi, non ci devon più essere.
— No, Andrea. Per te, che prosegui nella vita, questo divenir automa è
un giuoco di qualche ora; per me, che la finisco, è un gioco assurdo. Ho
radunate le mie poche forze per venirti a parlare: non impedirlo, se ti
ricordi che abbiamo avuto sempre coraggio.
Una luce tetra splendette nella faccia dell’avversario.
— Ebbene, — disse, avanzandosi dall’ombra, — se così vuoi, sia!
— Non come due nemici, Andrea, — lo pregò l’infermo con un sorriso
triste. — Sì, è vero, il passato è in frantumi e le memorie son
ragnatele che val meglio spazzar via... Ma c’è qualcosa nel mondo che
può essere dolce ad un uomo, e questo è la certezza di aver amato un
altr’uomo con tanta purezza d’affetto, che per quanto egli ti faccia
male, per quanto il destino te lo avventi contro come un inconciliabile
nemico, tu non lo possa veramente nè interamente odiare mai. Questa è la
prima cosa che volevo dirti.
Andrea non battè ciglio, non si mosse, non rispose parola.
— Ti ricordi?.... — ricominciò il malato, con una voce quasi lontana. —
Abbiamo tutto diviso fraternamente nella vita, come dividevamo insieme —
ti ricordi? — nella nostra camera di studenti, su quel tavolino zoppo,
le nostre povere cene. Poi, quando bruciò la miniera di Connigan Gate
seppellendo trecento uomini, e la Compagnia mi cacciò come responsabile
del disastro, per un anno vissi nella tua casa, e devo a te solo, — sì,
lasciami dire: a te solo — se ho potuto per una seconda volta
ricominciare la strada.
— Visto che facciamo i conti, io ti devo altrettanto e più! — Andrea lo
interruppe con voce irritata.
— Ora ti rivedo! — esclamò Giorgio, scuotendo con un sorriso il capo. —
Riassomigli, contro di me, a quello ch’eri nel Comizio Romano, davanti a
coloro che ti accusavano di averli traditi, di aver venduta la causa
loro a chi ti prometteva il potere... E tu eri là, pallido ma
sorridente, con le braccia incrociate, contro il tumulto, contro gli
urli, contro gli insulti, finchè ne hai preso uno per la gola, uno che
inveiva più da presso. Questo atto di coraggio fece il silenzio intorno
a te. Allora ti lasciarono parlare. Mi ricordo. Pareva che tu foggiassi
le parole in un sonoro metallo e le piegassi con la forza de’ tuoi pugni
prima di scagliarle in pieno petto contro gli avversari, contro il
semicerchio muto che lentamente oscillava; e c’era in te qualcosa di
magnetico, d’elettrizzante che dominò la folla, che li vinse, ad uno ad
uno, e poi tutti, finchè ti vidi preso nel mezzo, come in un’immensa
mareggiata d’uomini, d’uomini clamorosi e deliranti che ti portarono in
trionfo... Dimmi, Andrea, non sei più quello di allora?
Un cerchio di rossore accese la fronte dell’avversario; ne’ suoi occhi
una vampa splendette.
— Il medesimo sono, e più forte! — disse con ira; — poichè le più
disperate battaglie sono certo quelle che dobbiamo soffocare in noi.
Camminava per la camera nervosamente, come un uomo da tutte le parti
accerchiato, il quale voglia fendere nella calca a fronte bassa per
aprirsi un varco. Poi disse con impeto:
— Senti: non mi giustificherò. Il nostro patto è rotto. Se vieni per
interrogarmi, rifiuto, — se vieni per accusarmi, rifiuto, — se anche
vieni per perdonarmi, rifiuto. È inutile tradurre in parole oziose
quello che l’anima di due uomini risoluti non può nè tollerare nè
mutare.
Giorgio volle interromperlo, ma egli con un gesto lo trattenne:
— Lasciami dire: nè tollerare nè mutare. Mi hai rammentata un’ora
temeraria della mia vita, quando, per ambizione o per ingenuità, credevo
si potesse far del bene alla folla trascinandosela dietro con la magìa
della parola, come un branco imbrigliato, ed avevo in me difatti questo
genio demagogico, questa potenza istrionica della quale ora mi rido. Più
tardi compresi che il bene si fa nell’ombra, da soli, piegando la fronte
sui libri, o con le braccia nude fino al gomito, medicando l’anima
dell’uomo e la sua carne piena di contaminazioni. Ho lasciato gli altri
urlare; ho camminato più in alto, per la mia strada. Ora, ti ho detto,
sono il medesimo e più forte. Ora sono riuscito a comprendere che nel
nostro vincolo, nel nostro patto d’amicizia umana mancava tuttavia una
possibilità: quella di sentir nascere in noi l’odio, l’odio fraterno, il
più terribile che vi sia.
Mi hai posta una domanda poco fa: se ho paura di te e se ti odio. Io fui
debole un momento e risposi: Nè una cosa nè l’altra. Ma ho mentito. E
poichè mi rammenti le ore di coraggio ch’ebbi nella mia vita, con quel
medesimo coraggio ti rispondo: — Sì, ti odio!
Ne’ suoi occhi metallici brillava una sinistra luce; la sua bocca rise,
paga d’aver esclamata la verità.
— Ora ti preferisco, ora che non menti più! — Giorgio rispose, con un
orgoglio pacato. — Vorrei essere ad un altro tempo della mia vita per
accettare le tue parole come una bella sfida.
Andrea scosse il capo:
— Forse non mi hai compreso.
— Sì, ti ho compreso. Volevi dire che tra uomo ed uomo tutto è caduco e
distruttibile, tutto può mutare improvvisamente, per un caso fortuito,
perchè appunto noi siamo esseri caduchi e mutevoli, schiavi anzi tutto
del senso che ci dómina con vera tirannia.
Ma l’altro non cessava dallo scuotere il capo duramente, finchè
l’interruppe:
— Volevo dire che il mio odio per te, Giorgio, è una specie di rimorso
taciturno, è una specie di lealtà ultima, che nascondo a me stesso, e
nella quale mi rifugio, dopo aver lottato inutilmente, con ogni mia
forza, contro il destino che ci separava. È un odio, sì; ma tale che se
potessi, dando la mia vita, redimermi dinanzi a te, o farti un bene
qualsiasi, anche minimo... senza esitare, senza riflettere, la darei!
— Allora perchè nasconderti fra queste parole? Smàscherati! Dà un nome a
tutto questo: il suo vero nome!
— No, no! — rispose Andrea con forza; — parliamo di noi, solo di noi.
Come ho rispettata sempre la tua fede, che non potevo dividere, tu
rispetta la mia volontà, perch’essa è la sola coscienza degli uomini
senza fede. E pensa che il confessarmi a te mi sarebbe forse dolce, come
per voi è dolce confessare le vostre colpe ad uno che vi assolverà. Io
non voglio il tuo perdono. Ma invece ti dirò apertamente: Sì, l’ho
amata!... Era nel mio destino d’uomo... l’ho amata.
Queste parole parvero gravi, come l’affermazione d’un reo che dicesse al
suo giudice: — «Sì, ho ucciso.» E Giorgio, sopraffatto, come se al di là
da quelle parole non vi fosse che l’immenso nulla, chinò la fronte in
silenzio. Una lunga pausa durò fra loro, nella quale permaneva un’eco
diuturna, ch’entrambi udivano risuonare nella loro vastità interiore.
Poi Andrea riprese:
— Vedi, e ho lottato! Con tutta la forza che ben mi conosci, ho lottato
per estirpare da me questa ubbriachezza. Ma non mi fu possibile. Tutto
si riesce a stritolare nella tanaglia della nostra volontà, non questo
amore che imbeve la carne, lo spirito, e ci vieta persino quell’atto
estremo di ribellione che tronca tutto: la morte.
— Lo so, — rispose Giorgio profondamente. Poi, levatosi con fatica dalla
poltrona, s’avanzò verso di lui, fin quasi a toccarlo:
— Lo so. Dal primo giorno che l’hai guardata con amore lo seppi. Era...
vuoi che te lo rammenti?
— A che serve, Giorgio? È lontano...
— Infatti. E già sarebbe stata una grande sciagura che l’amassi tu solo,
— proseguì Giorgio, scandendo lentamente le sillabe. — Ma lei pure ti
amava... e questo era l’irreparabile! Ti amava in silenzio ancor prima
che tu lo sapessi.
Andrea scosse il capo in segno d’incredulità.
— Prima, assai prima... perchè forse non è mai stata veramente mia. Ma
per me bastava che non fosse d’altri; e guai se avessi creduto, in un
modo qualsiasi, di poterla ricuperare! Perchè allora, vedi, il mio odio
sarebbe andato oltre il tuo, e per quell’istinto che ogni essere ha, di
voler difendere il proprio bene anche fino al delitto, io, credente, mi
sarei dannato, ma avrei messo il mio amore, poich’era grande, più in là
che Dio. Senonchè ti amava troppo... ed era inutile tentare.
— Tu avresti fatto questo?... anche questo? — mormorò Andrea.
— Sì! e puoi non dubitarne se ripensi alla mia vita. Eppure io credo in
Dio; anzi questa fede, che tu in fondo schernivi col tuo silenzio, mi ha
salvato dalla recita e dalla colpa inutile. Perchè, sai, vi può essere
altrettanta bellezza in un delitto grande come in un grande perdono. Io
vi ho perdonati; non con la bocca, non con le parole che tu alteramente
mi rifiutavi or ora, ma col mio spirito, con la mia fede, con tutta
quella estrema vita che si àgita in me. Bada: non cristianamente, ma
umanamente vi ho perdonato: non per misericordia, ma per riflessione,
non per comprarmi il paradiso dei preti ma per la vostra felicità.
— Per la nostra felicità?... — disse Andrea, con maraviglia, con
sospetto.
— Sì; e non mi credere un santo per questo: non lo sono. Uomo, avrei
voluto vivere, e per vivere mi sarebbe stato necessario difendermi da
te. Ma che sono ormai? Una macchina disfatta... neppure: un pugno di
materia logora che fra poco si dissolverà. Davanti a me finisce quella
striscia di sole che si chiama la vita, e se i deboli, se gli avari, se
i timidi, appunto verso la fine s’abbrancano con maggior disperazione ai
beni che lasciano quaggiù, io, poichè sono stato un forte come te, un
orgoglioso come te, ne faccio abbandono senza odiare quelli che possono
vivere ancora, ed umanamente, con pace, dico loro: Il diritto è
vostro... continuate.
Dopo aver velocemente riflettuto, Andrea esclamò:
— Le tue parole sono troppo grandi per un uomo: io non le credo.
— Le parole sono grandi forse, non la verità che nascondono, — gli
rispose con lentezza il suo fratello d’una volta. — Le più serene
filosofie, le rinunzie più sante, celano spesso nel fondo un acerbo
rancore contro la vita. Così di me. Allora sarò più piccino, mi
denuderò, guarda: È un corpo questo che mi rimane? Ho forse una speranza
di risanarmi, di ricominciare? No! Il mio martirio non può essere che
più lungo o più breve, ma non altro che un martirio; e la scienza non
inganna quel presentimento della morte che penetra tutte le vene,
quand’essa già si trascina carponi nella nostra ombra. Si levi e mi
prenda! Che serve il vivere in una poltrona, coperto di scialli, nutrito
di medicine, soffrendo torture fisiche e morali, facendo ribrezzo agli
altri ed a me? Poi, compréndimi bene, io amo una donna come tu l’ami,
sapendo invece che la spavento. E la desidero qualche volta, io sfinito,
come la desideri tu, vivo e forte. Ma tu la puoi baciare... io no! tu
puoi darle ancora un brivido... io no! — e tutto questo, lo riconosci
ora? è meno grande che non sembrassero le mie parole.
Parlava concitato, scuotendo i pugni, rosso nel viso d’una tragica
vampa; indi spense la voce, che divenne piena di sarcasmo contro sè
stesso:
— Allora, vedi, per una vanità d’uomo, preferisco nascondermi prima di
esasperare la sua pazienza e di farle odiare, nel suo disamore, anche la
memoria di me. Insomma, se tu hai ne’ suoi occhi la bellezza della tua
forza, voglio vestirmi d’una qualche bellezza pur io, voglio valermi
dell’ultimo potere che mi resta: la bontà, voglio che tu non vinca
interamente, intendi? perchè ti odio... sì, ti odio, e più forte,
anch’io!... Vedi come tutto questo è meno bello, meno grande che non
paresse a te.
Ma, con un atto brusco, Andrea respinse quelle sue parole:
— No: tutto questo non è vero! Tu vuoi «sapere», solamente «sapere»! Ti
fai debole per fasciare la mia forza. Ebbene, poichè lo vuoi,
affrontiamo ancora una volta, con vero coraggio, questo pericolo
estremo. Siamo sovra un ponte stretto, per dove non si passa in due.
Trasfigurato nel viso, Giorgio lo interruppe:
— Con vero coraggio, hai detto? Sì, Andrea! sì, Andrea!...
La commozione gli metteva un tremore all’ápice delle dita. — Sì, Andrea,
— ripetè. — Ascoltami bene: per tutte le cose umane c’è la parabola, e
in capo della parabola nient’altro che un circolo d’ombra. Tutto bisogna
che finisca in putrefazione. Anche la nostra amicizia, ch’è stata un bel
legame di due anime libere, non potè fare altrimenti. Ed io non te ne
incolpo, Andrea: era necessario, doveva essere così. Ma c’è qualcosa che
sopravvive a tutto questo, ed è la memoria di quello che siamo stati, tu
ed io, là indietro, nella giovinezza. C’è, nella macchina logora,
qualcosa, forse un peso inutile, che sopravvive: il cuore... Ed io, se
mi sono trascinato fin qui, non è per tenderti una insidia, non è per
sapere, perchè ormai più nulla mi è nascosto... ma perchè mi rincresceva
morire senza che fosse ancora suggellata con un patto finale la nostra
concordia d’uomini, ed è per dirti quel che ora ti dico: Strìngimi la
mano, Andrea, lasciamoci da veri amici.
— No! mai! — esclamò l’avversario. — Guarda: io mi metto a ginocchi
davanti a te, se lo chiedi, ma non mi tendere la mano... mai più! mai
più!
— A tal punto mi odii?
— Me odio! me stesso: non te.
— Tu ingrandisci un piccolo dramma!... una donna, dopo tutto, è una
donna... ci ha divisi, ci riunisce: dammi la mano.
L’avversario, l’antico suo fratello, in silenzio lo fissò, a lungo; poi
fece una domanda:
— E se non potessi?... se non potessi più?... Comprendi la forza che
racchiude questa parola: «potere»?
— Le parole son parole... e poi sono anche fantasmi: scàcciali!
Era sorridente, mite; una specie di augusta sovranità gli vestiva le
sembianze; v’era, nel suo sorriso, ne’ suoi occhi, un non so che
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