La vita comincia domani: romanzo - 06

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i capelli, e sopra tutto la sua voce un po’ velata, e sopra tutto la sua
femminilità così piena di seduzione involontaria.
Turbato, per interrompere quell’incanto, si levò e disse:
— Ma, e Giorgio? Non potrei andarlo a vedere?
Ella con gli occhi lo seguiva, e rispose lentamente:
— Sì, se volete...
Oh, se ne ricordava come fosse trascorso un solo giorno! E da allora,
proprio da quell’attimo, un gran dramma aveva pervasa la sua vita, gli
era entrato come una paurosa novità, non nell’anima soltanto, ma nel
cervello e nei sensi, fino a sconvolgere tutto quello ch’era stata fino
allora la sua concezione delle cose, fino ad afferrarlo in una specie di
possessione, contro la quale non c’era in lui nè fuori di lui rimedio
alcuno. Egli sapeva talvolta escludere una passione, ma limitarla mai.
La sua natura non gli consentiva di rimanere a mezzo di alcuna strada: o
non percorrerla, o andar oltre, contro tutto, inesorabilmente, come su
l’ala di un destino.
Fra questi pensieri egli non si rammentava più d’essere in quella
camera, presso il guanciale d’un sofferente, sotto la salvaguardia del
tetto che l’ospitava, nell’intimo d’una famiglia costituita. Ma invece
gli pareva d’essere davanti ad un giudice invisibile, contro il quale
gli fosse mestieri giustificare la sua colpa.
D’improvviso lo interruppe nelle sue divagazioni un rumore di gente
sopravvenuta; si volse.
Papà Stefano e mamma Francesca facevano entrare il medico Paolieri,
ch’era venuto su di corsa e trafelato ansava.
Andrea lo squadrò velocemente, con uno sguardo nemico; l’altro, al solo
vederlo, si fece ritroso ed umile, quasi avesse una fredda vergogna di
compiere il proprio officio davanti a quel grande salvatore d’uomini.
Pareva, più che medico, un buon diavolo di sensale, con i suoi scarponi
impolverati, i calzoni stretti che gli facevan due borse alle ginocchia
ed un suo certo soprabito, d’un giallo stinto, che portava sempre
sbottonato, fino ai mesi del solleone. Aveva la faccia adusta, la mano
del vangatore, una grigia capigliatura spettinata che gli metteva
qualche ricciolo su la fronte intarsiata di rughe; aveva gli occhi
vivaci, il naso forte, un paio di baffi tagliati a spazzola, duri come
setole.
— Professore... — articolò, con una specie d’inchino.
Per lui il malato era una cosa del tutto secondaria in quel momento; ciò
che lo stordiva era di trovarsi davanti al grande clinico, al medico
illustre, all’uomo di battaglia e di scienza che l’intero mondo ammirava
come un prodigioso rinnovatore della medicina moderna.
— Professore... — mormorò un’altra volta, — è lei che mi ha fatto
chiamare?...
Sudava, pover’uomo, a grosse gocciole, ma non osava rasciugarsi la
fronte.
— Ella è il medico del paese? — domandò Andrea Ferento, senza
indietreggiare dal letto dell’infermo, come se vi stesse a guardia.
— Sì, signor Professore, io sono il medico condotto... — rispose il
Paolieri, con un altro inchino più goffo.
Ci si vedeva poco nella camera: Andrea fece segno a papà Stefano di
aprire a metà un’imposta, e fu Maria Dora che, scivolando dietro il
padre, andò alla finestra. Andrea aveva ritrovata la piena padronanza di
sè. Tenendosi ritto parlava con gesti sobrii, guardando ora il malato,
ora il medico, dando ragguagli esatti su quanto era accaduto.
C’era più luce ora, ma il letto rimaneva nella penombra, con quell’uomo
supino e fermo, che pareva non desse alcun segno di vita.
— Ci fu un momento difficile, — spiegava Andrea, — e temendo il peggio,
ho desiderato fosse presente anche lei. In due si vede assai meglio e si
provvede con maggiore tranquillità.
— Oh, Professore... io debbo ringraziarla, ma non potevo essere che
inutile... certamente inutile...
Fino allora, mentre il Ferento esponeva con lucidità la crisi patita
dall’infermo ed i rimedi usati, l’ottimo Paolieri non aveva rivolto che
qualche sguardo distratto al giacente, standosene assorto nelle parole
del narratore come se volesse mostrargli di non perderne una. E di
continuo faceva con la testa un segno d’assenso, anche dove questo
appariva superfluo.
Ogni tanto intercalava, come una litania:
— Vedo, vedo, vedo... — Forse non vedeva nulla, tanta era la sua
confusione.
— Per fortuna, — seguitava il Ferento, — in capo d’un certo tempo,
mediante l’iniezione, ho potuto rianimare il cuore, e da vari indizi ho
notato che la crisi ancora una volta sarebbe stata vinta senza gravi
conseguenze. Ora, più che altro, si tratta di un grande prostramento
nervoso, che tende a scomparire. Il respiro è difficile, ma assai meno
di prima: il polso debole, ma riprende, — e si potrebbe, se lei crede,
fargli un’altra iniezione di caffeina. La dose che gli ho somministrata
finora è piccola: una seconda può giovare.
— Ma senza dubbio! — disse il Paolieri. Poi soggiunse: — Oh, scusi... —
E in fretta si cavò il soprabito.
Fino allora non s’era nemmeno accorto di portarlo indosso, tanta era
l’abitudine che ne aveva; e l’essersi tolto senza necessità quella sua
specie di casacca o di giubbone, era il più grande segno di rispetto
ch’egli potesse dare ad un uomo.
— Se vuole, — disse Andrea Ferento, quasi a termine del suo parlare, —
se vuole, dottore, lo esamini.
Era un invito, sì, ma detto nel modo con cui si propone ad alcuno di
fare una cosa del tutto inutile.
Il Paolieri s’appressò al letto; prese macchinalmente il polso del
malato, gli toccò la fronte, gli rovesciò un labbro per guardargli le
gengive. E questo fece due volte. Poi gli scoverse il petto ed ascoltò
il cuore; gli mise una mano sul fianco per esaminare il fegato e gli
premette l’intestino.
Nel fare quel che faceva da anni, tante volte al giorno, come nel
compiere le pratiche d’un mestiere assiduo, dimenticava perfino la sua
soggezione e la presenza stessa di quel gran medico. Faceva tutto ciò
con coscienza, assumendo nella sua faccia ruvida un non so che di grave,
quasi d’intelligente.
Poi lo ricoverse con delicatezza: ancora una volta gli guardò le
gengive, le membrane interne degli occhi, a lungo, e di tutto
quell’esame non fece che dire:
— Già... già...
— Le pare? — disse Andrea, attentissimo.
— Già... come lei diceva, Professore... non si tratta che di un grande
prostramento... l’iniezione gioverà.
— Sì, facciamola.
Fu allora che il malato aperse gli occhi e stupitamente li guardò. Due,
tre volte li aperse, non potendoli tener fermi; e li guardava l’un dopo
l’altro, attonito, cercando.
Mosse le labbra, forse per dire un nome... Quale nome?
Certo quello solo che amava, quello inestinguibile, che per lui non
moriva nella morte: Novella...
Appunto era venuta su la soglia ed aspettava, tutta bianca.


VII

Il malato si levò ancora dal letto e parve per alcun tempo godere di un
benessere nuovo. Siccome i giorni si facevan caldi, sua moglie lo
accompagnava durante il pomeriggio sotto un pergolato a riparo dal
vento, e là sedevano, rimanendo per lunghe ore insieme. Ogni tanto li
venivan a trovare o Maria Dora o gli altri della casa, e la giornata
passava quasi rapida, nonostante l’inerzia di quella calda primavera.
Talvolta capitava su Maurizio, a parlar della sua caccia o dei
campicelli di suo padre, che li aveva laggiù, verso valle, con una
piccola cascina. Ed erano allora lunghi discorsi, che il malato
ascoltava con un sorriso benevolo, mettendovi qualche parola ogni tanto,
sempre con dolcezza.
Il Ferento andava, tornava, dalla città in villa, sin tre o quattro
volte per settimana. Il malato gli diceva continuamente, con un sorriso
calmo: — Perchè mi curi? Tanto è inutile...
Ma si sentiva più felice quand’egli era lontano, quando poteva restar
solo con lei, senza che nessun estraneo interrompesse con la sua
presenza quella specie d’intimità nuova ch’era nata fra loro. Dopo la
crisi terribile, pareva che il male volesse dargli una tregua, una di
quelle tregue ingannevoli che talvolta precorrono l’agonia.
Egli rimaneva lungamente a guardarla, con un sorriso pallido su le
labbra, gli occhi un po’ velati, come se non fosse mai sazio del suo bel
viso e volesse portar seco nella morte la più compiuta immagine di lei.
L’anima sua traboccava di dolcezza, e, quasi per comunicarle questo
senso d’amore, ogni tanto allungava la mano a carezzar la sua mano; le
diceva una timida parola d’affetto, con l’esitazione d’un innamorato che
parlasse per la prima volta. Ella era triste, accasciata, stanca; tutti
i sintomi della maternità travagliavano il suo corpo; la opprimeva una
disperazione taciturna davanti a quel pericolo che ogni giorno si faceva
più prossimo. Che sarebbe stato di lei, di loro, se non avesse potuto
più nascondere, prima della sua morte, quella vita inconfessabile?
La sua morte? Ma chi le aveva mai detto ch’egli dovesse morire?
Infatti, per una specie di graduale suggestione, s’era già quasi avvezza
a questo pensiero come all’attesa d’un fatto inevitabile, d’un’ora
imminente, e per vari giorni, senza volerlo, senza ben sapere
cos’attendesse, era vissuta nell’aspettativa da un attimo all’altro di
quel grido che la chiamerebbe lassù, nella camera semibuia, presso il
letto dov’egli rimarrebbe disteso...
Il giorno anzi dell’ultima crisi, udendo il suo rantolo, aveva creduto,
senza volerlo, provandone anzi un orrore immenso, che il momento
inevitabile fosse venuto, e rimanendo come in croce, là, nel corridoio,
attendeva che alcuno, forse Andrea, nell’uscire da quella camera le
dicesse con uno sguardo: — Sai...
Ma ora lo vedeva sorridere, camminare, parlare... lo spettro funerario
s’era di sùbito arretrato, e mentre in addietro quell’avvenimento le
pareva lì lì per succedere, ora non lo immaginava neanche più; non
aspettava più quel grido. E nell’esame interiore che ognuno suol
compiere di sè medesimo, s’accorgeva con terrore di averlo desiderato.
La sua morte? Ma chi le aveva mai detto che dovesse morire?
«Forse fra poco, forse fra qualche anno...» Vagamente le pareva di aver
intese una volta queste parole su la bocca di Andrea.
E allora qual’altra possibilità rimaneva per lei — e non per lei sola —
davanti a questo nodo inestricabile che nulla poteva troncare? Qual
dramma scoppierebbe nella casa il giorno in cui la sua maternità
divenisse manifesta? Non era forse uccidere, ma d’una morte più barbara,
quell’uomo dolce che l’amava? Ed il suo padre che farebbe? e la sua
mamma, e la sua fresca sorella che direbbero di lei? Ecco: la casa, il
nome sottomesso allo scorno della gente. Una creatura nata nella
tragedia, senza padre, senza diritto a vivere... E Andrea? e il loro
amore?...
In quelle ore d’ozio, stando seduta presso il marito che non moveva gli
occhi da lei, senza tregua ella si rivolgeva nella mente queste domande
affannose, lasciandosi cullare da un’inerzia totale delle membra e dello
spirito, come una povera creatura che, perduta ogni speranza di
salvezza, si lasci travolgere senz’alcuna resistenza verso l’urto che la
dissolverà.
E tuttavia, nascosto nell’anima, impreciso, indefinibile, aveva quasi un
filo di speranza... di speranza in quell’uomo così risoluto e così
certo, che le pareva capace di soverchiare tutte le impossibilità; in
quell’uomo che le aveva detto una notte, una notte d’amore: — Così ti
amo, e più forte. Non dimenticare queste due parole: «Più forte».
Ella non ne aveva compreso il senso, non aveva nemmeno cercato di
comprenderne il senso; ma era come una sensazione di forza che
aleggiasse intorno a lei, una potenza incontrastabile che avesse radici
profonde in quel suo petto virile.
Non si parlavano più che a rari intervalli, di sfuggita. Egli era più
che mai taciturno; quando non doveva tornare in città, passava le
giornate chiuso nella sua camera, trasformata in una specie di
laboratorio, fra i libri di scienza e le ampolle delle sue misteriose
medicine. Soltanto a lunghe distanze di giorni, talvolta, nel cuore
della notte, quando la casa era tutta spenta, ella scivolava giù dal
letto per andare a lui, per temprare in quell’animo forte il suo stanco
dolore.
Tutto gli raccontava, tranne, per un pudore involontario, le parole di
quel pomeriggio, quand’ella era seduta presso il cembalo ed una striscia
di sole feriva obliquamente la stanza, piena di polvere viva. Ma nelle
sue reticenze tuttavia si era tradita più di una volta. Finchè, un
giorno, egli non fece che prendere le sue mani, poi, senza farle
violenza, ma con quella voce che aveva ogni potere su lei e che pareva
rimproverarle il silenzio come un disamore, le domandò:
— Perchè mi nascondi qualcosa? perchè non mi dici tutto quello che sai?
Ella non tacque oltre. A faccia china, gli ridisse tutte le parole, una
per una, tutte.
Egli notò solo che l’infermo l’amava tuttora d’una passione d’amante, e
che dal suo dolore traspariva una orrenda gelosia.
— Dimmi, ed hai sentito che ti amava? che ti desiderava... proprio così?
Dimmi!
Elle ebbe, nel ricordo, una specie d’ira.
— Perchè vuoi che lo dica? Sì, ho sentito il suo desiderio caldo come
una febbre avvinghiarmi, soffocarmi... ed ho avuta per un attimo la
tentazione di gridargli in faccia: «No! làsciami... làsciami... perchè
infatti, è vero, lo amo!... sì, lo amo con tutta la gioventù delle mie
vene!... lui amo: Andrea. Non farmi più mentire!» — E per un momento,
con una specie di crudeltà voluttuosa, tutto quello che vi è d’immondo
in me, nel mio cuore pieno di tormento, nella mia carne piena di vizio,
mi ha fatto sentire l’odio, un vero odio, contro questa creatura malata
che m’incatena al suo letto come un’infermiera, che si trangugia la mia
gioventù come una medicina, mentre là, fuori appena dalla finestra, c’è
il sole, c’è l’aria, c’è il vento... ed io vorrei lanciarmi a quella
finestra e gridarti: Sì, vieni, vieni!... préndimi! pórtami via!...
Egli ascoltava senza dir motto, chiuso in una rigida impenetrabilità,
come se ascoltasse piuttosto la voce del suo proprio cuore che non la
voce di lei. Vedendolo pensare così profondamente, lo chiamò per nome,
indi lo scosse, poichè le parve che una sofferenza fisica gli alterasse
la fisionomia.
— Guárdami, Andrea... Che hai?
Con un gesto vago della mano egli scacciò la torma dei pensieri che
l’assediavano, e disse:
— Idee!... null’altro che vuoti fantasmi!
Su la sua fronte, divisa dalla ruga profonda come una ferita, ella
passò, per diradarne l’ombre, la sua mano lieve.
— E non li puoi disperdere, tu che sei così forte?
— Disperdere? Anzi, no! Bisogna invece discutere con essi, poichè veri e
temibili fantasmi sono quelle ombre che la nostra coscienza non osa
prendere di fronte, alle quali non osa dire: «Tu ti chiami, per esempio,
rimorso; per esempio, delitto; per esempio, morte.» Poichè, vedi, la
nostra coscienza è talora un senso involontario di giustizia, ma più
spesso è una paura dell’anima davanti alla felicità. Molte volte un atto
infinitesimale di coraggio basterebbe all’uomo per risolvere tutto il
problema della sua vita... e non l’ha! Pensa che schiavi siamo, noi che
poniamo quasi sempre i nostri desideri là, dove questa paurosa coscienza
ci impedisce di giungere.
Poi fece una pausa, e guardò negli occhi la donna che amava, colei che
portava nel grembo il lor figlio concepito, e quasi tremando le domandò:
— Novella, se un giorno tu sapessi che nel lontano passato io commisi
una colpa orrenda... se tu sapessi d’un tratto che sono macchiato, che
porto nel mio cuore un suggello d’infamia incancellabile... cosa diresti
allora di me? cosa faresti per punirmi, Novella?
— Che importa? — ella rispose: — questo non è vero...
— Ma, se fosse vero?... — incalzò l’amante: — Rifletti bene: «Se è
vero?»
Ella sorrise, lo abbracciò, divenne scherzevole, quasi volesse
allontanare quel pensiero molesto.
— Ne avresti orrore, — egli concluse. — Anzi, non mi ameresti più.
— Oh, — ella fece, — come sei pazzo!
Gli fece passare le dita fra i capelli, ravviandoli, quasi adoperasse un
pettine fino. I capelli spartiti risorgevan ondosi, con una specie di
ribellione, dietro il solco delle sue dita.
— Cosa può importare a me quello che avresti fatto? Io non ti giudico:
ti amo.
— Sì?... e la sapresti perdonare, dimenticare, la mia colpa? anche se
fosse la più grande?...
Ella s’avvinghiò a lui, forte, per comunicargli traverso le vene quella
verità che stava per dirle, e con un filo di voce, poichè vi son cose
che van dette piano anche quando si è soli:
— Senti... — bisbigliò, — qualsiasi cosa tu faccia, ora, e nel passato,
e sempre, penserò che quella cosa è giusta, e che fai bene... perchè ti
amo fino a trasformarmi nella tua propria volontà e sono in te più
fortemente che il tuo stesso cuore...
Egli premette le labbra contro la sua gola calda, e rise, d’un riso
convulso che lo faceva trasalire, illuminandolo di gioia come un
repentino sole.
— Ora, — disse perdutamente, ora ti possiedo per la prima volta come
volevo, e più nulla — ricórdati! — più nulla ci saprebbe dividere.
Senza busto, con i capelli raccolti da un pettine solo, ravvolta in una
vestaglia di seta che la fasciava senza nasconderla, con i piedi scalzi
nelle pianelle di raso orlate d’ermellino, il pizzo della camicia che si
arruffava nell’incrociatura, ella raccolse contro di lui tutto il calore
del suo corpo innamorato, sentendosi a poco a poco disperdere in un
oblìo voluttuoso, come se al di là da tutte le angoscie, da tutte le
servitù cui la vita incatena, ella non volesse più rimanere altro che
l’amante, l’innamorata, la femmina perdutamente sua, nè volesse ormai
conoscere altra disperazione oltre quella de’ suoi baci ubbriacanti
nella complicità e nell’ebbrezza d’una notte d’amore...
Allora, con la mano che brancolava in cerca del suo tepido grembo, egli
sentì nel ventre non piano trasalire — o così gli parve — la forma della
creatura.


VIII

— Il diritto a dare la morte... — profferì a sè stesso Andrea Ferento,
con una voce che pareva misurare ogni sillaba di quel dilemma
inesorabile, mentre teneva sospesa contro il lume una fialetta colma
d’un liquido senza colore, trasparente come l’acqua, che però tramandava
dalla sua purezza un non so che di poderoso e di sinistro. Non
sprigionava intorno a sè un colore nè un odore che bastassero a
definirlo, ma una specie di possibilità nefasta: la virtù del poter
uccidere; come l’acqua invece tramanda l’innocenza ed esprime
l’innocuità. La luce della lampadina accendeva una piccola raggiera sul
vetro dell’ampolla; questa rifrazione bruciava le sue dita, pareva
investire d’un riverbero tutta la tragica persona dell’esaminatore.
Egli era solo, nella sua camera chiusa, tra gli alti scaffali carichi di
libri e l’armadio vetrato, che lasciava intravvedere, un sopra l’altro,
parecchi ordini di vasi medicinali. La tavola da lavoro, ingombra di
scartafacci, di provini, di siringhe, di storte, di bottiglie tappate,
era d’ácero nudo, e per la sua larghezza ingombrava quasi un terzo della
stanza. Dentro una specie di nicchia, fatta come un’arcata, ch’entrava
per mezzo metro nello spessor del muro, il letto era disposto nel senso
della parete; una tenda vi cadeva sopra a baldacchino, senza coprirlo
interamente.
Egli portava sopra l’abito una tunica di tela greggia che gli scendeva
sino alle caviglie, stretta ai polsi e serrata in vita da un cordone
come un saio da monaco; l’alta sua persona prendeva in quella veste una
apparenza ieratica.
Tutto era silenzio intorno; pareva che la casa dormisse nel suo primo
sonno, sebbene forse, dentro le occulte camere, non dormissero gli
abitatori. Dal giardino sottostante salivano a tratti le vampe odorose
dei gelsomini.
— Il diritto a dare la morte... — profferì una seconda volta, con
maggiore lentezza, Andrea Ferento. — Uccidere! La parola bella e
terribile che nessuno ha mai osato far assurgere ad una legge umana. «Tu
non puoi uccidere perchè non puoi creare,» — predicarono i remoti
Evangelisti. «Ma il senso eterno del mondo, la legge implacábile della
natività, non è forse chiusa in questa parola fra tutte più necessaria:
«uccidere?»
Dalle origini stesse della vita l’uomo non fece che stabilire limiti. È
inteso: c’è un male, c’è un bene. Ma come si tracciarono i confini? Come
e da chi?
Ah, ecco, intendo! All’estremo, all’ultima pietra milliare della
comprensione, dove tutto si confonde in un color di miracolo, avete
messo, — è incredibile! — questa parola che fa tornar da capo: «Dio».
Parola vuota come un baratro, perchè, per comprenderla, bisognerebbe non
esser uomini, mentre l’averla concepita come uomini vuol dire
semplicemente aver dato un nome, null’altro che un nome, ad una
sensazione d’impossibilità.
In voi non trovo la mia strada, Evangelisti.
Ora, vi dico, il nodo è serrato ma semplice: Se io debbo vivere, la mia
vita vuole una morte.
Ora vi dico: Non una, ma due vite insieme, anzi due vite inseparabili,
sono davanti a un’agonia. La donna che amo, il figlio che ho fatto
nascere, e la mia sorte che brilla: un gruppo formidabile di energie
rimane fermo, senza possibilità di andar oltre, davanti ad un rantolo
che si prolunga.
O Evangelisti, non credete voi che si possa talvolta sopprimere una vita
semispenta, per salvarne altre, pulsanti, gaudiose, di là da quel
sepolcro? Non ammettete l’uomo eretto a giudice solo ed eroico di sè
stesso, l’uomo anarchico, superiore alla legge pattuita, che usa d’una
sua forza spaventosa, ed in silenzio, nel buio, toglie di mezzo
l’ostacolo che lo divide dalla sua felicità?
Chi me lo impedisce?... Cristo? — Cristo era un uomo come me: io non gli
credo. La legge? — La legge è stata fatta da uomini come me; non
rappresenta che la necessaria catena; io sono più forte: la spezzo; più
scaltro: la évito. Forse la coscienza? — Essa è paura, è viltà, è un
terrore atavico dell’uomo: bisogna insegnarle a volere con
inflessibilità quello che davanti alla vita, e non davanti agli uomini,
è giusto. A che servirebbero questi veleni minutissimi, rari, lenti,
senza traccia, che crescono pure nella vegetazione della terra, se la
natura stessa non avesse riservato all’uomo la possibilità di propinare
una morte nascosta? Che sarebbe l’amore in sè medesimo, se per lui non
fossimo capaci di compiere qualche atto di eroismo crudele? Non contro
me posso infierire, poichè la mia morte non li salva, anzi li perde. Ho
amata una donna non mia e l’ho resa madre: mi trovo nell’impossibilità
di liberarla dalla sua concezione, il che sarebbe altrettanto delitto.
Lascerò ch’ella si uccida? O giudici, sarò così vile da non fare con
risolutezza tutto ciò che il mio coraggio può fare per lei?
Forse avrei dovuto, quando ne sentii nascere il primo palpito, soffocare
in me questo inevitabile amore. Ma tutto si può fare al mondo, fuorchè
non amare ciò che si ama.
Ora, contro il diritto a vivere di queste due creature, che sono ormai
la mia sola ragione di essere, sta un’agonia, sicura ma tenace, lenta ma
irremediabile... Due giovinezze davanti ad un sepolcro, due ricchezze
davanti ad una miserrima povertà. Fra queste cose, il coraggio della mia
mano, la stilla invisibile di un veleno, il martirio nascosto della mia
coscienza... Ebbene, in tale dilemma, è più onesto concepire la
coscienza come una schiavitù paurosa, che rifugge dal delitto per il
solo terrore de’ suoi fantasmi, o concepirla come un coraggio efferato,
che avvinghia quei fantasmi e li soffoca per la felicità di chi ama?
O voi, che invisibili e presenti squassate intorno alla mia coscienza i
vostri mantelli neri, ascoltate ancor questo dalla mia voce che non
trema: — Io feci olocausto di me stesso al mio amore d’uomo, al mio
dovere di padre, e se, per giudicare un colpevole, può esservi un altro
giudizio che non l’oscuro confessionale o la teatrale aula d’una Corte
d’Assisi, questo giudice libero mi dirà: — «Tu sei stato un anarchico ed
un santo. Se puoi, vivendo, sopportare il tuo delitto, la sua potenza
medesima ti assolve. Di fronte ai mediocri taci e nascondi, perchè i
mediocri mai ti comprenderanno.»

Allora, nell’alta casa, malvagiamente, come se scaturisse nel silenzio
dalla sonora muraglia, udì suonare la Canzone Disperata sul violino
singhiozzante dello scemo.
Questa canzone diceva:
«Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di
morti, portando il mio scheletro su la schiena;
«coi piedi mi batte i ginocchi, — mi stringe il collo con le
mani...
«Cammina!... — mi dice ridendo — la vita comincia domani.

«Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? —
Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome: l’Inutilità.
«— Sei stato in un letto odoroso — con lei che giaceva supina,
«tremante, sperduta, tremante — nel solco del letto profondo...
«Perchè, se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto tremare nel
mondo?

«Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di
morti, e vado a cercare altri morti, — che sono i miei figli
lontani...
«Cammina: la vita comincia
domani, domani, domani...
La Canzone approssimava, tragica, lugubre, nel silenzio della notte,
finchè, dietro l’uscio, si spense. Allora egli udì le nocche dello
scemo, che rideva, battere contro la porta, dicendo: — Aprimi.
Andrea, rapidamente chiuse nell’armadio le minuscole ampolle dei veleni
che stava esaminando; poi non rispose, non aprì.
— Apri dunque! — sollecitava lo scemo, girando la maniglia. Ma la porta
era serrata nell’interno a chiave.
— Che vuoi?
Sorda e cocciuta la voce ripeteva: — Aprimi!
Allora Andrea girò la chiave nella serratura e si ritrasse per lasciarlo
entrare. Marcuccio, col manico del violino stretto nel pugno, la bocca
torta da quel suo riso obliquo, s’avanzò fin nel mezzo della camera
guardandosi attorno, poi disse:
— Novella piange.
— Come lo sai?
— Piange, — ripetè l’altro con iracondia.
— Come lo sai, domando?
— L’ho veduta io, per la toppa. Sì, l’ho veduta. È nella sua camera,
seduta in un angolo, e singhiozza.
— Ebbene? — fece Andrea dopo una pausa.
— Volevo dire che piange, — ripetè costui, ingrossando la voce.
— Allora tu guardi per le serrature?
— Sempre.
— Perchè?
Accentuando il suo riso atono, egli fece con la mano un gesto vago:
— Per la serratura ho veduto la Berta in camicia, molte volte... La
Berta si lega le calze con due nastri rossi, quassù... — e segnava
l’alto della coscia.
Andrea lo fissò negli occhi, attentamente, con un senso di maraviglia e
di pietà.
— Non puoi dormire, Marcuccio?
— Sono le notti lunghe della primavera... gli uomini che han qualche
sogno nell’anima non possono dormire. — Poi fece schioccare le labbra e
soggiunse: — Mi piacerebbe dormire con la Berta. Senza che lei se
n’accorga io la vedo ogni sera per la toppa, quando si spoglia. È
grassa.
— Allora, — disse Andrea severamente, — hai guardato per la toppa anche
al padiglione di caccia, alla Boscaiola, una volta...
Marcuccio si mise a ridere con sguaiatezza e contorse la bocca.
— No: sono salito sulla tavola di pietra ch’è da un lato, e, stando in
piedi, ho potuto guardare in giù, verso l’interno della capanna. Sì, e
c’era Novella...
— Non è vero!
— Sì, che c’era! — incalzò lo scemo. E segnandolo a dito soggiunse: —
Con te.
— Bada, Marcuccio! guai se lo ripeti!... — esclamò Andrea, afferrandogli
ruvidamente le mani.
— Novella era quasi nuda, e tu... ahi! non mi far male!... tu la coprivi
con le margherite che avevate raccolte... ahi!.. sul petto... ahi!.. la
coprivi...
— Guai a te, se ripeti queste cose bugiarde! Hai visto male. Io non
c’ero. Lei neppure non c’era. Intendi?
E forte lo scuoteva per le braccia, mentr’egli, caparbio, insisteva
nell’affermare.
— Intendi?...
— No, no... tu eri! lei era! Ed erano belle... com’erano belle quel
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