La vita comincia domani: romanzo - 09

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altro lo dovesse fare in sua vece; poi sùbito, con quella rapidità
d’azione che in lui seguiva il pensiero, comandò a sè stesso: —
«Ubbidisci!»
«Ubbidisci!» In tante ore della vita gli era stato necessario darsi
questo comando breve. Ed era, non la sua stessa voce, ma la voce d’un
tiranno interiore che glielo gridava contro i timpani, che inchiodava
questa parola nella sua volontà a colpi di martello, facendolo tutto
vibrare. Avesselo condotto su l’orlo d’un abisso e detto: «Balza!» —
egli, senza retrocedere, avrebbe spiccato il salto. Avessegli detto: —
«Cammina contro mille, perchè necessario è camminare!» — e contro mille,
da solo, senza tremito, avrebbe camminato. Questa voce che in lui
dettava era veramente il suo Dio.
Il morto era nel mezzo della camera; la sua goffa ombra invadeva il
pavimento, la parete; egli stava in piedi entro quell’ombra, sapeva di
esservi, ed anzi gli sembrò d’averne i piedi avvinti, sì che fece uno
sforzo muscolare per divincolarsi da lei. Ma l’ombra lo teneva in sè
come una preda, l’avviluppava nel suo fermo tentacolo, nel suo mantello
d’immobilità.
Pensò allora che bisognava spegnere quell’ombra, anche perchè non si
vedesse dal giardino la sua finestra troppo a lungo illuminata; e
trattosi da lei con la fatica dell’uomo che vinca una melma tenace, andò
alla finestra, onde guardare se fossevi abbastanza lume di stelle per
compiere quel che doveva nel buio.
Una effusa chiarità lunare vestiva tra gli alberi una magnolia lucente,
ed egli vide in capo dei possenti rami cullarsi quei suoi grandi fiori
lascivi e candidi come un seno incipriato, che pareva dormissero su la
pigrizia d’un’acqua sonnolenta.
Dietro i vetri chiusi, egli non sentiva il profumo della notte
primaverile; ma la fragranza di quei fiori di magnolia, che dall’albero
antico e brillante incensavano l’aria come fontane di soavità, gli
eruppe in faccia con una larga ondata, salendogli fino al cervello, così
fortemente, che il profumo della notte lo stordì. Quella fragranza,
quella chiarità lunare su l’albero di magnolia, e tutta insieme quella
pace azzurra trascorrente nelle vive arterie della notte, eran ancora
immagini delle cose a lui vietate, eran sirene che parevano attrarlo
dentro un incantesimo di pace, visioni che lo persuadevano alla dolcezza
dell’oblìo.
— «Sì, puoi spegnere il lume,» — disse a lui, nell’intimo, la voce del
suo vigilante complice.
Retrocesse dalla finestra verso la tavola, spingendosi a forza di
scatti, come un animale restìo, e nel posare le dita su la chiavetta del
riflettore osservò che il suo polso non era fermo.
— «Tremi?»
Questa parola ch’egli aveva odiata conveniva ora dunque per lui?
— «No, non tremo!»
E rapidamente spense il lume.
Ora egli vide cadere dall’alto soffitto una molteplice cortina di
mantelli neri, che si srotolavan l’uno dopo l’altro, grevi, enormi,
funerei, come una tenebra che rapidamente aumentasse.
Non vedeva più nulla; era solo, sperso, nel silenzio assoluto,
nell’assoluto buio.
Con le dita fredde si stropicciò gli occhi, perchè si accorse che quel
tenebrore pioveva in lui, non intorno. Allora, in un lampeggiamento di
strappi rossi, cominciò a distinguere. A distinguere la finestra che
inazzurrava, l’alta parete imbiancata, i mobili fermi, l’ombra...
quell’ombra inamovibile. E vide una cosa orrenda: la faccia del
cadavere, torta su la spalliera, convulsa in un sogghigno che pareva di
riso.
Allora, per la prima volta nella vita, il cuore accelerando e sostando,
gli fece conoscere cos’era veramente la paura. S’agghiadò e retrocesse,
brancolando con la mano che ricercava il lume.
«Tremi! tremi! tremi!...» — gli urlava dentro sarcasticamente la voce
nemica.
— «No!»
E si aderse in tutte le sue membra, di scatto, come davanti ad una
provocazione. Si sentiva nei polsi, contro le tempie, battere il sangue
a fiotti; gli pareva che la camera desse un continuo traballamento.
Poi si provò a guardare un’altra volta verso quel riso che l’atterriva:
e lo sostenne.
Non era più riso, ma uno spasimo che aveva in sè, nello stesso tempo
qualcosa di selvaggio e d’inerte. Provò a ragionare per darsi animo:
— «È un morto, — si disse, — come ne ho veduti centinaia; il principio
della polvere... insensibilità, silenzio, fine.»
Ma non gli pareva che fosse un morto come l’altre centinaia, che non
fosse materia senza uomo, che non tacesse, che non fosse finito.
Avendo l’uso di separare il proprio cervello dagli errori della
sensibilità, si mosse un’accusa ponderata, osservando: — «È l’anima tua
che gli presti e sono i tuoi sensi alterati che propagano su lui una
parvenza di vita. Ma questa è materia che solo pesa; è cosa morta, cioè
senza possibilità, e non la devi temere.»
Per analogia gli riapparve, come in una visione distante, il cavalluccio
sardegnolo morto nella sala operatoria fra i veterinari che ridevano.
— «Bada, — lo avvertì la voce — che il tempo corre.»
Infatti ebbe la sensazione immateriale di qualcosa che continuamente
correndo fosse continuamente più in là del pensiero; questa cosa era il
Tempo. E smarrendosi nella sua fuga immensa, piccola e vana cosa gli
parve il suo delitto, che non poteva nemmeno sospendere d’un attimo quel
perpetuo volare.
Gli avvenne di supporre che gli uomini, quasi per dare un senso al
Tempo, avessero immaginato Dio.
Questa osservazione, sorta in una specie di pausa interiore, gli sembrò
logica; ma in essa v’era quel nome di tre lettere, che lo accese di
ribellione, quantunque insieme s’accorgesse ch’era semplicemente una
parola.
— «Dio: la gran fiaba del mondo!... Ma tu che fai? sogni?»
Possessore di sè, cauto, vigile, s’appressò all’uscio in ascolto; girò
la chiave nella serratura, lentamente, perchè non stridessero gli
ingegni; aperse uno spiraglio, v’appressò l’orecchio. Il filo d’aria gli
produceva sul timpano una specie di ronzìo. Non altro romore si udiva
per la casa dormente: appena quel rombo imprecisabile che nasce dalla
presenza d’esseri vivi entro i muri d’un edificio.
Uscì nel corridoio, giunse fino al pianerottolo, ed un senso di libertà
quasi gioconda entrò nelle sue fredde vene, come quando si riacquista il
respiro dopo un principio di soffocazione.
— «Bada... — egli suggerì a sè medesimo — le tue scarpe...»
Scricchiolavano. Un rumore minimo, che gli parve grande. Strisciò a
passi lenti fino all’uscio della camera di Giorgio; l’aperse con
cautela, ma interamente, per aver libero il passaggio allorchè
tornerebbe con il cadavere su le braccia. S’avvicinò al letto per
studiare in qual modo ve lo avrebbe disteso. Vedendo l’incavatura nei
guanciali sovrapposti ed il solco profondo che la persona dell’infermo
aveva lasciato nel lenzuolo, già gli pareva di recarlo su le braccia e
di sentirne il rigido peso, che gli faceva scorrere dentro l’arterie
pulsanti una vena di freddo sottile.
Perchè la deposizione gli riuscisse più facile, rimboccò la coltre fino
a mezzo il letto, poi cautamente rifece il cammino, strisciando lungo il
muro, trattenendo il respiro, vigile e pauroso come un ladro.
— «Se alcuno scendesse quand’io passerò col mio carico?...»
— «Fa presto! — gli comandò la voce. — Fa presto!»
Rientrò nella camera dov’era il morto, e s’attendeva quasi a trovarvi
una trasformazione, o suppose, per mo’ d’assurdo, la cosa più
inverosimile: che il morto non ci fosse più. Era invece nella medesima
positura, di sbieco traverso la poltrona, con il capo torto su la
spalliera, le braccia pendenti, i pugni chiusi, le gambe unite per le
ginocchia, simili a gambe di sciancato. Che orrore!... Come già era
lontano entro la morte quel miserando corpo! Ed ora bisognava
sollevarlo, avere il coraggio supremo di reggerne il peso contro il suo
petto... Che orrore!
Provò ad avvicinarsi; ma gravitò indietro, quasi resistendo ad una mano
che gli avesse dato un urto per spingerlo su di lui.
Allora, in quel punto, si ricordò che le sue scarpe scricchiolavano; e
cavatele in fretta, cercò a tastoni presso il letto le pantofole di
feltro. Si vide pronto, e gli parve d’un tratto che mai non avrebbe
saputo varcare quella breve distanza. Sbarrò gli occhi e su le iridi
provò una sensazione di freddo; si mise a considerare l’ipotesi che il
coraggio gli venisse meno, che le sue braccia mancassero di forza per
sollevare quel peso; un gran terrore s’aperse in lui, vuoto e freddo
come un’enorme voragine.
— «C’è dunque una cosa che tu non sappia osare? — No, impossibile! — Tu,
che non credi alla divinità della morte, vacilleresti ora come una
femminuccia? Chi mai t’impedisce di sollevarlo? Il Soprannaturale forse?
— Non c’è Soprannaturale!... Avanti!»
Alle sue ginocchia disse: «Avanti!» — al suo piede feltrato, e lo disse
più fortemente al cuore che batteva.
— «Ti perdi e la perdi... Chi?... Lei!»
Allora la vide, che dormiva nel suo letto, immersa nelle sue trecce
allentate, o forse che vegliava, sollevata sui guanciali, con il viso
fra i palmi, a sua volta pensierosa di doversi uccidere.
— «Avanti! È necessario!»
Si ribatteva questa parola dentro il cervello, senza tuttavia riceverne
alcun senso di necessità. Gli pareva di camminare, ed era sempre fermo,
gli pareva d’esser giunto presso il cadavere, di sollevarlo, ed un senso
d’orrore lo faceva retrocedere, senza che si fosse mosso. Mentre così
perplesso vacillava cercando di riafferrare la sua volontà impossente,
parvegli udir rumore.
Si risovvenne di quegli usci aperti e l’istinto fisico della propria
salvezza fu quello che lo sospinse.
In un baleno, si curvò sul morto... ma gli stridevano i denti; le
braccia gli si erano indurite nelle giunture, pesavano come fosser
piombo, e gli doleva d’un dolore acuto, fra vertebra e vertebra, la
spina dorsale.
Però s’era detto e si diceva:
— «O ch’io lo porti, o ch’io muoia!»
S’inginocchiò: fece, nel sollevarlo, uno sforzo maggiore del necessario,
ed il corpo scosso gli traballò contro il petto, quasi cercasse
d’avvinghiarlo in un abbraccio macabro. Aveva contro la bocca una spalla
del morto, ed uno di quei gomiti acuti gli premeva su le costole come
per resistere alla sua stretta brutale. Sentiva su l’avambraccio il peso
del capo riverso, e su lo stinco e sul polpaccio, mentre s’alzava, i
colpi di quei calcagni penzolanti.
— «Lo porto! lo porto!»
Chiudeva gli occhi per terrore; li apriva per veder la strada.
— «Così lieve? No, così greve. — Perchè ragiono? — Avanti! Passeremo per
l’uscio? — Sì, di sghembo. — E se cade?...»
Allora serrava le braccia. Gli sembrò che il morto lasciasse nella
poltrona qualcosa di sè. Pur tenendolo forte, si volse a guardare.
Duplice lo rivide: com’era innanzi e com’era, supino, sul catafalco
delle sue braccia.
In quel momento s’accorse di non tremare più; fece un passo, poi un
altro, poi molti, e pose un’attenzione estrema nel non urtare contro
l’uscio. Diceva continuamente, a fior di labbro, quasi per aiutarsi
nell’opera:
— «Sì, sì, sì...»
Sporse prima il capo del cadavere, indi passò con tutto il corpo. Nel
corridoio bisognava camminar obliquamente, ma la strada era facile.
«Sì, sì...»
E nell’andare gli venne in mente che Marcuccio era innamorato della
Berta...
Ogni tanto i calcagni duri battevano contro la sua coscia; quel gomito
confitto nel suo petto gli dava estremamente noia. Non poteva ben
comprendere se andasse in fretta o piano, ma la strada gli parve lunga,
e non trovava l’uscio. Tuttavia, dalla soglia di quella camera una
velata chiarità filtrava nel corridoio notturno, ed egli finalmente la
vide.
— «Sì, sì...»
Gli sporse dentro i piedi, quindi passò con tutto il corpo; l’adagiò
malamente sul letto e si volse rapido a rinchiuder l’uscio. Una specie
d’ilarità silenziosa gli eruppe dall’anima; quasi ebbe voglia di
beffarsi del suo terrore vinto; si toccò, una dopo l’altra, le braccia,
poi la fronte, ch’era un po’ sudata.
— «Salvo!»
— «Non ancora, — gli suggerì la voce: — svéstilo.»
Già, bisognava svestirlo. Doveva essere morto nel suo letto, senza urlo,
solo.
— «Svèstilo»
— «Sì, lo faccio, guarda: ora è facile!»
Il morto era coricato in obliquo su la larghezza del letto; le gambe
sovrapposte gli pendevano in fuori. Egli s’inginocchiò su lo scendiletto
e gli tolse le scarpe, adagio, come se avesse tempo da perdere; gli
tolse anche le calze, e con ordine le ripose dov’erano di consueto.
Una bella striscia di luna rischiarava meglio di un candelabro; in quel
chiarore azzurro si vedeva ogni cosa distinta, ma quasi ravvolta in un
contorno d ’irrealità.
Gli sbottonò i calzoni, glieli tolse, dopo averlo sollevato con fatica;
li piegò, li mise a cavalcioni d’una seggiola, dov’egli era solito porli
quando si ricoricava. Non s’era messo mutande: le due gambe giallastre,
aride come due lunghi batacchi, percorse da un rilievo di tendini che
parevan funi tese, erano fredde di quel freddo particolare che si
distingue da ogni altro, ed al quale non v’è parola che somigli tranne
la parola: «morte».
Le due ginocchia parevano intorneate da una chiazza d’ombra; le cosce
ischeletrite, simili a quelle d’un paralitico, mostravan più dell’altre
membra i segni della consumazione.
Ed egli, che lo svestiva ormai senza paura, s’indugiò per un attimo a
considerare quella virilità estinta, rievocando nel bagliore d’un lampo
l’immagine sensuale della donna che il morto aveva posseduta. Gli sembrò
ch’ella stesse con loro, muta, in un angolo, e si svestisse ignuda,
sbarrando i suoi chiari occhi pieni di voluttà per assistere in tutta la
sua bellezza all’epilogo della lor tragedia umana.
Egli traeva da questo pensiero un tale senso di ribrezzo e d’ansietà,
che ne aveva l’anima oppressa; e tuttavia perdendo la nozione del tempo,
gli pareva di poter compiere quella sua lugubre faccenda con la maggiore
lentezza. Si preparava oculatamente un alibi morale, badando a non
scordare la più piccola cosa, a non lasciare in quella camera dove
Giorgio doveva esser morto alcunchè d’inspiegabile o d’inconsueto.
Allora, sbottonatagli la giubba, sollevò il cadavere, prima sovra una
spalla, poi su l’altra, poi su entrambe insieme, per fargli uscire dalle
maniche le braccia che incominciavano ad essere, non solo inerti, ma
rigide.
Questa operazione gli prese tempo; ed anzi egli rischiò di lacerare la
stoffa. Ma quando l’ebbe finalmente liberato da quella casacca di lana,
ed il morto fu rimasto in camicia, egli provò novamente un senso di
liberazione, poichè gli pareva d’esser vicino al termine del suo crudele
officio. Ormai non gli rimaneva che da stenderlo sotto la coltre e
comporre il letto come se naturalmente vi fosse morto.
Ma una voce interiore gli consigliava senza tregua: — «Osserva, osserva
bene...» — quasi per evitargli una distrazione possibile, una di quelle
minime dimenticanze che son talvolta la chiave de’ più oscuri delitti.
Egli faceva, nel riflettere, una certa fatica, uno sforzo quasi
muscolare nel convergere tutta la propria attenzione su questo solo
intento, mentre per istinto il suo pensiero cercava di sbandarsi
altrove.
Allora egli andò verso la finestra, per esaminare nella maggior luce
quella casacca di lana, quasi ch’ella potesse conservare un segno
qualsiasi, un’impronta, una macchia di bava, uno strappo, un odore
indefinibile, una piega. L’esaminò per tutti i versi, più volte,
l’odorò: sprigionava un sottile odor di canfora, e null’altro, si
ch’egli si mise a riflettere dove l’infermo la tenesse di consueto.
— «Nell’armadio, mi pare... Sì, nell’armadio, piegata... non ti ricordi?
— Infatti.»
Allora la piegò di rovescio, con le maniche in dentro, poi nel mezzo,
indi, appianatala come si conviene, andò all’armadio, e la ripose ove si
ricordava benissimo di averla tante volte veduta.
Nel frattempo s’accorse di ansar forte; allora cominciò a fischiettare,
piano piano, fra i denti, come per accompagnare la sua faccenda e far
qualcosa che gli paresse naturale.
Rinchiuso lo sportello, si guardò in giro. Non rimaneva più nulla da
fare, tranne che occuparsi del letto e del cadavere buttatovi sopra di
traverso. Con la fronte raccolta in una mano, cercò d’immaginare come lo
avrebbe ritrovato il mattino, entrando, se davvero durante la notte,
senz’alcun testimonio, si fosse spento. Non gli riusciva di vederlo
bene, anzi lo vedeva in mille guise. Allora cercò di raffigurarsi nella
sua memoria di medico altre morti che fossero avvenute in congiunture
simili. Certe fisionomie di cadaveri, dimenticate da tempo, gli si
affacciarono alla mente, quasi fossero sembianze note.
— «Si muore in tanti modi...» — pensò. Poi gli parve inutile riflettere
e non volle frapporre altro indugio.
S’avvicinò al letto. Siccome le coltri erano già rimboccate, non durò
fatica nel farle scorrere sotto il corpo giacente, per poterlo
distendere fra i due lenzuoli. Diede una spiumacciata sui due cuscini,
e, preso il cadavere per le caviglie, sollevò le gambe su la proda, indi
sospinse tutto il corpo nel mezzo del letto e ve lo distese. Il capo
s’era insaccato fra i guanciali, ond’egli risollevò di peso tutto il
busto, lasciandolo poi ricadere, affinchè la testa prendesse nel cuscino
la sua positura naturale. Poi raccolse le due braccia, e non sapeva dove
metterle. Provò in diversi modi, fece varie ipotesi, ma nessuna lo
soddisfaceva.
Da ultimo pensò che la sinistra dovesse far l’atto di respingere le
coltri e la destra portarsi alla gola come per vincere una soffocazione.
Quando volle ricoprirlo, vide ch’era nudo fino alla cintola, e dopo
averlo inguainato nella camicia fin sotto le ginocchia, raccolse le
coltri, gliele buttò addosso. Quella ventata scompose i capelli ad
entrambi. Si ravviò i suoi, lentamente. Le coltri si posarono sul morto
con un disordine uguale, ond’egli cercò il suo braccio per portarlo
verso la gola; insieme gli sbottonò il collo della camicia, per
secondare quell’atto. Poi si allontanò di qualche passo ad osservare
l’effetto che faceva.
Non c’era in verità nulla che potesse far nascere un sospetto.
— «D’altronde, — disse con lucidezza, — la commozione di quelli che lo
vedranno domattina non lascerà campo a troppe indagini. E súbito sarà
smosso: bisogna solamente rincalzare la coltre sotto il materasso.»
Lo fece, da un lato e dall’altro, cominciando ai piedi, per quel tratto
che non doveva mostrare alcun segno di disordine; anzi lo fece con tanta
cautela quanta se ne usa nel comporre sotto le coltri una persona cara,
prima che le si dica: — Dormi.
A piè del letto la seggiola s’era obliquata, lo scendiletto era
scomposto: raddrizzò la sedia, tese il tappeto, s’avvicinò al capo del
morto, quasi volesse dirgli:
— Ho finito.
Notò allora sul tavolino da notte l’orologio e la catena d’oro che
splendevano; avvertì l’assiduo celere battito del meccanismo, che dianzi
non udiva. Nella caraffa di cristallo brillava l’acqua lucida. Vedendo
l’acqua ebbe sete.
— «Addio.»
Formulò questa parola: «Addio», senza sapere come gli venisse alle
labbra, senza quasi comprendere perchè la diceva. Questa parola, queste
due sillabe, gli apersero nel cuore uno squarcio di dolore enorme, e gli
parve di non poterlo abbandonare, perchè ora, quel morto, non lo temeva
più: lo amava.
Lo amava, ed era il suo fratello antico, e si chiamava Giorgio; non era
stato ucciso dalla sua mano: era morto, era lì, nel suo letto di morte.
Senza credere, senza saperne il perchè, gli pose una mano su la fredda
fronte, e non con lo spirito, ma con le labbra disse:
— «Pace.»
La luna, salita al suo culmine, versava per tutta la camera un
incantesimo azzurro, fasciava la coltre del morto in un velo
d’irrealità.


XI

Nel breve tratto che percorse dalla camera di Giorgio a quella dove
l’aveva ucciso, il suo delitto gli parve già remoto nel tempo, già
retrocesso in una di quelle lontananze mentali che l’anima ismemorata
varca in un baleno. Sicchè, nell’aprir l’uscio, quella poltrona rimasta
nel mezzo della camera l’urtò quasi nel petto, come una realtà
impreveduta, e fu sì forte il suo stupore, che da prima non osò
inoltrarsi.
— «Io sono Andrea Ferento: un uomo che sa di avere ucciso, — raccontò a
sè stesso. — Un uomo che dovrà vivere congiunto con la memoria di questo
atto incancellabile.»
— «Ebbene? — si rispose; — la vita prosegue nella sua necessaria
vicenda: il cadere d’una piuma d’ala non turberebbe altrimenti
l’equilibrio immutevole delle cose. La terra non fa che ingoiare una
bara di più. Ora la tua strada è sgombra: cammina!»
Gli avveniva molto spesso di dialogare fra sè medesimo come fra due
personaggi discordi, quasi per appurare da qual parte di sè fosse la
ragione.
La strada è sgombra?... Sì, gli pareva; sgombra e facile, certa e
radiosa. Bastava ormai rimuovere da’ suoi passi l’ostacolo più
immediato: quella poltrona che propagava intorno a sè una così pesante
ombra, quel mobile di legno e di cuoio che pareva contenere nelle vuote
braccia l’estremo fantasma del suo delitto. Bisognava insomma, dopo
tanto coraggio, non vacillare nella propria incoerenza, non attribuire a
quella «cosa», nè alle altre che son prive d’anima, un significato
umano.
E fattosi animo, afferrò l’inerte mobile per le due braccia vuote, lo
sospinse con una specie d’iracondia nell’angolo dove abitualmente stava,
robusto e quasi benevolo, in attesa di reggere una stanchezza. Poi,
sentendo il bisogno d’un felice respiro, aperse intera la finestra e
s’affacciò verso la notte imbrillantata, che adagiava su la terra calma
i suoi fantastici padiglioni di stelle.
Tante ve n’erano e così folte, da parere uno sterminio di mondi
luminosi, una polvere cosmica in ardore, una fosforescenza d’atomi
dispersi dentro una sfera di cristallo. Le bianche vie planetarie, le
immense fiumane del cielo straripavan di luce in praterie stupendamente
azzurre, tendevan dall’uno all’altro emisfero un miracoloso arco
siderale, che pareva navigar nell’infinito come una vela gonfia
d’immensità.
Cos’era la fine d’un uomo in quella eterna bellezza? Cos’era più, in
quel silenzio parlante, il piccolo silenzio d’una bocca suggellata?
Cos’era il senso d’una parola umana dentro quella trasformazione
perpetua, che andava dall’inconoscibile verso l’ignoto, travolgendo seco
infinite agonìe, facendo scoccare innumerevoli vite nel fulgore d’un
istante?
Fibrule, atomi, pulviscoli, o uomini, perchè urlate? Cosa scaglierete di
voi contro questo immenso andare? O fuscelli nella bufera, o piume nel
vortice, cosa importa mai all’Assoluto, che voi diciate: — Vivere... —
che voi diciate: — Morire?...
Stelle, stelle... vertici di splendore accesi al sommo del nostro
pensiero, faville irradiate da noi, parole che brillano!... distanze
forse immaginarie chiuse nella nostra pupilla, ombre forse di una luce
invisibile, cancelli d’oro invarcabili della umana prigionìa!...
O piume nel vortice, o fuscelli nella bufera, cosa può essere il vostro
lieve schianto nella ecatombe universale che il Tempo divora camminando,
come un affamato mai sazio?
L’oblìo, l’oblìo, l’oblìo!... più dolce fra tutte le cose, poichè vuol
dire non conoscere, non affaticarsi a conoscere, ma passare...
Gli parve che tutto il mondo in quell’attimo avesse un colore di
miracolo, e solo percepiva, con una specie di attenta gioia, il fluire
del Tempo. Egli lo sentiva trascorrere in sè come l’acqua traverso un
filtro; aveva chiara la sensazione che una parte del proprio essere,
forse la più immonda, si sperdesse così nell’infinito, e gioiva di
questa purificazione con una lunga e lenta voluttà.
Il Tempo era un nettare che l’uomo beveva per dimenticarsi dell’attimo
anteriore, per allontanarsi dalla sua spoglia vicina.
Poi, quando si fu ristorato in quell’aria balsamica e si fu cullato
quasi per ozio in questi erranti pensieri, d’un tratto gridò a sè
medesimo:
— «Non sei che un istrione! Cerchi di recitare la vita perchè hai paura
di viverla! No, la tua parola è un’altra, più bella che «Dimenticare...»
La tua parola è: «Potere!»
Aspirò un largo sorso di quell’aria vivida, così gran sorso quanto
spazio era ne’ suoi polmoni capaci, e ripetè a sè stesso con la forza di
una intimazione:
— «Sì, potere! Potere con gioia!»
Allora la faccia di colei che amava gli risalì nell’anima come la
ghirlanda del suo peccato, e gli parve che affiorasse nel suo pensiero
da una profondità quasi remota, per essere la sfera, il cardine, intorno
a cui roteava tutto lo splendore dell’universo.
Ella era veramente, nel suo spirito, sovrana ed unica: più in là che il
senso delle cose, più in là che la negazione. Di lei sola, di questo
solo amore, il suo cervello analitico non cercava ragione. S’era preso
d’amore e l’amava, senza mai tentare una ribellione qualsiasi contro
l’ebbrezza che questo perdimento gli dava. Se tutta la sua vita
d’imperio, d’indagine, di lotta, era contro una dedizione così assoluta,
se la sua fredda mente poteva sorridere di questo piccolo nome:
«l’amore» — un altro spirito nel suo spirito, un altro cuore nel suo
cuore, s’eran lasciati stravincere da lei, e non insidiosamente, ma d’un
tratto, e non con il terrore di perdersi, ma con un senso di barbara
felicità.
L’amava!... era pieno il mondo di questo amore esultante!... le cose
tutte visibili portavano il segno impresso di questa ebbrezza del suo
cuore! Tutto le assomigliava, tutto proveniva da lei; era nel tempo e
nello spazio, nell’attimo e nell’eterno, era l’arteria della sua vita
molteplice, era, nel suo mondo negativo, la conclusione sintetica ed
infinita che il credente riassume in Dio.
L’amava! era immischiata ne’ suoi sensi come il profumo nella musica
della primavera... l’amava come si ama un assurdo, come si professa una
follìa.
Allora subitamente si sovvenne de’ suoi dolci capelli, della sua tepida
bocca lasciva, degli occhi suoi, non timidi e non forti, che parevano
continuamente mutar colore, soffrendo quasi la gioia di una contenuta
voluttà; si risovvenne delle sue bianche spalle, che tramandavan l’odore
d’una soavissima cipria e parevan simili a grandi ventagli sparsi di
rugiada scintillante. Cominciò a seppellirsi piano piano sotto la
memoria delle sue carezze, con l’oblìo di chi s’addormenta sotto una
pioggia insensibile di fiori. Ogni ombra, nella notte infinita,
conteneva per i suoi occhi una lontana sembianza di lei.
D’un tratto, nel pensiero, lucida, gli emerse una certezza:
— «È mia!»
Comincerebbe da quell’ora tragica un patto indistruttibile fra loro.
Egli poteva dirle, doveva dirle senza indugio, che nulla più li separava
dalla troppo attesa felicità. E bisognava inoltre chiamarla, per
vegliare insieme quella lunga vigilia, soli, serrati, muti, nell’ambigua
vicinanza della morte, nel chiarore delle stelle.
Era stato verso di lei così nemico in quell’ultimo giorno, ch’ella certo
non avrebbe osato avventurarsi fino alla sua camera come faceva nelle
trascorse notti, quando l’infermo s’addormentava, o talvolta nelle ore
vicine all’alba.
— «La chiamerò.»
E si mosse.
Ma lo turbava il pensiero di trovarla nel suo letto, spogliata, e gli
parve a tutta prima inverosimile di potersi ancora una volta ritrovare
con lei, parlarle, dirle sopra tutto quella parola ch’era necessario
dire. Tuttavia giunse fino alla sua porta, l’aperse, intese il rumore
del suo corpo, che al lieve cigolìo dell’uscio si volgeva nelle coltri.
— Dormi?... — egli domandò soffocatamente.
— Sei tu, Andrea?... Dormivo appena.
— Lévati.
Ella riconobbe nella sua voce un non so che d’insolito.
— Che fai su l’uscio? Entra.
Egli ubbidì; ma rimase immobile, un passo oltre la soglia. Sollevata sui
cuscini, ella invece lo chiamava a sè allungando un braccio.
— Cos’è accaduto?
Andrea rispose:
— Nulla.
— Sta male?
— Chi?
— Ma... Giorgio...
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