La vita comincia domani: romanzo - 01

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GUIDO DA VERONA

LA VITA COMINCIA DOMANI
ROMANZO

_Ottava Edizione — Dal 106º al 155º Migliaio_

R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI — FIRENZE

MCMXX
————
PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
paesi

Stab. Tipo Lit. FED. SACCHETTI & C. — MILANO — Via Zecca Vecchia, 7
————


I

Nella grande loggia vetrata che si apriva a pianterreno della villa
verso il giardino fiorito Maria Dora entrò, più fresca e più gioconda
che la primavera, portando sopra un vassoio d’argento le chicchere del
caffè mattutino. Da un braccio le pendeva ripiegata una lunga tovaglia
di colore; coi denti umidi mordeva il gambo d’una rosa, vermiglia come
la sua bocca.
Era mattina di primavera, limpida e gaia, con profumi d’oleandri che si
mettevano in fiore. Stormi di rondini, balenanti nell’azzurrità come
turbini di api nere, assalivan la grondaia sovraccarica di nidi e sì
l’accerchiavano coi loro spessi voli, che l’aria, tra quel saettamento,
pareva tingersi d’un color di nuvolato nella fiamma del mattino.
Maria Dora trascinò verso il mezzo del colonnato una piccola tavola in
vermena di vinco, e, spiegata la tovaglia, cantarellando cominciò ad
apparecchiare. Suo padre, Stefano, in giacca di frustagno, ritto sul
margine d’un’aiuola discuteva gesticolando con il fattore Mattia.
Una doppia scalinata di cinque gradini scendeva da un lato e dall’altro
della veranda pianamente nel giardino; su la duplice balaustrata e lungo
il davanzale invetriato correva una spalliera di geranio rampicante,
che, salito per lo zoccolo del muro, lanciava in alto come un’ondata la
straordinaria sua fioritura, poi, curvandosi, buttava sino a terra un
magnifico mantello di broccato, colmo nelle sue pieghe d’innumerevoli
fiori; leggeri alcuni e tenui come arabeschi di filigrana, che li moveva
il più sommesso vento, altri così grevi e soffici che ricadevano per il
soverchio peso, come fiori tramati in una stoffa o ritagliati a forbici
nella foltezza di un meraviglioso velluto.
Questa grande spalliera di gerani era l’amore e l’orgoglio di papà
Stefano, che vi prodigava tutte le sue cure.
Dallo sterrato innanzi alla casa il viale, sparso di ghiaia, si cacciava
senza nascondersi entro un piccolo bosco di bambù; snodava le sue curve
tortuose per il pendìo dei giardino, poi, rompendo fuori da una macchia
d’alberi e fiancheggiandosi d’un pergolato, scendeva diritto al cancello
verso la strada campestre.
Rapidamente, con le sue mani svelte, la fanciulla ordinò le chicchere
sul tavolino. Da poco erasi levata in quel mattino ilare; aveva indosso
un buon odore d’acqua di lavanda e di cipria fina; i capelli dorati le
splendevano della recente acconciatura; portava una gonnella corta con
sopra un bel grembiule merlettato.
Seduto in un angolo della loggia, il suo fratello più che ventenne,
Marcuccio lo scemo, scriveva a matita velocemente, con una specie di
frenesia, tenendo il quaderno su le ginocchia sollevate e standovi sopra
curvo, in attitudine di gran fatica. Un passo lontano da lui, sovra una
seggiola di paglia, era il suo logoro violino e v’erano i suoi grossi
gomitoli di lana, coi ferri da calza, poichè scrivendo, sonando e
facendo la calza egli occupava la monotonia delle sue lunghe giornate.
— Uh!... Marcuccio, come lavori!... — fece Maria Dora, guardandolo. Ma
lo scemo, lunatico, scrollò le spalle e non rispose.
Ora nel giardino papà Stefano redarguiva con voce burbera il fattore;
questi l’ascoltava pieno di rispetto, ma insieme con quella cert’aria
cocciuta e ironica che sanno avere i contadini.
— Insomma, vi dico, Mattia, che se Giannozzo ha rotto l’aratro, è lui
che se lo deve pagare. Il contratto colonico parla chiaro: danni di
cascinali e d’attrezzi a carico dell’affittuario. Io non so nulla! Ha
firmato... non doveva firmare.
Maria Dora, che l’ascoltava dal loggiato, ruppe in un trillo di riso.
Stefano si volse:
— Che hai tu, farfallina?
La fanciulla battè insieme le mani, quasi per dileggiarlo, e scappò via.
Stefano concluse:
— Dunque non voglio saper nulla! Ditelo chiaro e tondo a Giannozzo da
parte mia.
— Va bene, signor Stefano, lo dirò... solamente...
— Solamente cosa? Che altro c’è ancora?
— C’è questo: Giannozzo dice che, se lei rifiuta, vorrebbe allora
parlarne con suo genero, con il signor Giorgio direttamente...
— Ah, sì? — l’interruppe Stefano gonfiandosi di sdegno. — Cosa vuol dire
questo «direttamente?»
Nell’agitarsi diede un calcio all’annaffiatoio, che aveva presso e lo
capovolse. Poi alzò la voce:
— Chi comanda qui sono io! Lo sappia Giannozzo e sappiatelo anche voi:
chi comanda sono io!
— Benissimo, signor Stefano, — costui rispose con molta umiltà.
Dunque andate alla cascina e dite a Giannozzo che se l’aratro è rotto...
in qualche modo si provvederà. Non faccio alcuna promessa,
intendiamoci!... Ma dico soltanto che bene o male si provvederà.
Stefano gli volse le spalle, scese alla vasca, riempì l’annaffiatoio, e
tornato verso la spalliera di gerani, cantarellando ne mondava i fiori.
— Uh, la la... dormono ancora tutti come talpe stamattina! In questa
casa si dorme come talpe... la... la... come talpe... uh, la la... E
Giorgio sempre peggio! Voglia il cielo ch’io m’inganni, ma vedo che se
ne va... uh, la la...
Maria Dora saltò fuori dai loggiato:
— Che avevi, papà, da gridar tanto?
— Ah, sei qui fanfaluca? — Poi le mostrò l’orologio: — Sai che ore sono?
— Quasi le otto, papà.
— Appunto, — egli rispose, contraffacendo la sua vocina: — Quasi le
otto! le otto meno cinque minuti, e non c’è nulla di pronto ancora!
Poi salì verso il loggiato:
— Ogni giorno ci si leva più tardi, eh? Si prendono tutti i vizi, quando
si esce dal convento!
Maria Dora gli si avvicinò, smorfiosa come una piccola bimba, la quale
non temesse tuttavia quel suo padre accigliato.
— Benissimo!... vediamo un po’: grembiuli di pizzo, ricciolini...
cipria!... scommetto che ti dai anche la cipria!
Maria Dora gli tese la guancia, ma tenendosi un po’ discosta per non
lasciarsi toccare:
— No, papà; guarda: è naturale...
Ed egli minaccioso:
— Bada che se ti scopro, sai!... La cipria è la farina del diavolo. E
poi si diventa curiose anche! Si vuol mettere il nasino dappertutto! Si
vuol sapere perchè gridavo con Mattia... Fra poco la padrona della casa
sarai tu.
— Oh, io lo so perchè gridavi! Per l’aratro di Giannozzo... Io l’ho
veduto: è tutto guasto. Compragli un altro aratro, papà, al povero
Giannozzo!
— Tu mischiati de’ tuoi libri e delle tue matasse! Queste cose non sono
per te. Ora chiama Novella e vedi se la mamma s’è levata.
— La mamma è in cucina che sorveglia il caffè, se no la Berta,
scioccona, lo lascia versare. Novella prendeva il bagno poco fa. Ma c’è
uno che dormirebbe, e come dormirebbe! se non l’avessi svegliato io.
Ella si prese fra le dita i due lembi del grembiulino e fece una piccola
riverenza:
— Voglio dire Andrea... il professor Andrea!... il signor Andrea, l’uomo
celebre!
— Ah, e tu l’hai svegliato?
— Almeno suppongo; perchè sono passata cinque o sei volte nel corridoio,
davanti alla sua camera, cantando a squarciagola. Poi ho anche
picchiato, poi ho anche messo la testa dentro... — soggiunse con un atto
di pudore.
— Oh, pettegola e svergognata! — esclamò il padre, nascondendo nella
minaccia un sorriso. — Pettegola e svergognata! Dunque tu metti la testa
nelle camere dei giovinotti?
— Bah... i giovinotti! — ella interruppe, con una specie di
commiserazione. — Avrà quarant’anni!
— Trentasei o trentasette, signorina; non più.
— Ma è brutto!... non ti sembra, papà, che sia molto brutto? — interrogò
Maria Dora, con l’aria di non crederlo affatto. Poi, sogguardando con
civetteria dal volto chinato:
— È vero — domandò con una voce piena d’insidie, — è vero che tu e la
mamma vorreste darmelo per marito?
Il padre, con uno scatto, si guardò intorno esclamando:
— Silenzio! Cosa dici mai!
Seduto in un angolo del loggiato, il suo fratello Marcuccio scriveva,
scriveva.
— Cosa dici mai? Fa che Andrea ti senta! Non è vero, signorina; non è
affatto vero! Chi può pensare che un uomo come Andrea, un uomo serio,
uno scienziato di così gran nome, voglia sposare una pettegola come te?
Non farti nemmeno sentire a dir queste sciocchezze!
Maria Dora piano piano si carezzava il grembiulino, il bel grembiule
merlettato che le stava così bene.
— Oh, io, per esser chiari, gliel’ho già detto: sa, signor Andrea?
vogliono che lei mi sposi... Le piaccio?
— Guarda mo’! — fece il padre inorridito. E lui?
— Lui ha riso... con quegli occhiacci di gatto notturno che mi fanno
paura.
— Ha riso? Bene ti sta!
— Ha riso, ma non ha detto nè sì, nè no... Del resto chi può vantarsi di
conoscere quell’uomo? Quando mi guarda ho voglia di scappare. Ma non
posso. Anche Mattia dice che ha gli occhi magnetici.
— Mattia è uno scemo.
— Poi, — riprese Maria Dora, senza badargli, — questo grande scienziato
è anche un asino, mi pare. Séguita a curar Giorgio, e Giorgio deperisce
a vista d’occhio. Novella è rimasta in piedi l’intera notte... povera
Novella!
— E ti ricordi che uomo era quando sposò tua sorella?
— Ha sempre tossito, papà; questo me lo ricordo.
— Basta! — fece con un sospiro il padre; — se Dio vuole così...
Poi si volse a guardar lo scemo:
— E tu, Marcuccio, che fai?
— Mio fratello è molto occupato! Non lo disturbare.
— Vespa!... — le gridò il padre, con un gesto come per iscacciarla.
— Ora Marcuccio ne ha trovata una fresca, — riprese Maria Dora. Ogni
volta che vede Novella, si mette a ridere e le canticchia sottovoce: Ti
ricordi? ti ricordi, sorelluccia, com’erano belle le margherite? — Cosa
voglia poi dire, Dio lo sa!
Papà Stefano scosse il capo con maggiore tristezza e volse uno sguardo
compassionevole sopra il suo figlio scemo.
Era giovinetto, nel pieno vigore dell’adolescenza, ricco di mirabile
ingegno, dedito a studî profondi, appassionato cultore di lettere,
musicista oltremodo virtuoso, quando una malattia cerebrale, repentina e
violenta, lo ridusse in fin di vita. Guaritone, quasi per un triste
prodigio, dell’antico intelletto non gli restò che un barlume fioco, fra
le tenebre dell’idiozia.
Or camminava solitario, di camera in camera, nella casa paterna, sempre
operoso ed inquieto, come se non potesse rubare un attimo alle urgenti
sue fatiche. Era d’alta statura, un po’ sbilenco, e gli pesava sopra le
spalle cadenti un enorme cranio rotondo, coperto d’una specie di vello
rossastro, qua folto e là rado, che lasciava intorno ai padiglioni
dell’orecchie un cerchio di calvizie lucente. Atona e d’un color terreo
la faccia imberbe, con occhi rotondi, senza ciglia, un po’ gonfi, un po’
malvagi, aveva la bocca larga, tumida, che per lo più rideva, d’un riso
privo di giocondità, discorde come la nota falsa d’uno strumento
logorato.
Gli era nella sua demenza rimasto quel desiderio di gloria che accende
alle grandi opere gli intelletti sani, e si reputava per uomo illustre,
invaso com’era da una mania di celebrità.
Filosofo pensatore, poeta, affastellava senza requie l’una su l’altra
grandi pagine cariche di stramberie: aveva nel suo stato demente
conservata la mania del capolavoro. Poi, quando il suo cervello era
stanco di questa operosa fatica, trattosi da una tasca del suo giubbone
il gomitolo di lana, cominciava con una pazienza da monaca ad
intrecciare il punto a calza. E ne faceva di lunghe striscie,
interminabili, disuguali, come se in quella ruvida lana tessuta
raccontasse una storia di sè, una lunga storia tormentosa ed inutile,
senza principio e senza fine, per gli ebeti come lui...
Talvolta, nell’ore di maggior lucentezza, quando una fiamma di lirismo
traversava il suo povero spirito rabbuiato, o quando più forte pulsavan
nella sua carne d’adolescente l’arterie della vita, quando
inconsciamente vedeva succedere intorno a sè qualcosa d’insolito, e gli
altri o goderne o soffrirne, allora una memoria lontana delle sue
musiche dimenticate gli si ridestava nell’attonito cuore, nel vacuo
cervello, come se la sola voce che potesse ancor metterlo in comunione
con le cose fuggenti, con l’enigma dell’anime altrui, fosse la parola
musicata, il trillo della corda sonora, la nota limpida che gli sgorgava
sotto l’archetto, che si rompeva bruscamente in una sciocca risata...
E incominciava, sul logoro violino, standovi sopra quasi convulso, ad
eseguire una Canzone; la sola che rammentasse fra le musiche un tempo a
lui familiari, unica melodia sopravvissuta nella sua morte interiore.

Così pareva che dicesse la sua tetra Canzone:
«Io sono il funerale d’un pover’uomo, — che è morto di
malinconia;
«non c’è nessuno che dica un requiem per l’anima mia...
«Non c’è nessuno che mi tessa — una ghirlanda con le sue mani...
«Ahimè!... la campana del Tempo — non dice che «ieri» e
«domani».

«Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va?
«Lo scheletro ride e risponde: — Lontano, lontano, chissà...

«Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di
morti, portando il mio scheletro su la schiena;
«coi piedi mi batte i ginocchi, — mi stringe il collo con le
mani:
«Cammina!... — mi dice ridendo, — la vita comincia domani.»

«Io sono il funerale d’un pover’uomo, — che è morto di
nevrastenia;
«non c’è nessuno che mi pianga: neanche l’anima mia...
«Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va?
«Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome l’inutilità.»

«Io sono il fiume senza sorgente, che scorro solo per
confondermi nel mare, nel mare, inutilmente...

«Se corri, — mi dice, — si arriva stasera o domani mattina...
«Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina!

«— Sei stato a una festa da ballo, — mi dice, — con lei che
ballava
«leggera, frusciante, leggera, — vestita, pareva, di biondo...
«Perchè, — se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto ballare nel
mondo?

«Io sono il funerale d’un pover’uomo, che è morto di
misantropia...

«— Sei stato in un letto, odoroso, — con lei che giaceva supina,
«tremante, sperduta, tremante, — nel solco del letto profondo...
«Perchè, — se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto tremare nel
mondo?

«Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di
morti, — e vado a cercare altri morti, che sono i miei figli
lontani...
«Cammina: la vita comincia
domani, domani, domani...
Così diceva, o pareva dicesse, la Canzone Disperata sul violino
singhiozzante dello scemo.

— E tu, Marcuccio, che fai? — domandò il padre, dopo averlo guardato
lungamente. Marcuccio, infastidito levò il capo dal quaderno con un riso
attonito.
— Ah!... ah!... buon giorno babbo; che vuoi da me?
Parlava con una voce opaca, lenta, come se facesse uno sforzo mentale
per trovare le frasi necessarie; nel parlare non variava mai tono,
cuciva insieme le sillabe senza inflettere la voce, senza mutare lo
sguardo vitreo.
— Che vuoi da me? Non si può mai aver pace in questa casa! Mi si
disturba. Ed io non posso perder tempo. Il professore Andrea Ferento mi
ha domandato i miei manoscritti per farli pubblicare in città.
Il padre gli battè amichevolmente una mano su la spalla:
— Da bravo, Marcuccio, vieni a goderti un po’ di sole.
— Non ho tempo, ti dico; debbo terminare un capitolo.
— Mettiti almeno più presso alla vetrata; lì, nel tuo cantuccio non v’è
aria. Al mattino fa bene respirare. E tu, — disse a Maria Dora, —
aiùtalo, zucconcella! Prendi quella sedia senza far cadere nulla.
Non appena la sorella fece per ubbidire, e pose la mano sul violino, lo
scemo si levò di scatto, iracondo:
— Non toccare, sorellastra! Faccio da me.
— Càspita!... — esclamò la fanciulla, per celiare di quella bizza. E si
stropicciò le dita nel grembiulino come se avesse toccato qualcosa di
rovente.
Poi disse al fratello, per divertirsi:
— Marcuccio, come ti chiami tu?
Egli la fissò un momento, stando ritto su la persona dinoccolata:
— Io? Mi chiamo il professor Marcuccio; Marcuccio Landi, per bacco!
professore d’Università.
E la sorella:
— Bravo, Marcuccio; siedi e lavora. To’, lasci cadere il tuo gomitolo...
E perchè fai la calza se sei un professore?
— Eh!... certo! quando penso... certo! quando medito faccio la calza...
eh!... eh!... Tutti i grandi uomini hanno le proprie fissazioni.
— Maria Dora, lascialo stare, — disse il padre, rattristato.
Ed ecco si udì per la sala terrena il passo ancor veloce di mamma
Francesca, la quale apparve sul loggiato, e riparandosi gli occhi dal
sole disse: — Buon giorno, bambina!
— Buon dì! — rispose Maria Dora. Poi le corse in braccio, le saltò al
collo: — Buon dì!
— Birichina, — comandò il padre, — vammi a prendere la pipa, ora.
Ella corse via con un bel ridere, saltellando.
— Quella piccina è come una coditremola: non sta ferma un momento! —
esclamò Stefano.
— Beata lei! Ci mette addosso un poco d’allegria... Che sarebbe la
nostra casa ormai, se non udissimo lei cantare?
— E Giorgio come sta?
— Male stamane.
— Si leva?
— Ha detto di volersi levare, ma tuttavia sta male.
Allora Stefano s’avvicinò alla moglie con un certo impaccio, e fattosi
grave le domandò sottovoce:
— Dimmi un po’, Francesca... è una domanda bizzarra che ti faccio, ma
rispondimi con sincerità... Non hai notato nulla, proprio nulla, da
qualche tempo?
— Di cosa? di Giorgio?
— No di Novella.
Mamma Francesca s’impaurì di quella domanda, e chinato il viso pallido
sotto la corona dei suoi lisci capelli bianchi, mormorò con un fil di
voce:
— Che vuoi dire?
— Non hai notato nulla in questi ultimi tempi... in lei, ne’ suoi modi,
nel suo umore? Un cambiamento? qualcosa di buio, di nascosto... nulla?
— Ah, vuoi dire... ma, certo, è preoccupata del marito.
— No, appunto no!... cioè, sì, è preoccupata... certo è preoccupata di
lui anche, ma non solo di lui...
— E allora?... — domandò con timidezza la madre.
— Rifletti bene, Francesca... e specialmente quando viene Andrea... nei
giorni ch’egli abita qui...
— Stefano! per l’amor di Dio!
— Non ti spaventare; faccio una domanda; posso bene ingannarmi. Noi
vecchi si osserva molto, e volevo sapere se non hai proprio notato
nulla, anche tu...
— Ma sì, qualcosa...
— Sst!.!.. c’è Dora.
— Ecco la pipa! — ella esclamò entrando. — La tua preziosa pipa! È nera
e puzza come concime... Brrh!... adesso vado a sciacquarmi le mani.
E di nuovo scappò via farfalleggiando, vivida come uno zampillo di
fontana. In quel mentre apparve sul loggiato la sua dissimile sorella,
ravvolta nel chiarore del mattino che l’adornava come un bel manto.
Ferma sul limitare, si compresse le due mani al petto esclamando: — Che
notte! Mio Dio, che notte!
La sua bellezza era turbata e turbava, quasichè nel guardarla, od anche
nel passarle vicino, accadesse per una colpa involontaria di pensare
alla sua nudità. Non era bella soltanto, ma polverosa di lussuria come
di pòlline un fiore, immersa e vivente nel cerchio d’una atmosfera
sensuale, percorsa dalla propria bellezza come da un brivido di piacere
che lentamente le invadesse ogni vena.
Il suo corpo sembrava tendersi naturalmente all’atto voluttuoso
dell’amore; ogni movimento la denudava un poco, il gesto più lieve delle
sue mani pareva incominciasse una carezza: negli occhi aveva quel colore
indefinibile che nasce dal godimento, nella voce soave alcune di quelle
inflessioni torbide che sono il respiro più profondo e più sommesso
della voluttà.
La capigliatura soverchia, d’un colore tra il fulvo ed il castano, le
oscurava e raggiava la fronte, ravvolgendosi poi senz’artificio in un
viluppo voluminoso, che talvolta la costringeva, quasi l’affaticasse, a
piegare indietro la testa, con un moto soavissimo, nel quale appariva
scoperta come una limpida nudità la gola bianca. I suoi capelli eran
pieni d’un’ombra luminosa, d’un foco buio, quasi avessero due luci, come
le foglie dei tralci vendemmiati, quando, asperse di rugiada mattutina,
brillano, d’autunno, al sole.
Ella disse ancora: — Che notte! Giorgio è stato male. Fino alle quattro
non ha chiuso occhio; poi, nel sonno, delirava. Non sapendo più che
fare, ho chiamato Andrea... Mamma mia, che notte!
Era vestita con eleganza, di tutte cose finissime, che forse, in quella
semplicità campestre, parevano assai ricercate.
— Figlia mia, — disse la madre, — ti stanchi troppo... Finirai con
ammalarti anche tu. Prendiamo dunque una infermiera.
— No; Giorgio non la vuole. Non vuole altri che me, poi si dispera se mi
vede affaticata. Dice che debbo vivere, perchè son giovine ancora,
mentre a lui non resta che morire... Oh, le cose che dice la notte,
quando siamo soli... — Fece una pausa, e con un atto quasi religioso
incrociò le mani aperte al sommo del petto, presso la gola, che un
respiro turgido sollevava. — Ora, — soggiunse, — discenderà. Ma non
ditegli nulla, vi prego, perchè non vuole si sappia quando sta male.
Poi camminò verso l’invetriata e si sporse, guardando nel mattino
chiaro, verso le cose libere, che vivevan splendenti nella beatitudine
del sole; tese le braccia con un atto fervido, esclamando: — Che bel
sole! che bella primavera! Non vai a caccia, papà?
— Aspetto Maurizio. Stamattina è in ritardo.
Allora ella si volse a Marcuccio:
— E tu, Marcuccio, lavori?
— Certo, scrivo. Non sono uno sfaccendato come voi. Lavoro e scrivo
tutto il giorno, come il professore Andrea Ferento.
— Bravo, Marcuccio, — disse Novella mansuetamente; — allora non ti
disturberò.
Lo scemo riprese la pagina interrotta. Ma poi, di sùbito, volse il capo
verso la sorella con un riso ebete:
— Sorelluccia... — esclamò.
— Che vuoi?
— Ti ricordi?
— Di che?
Allora egli mise nella voce un’inflessione ambigua:
— Sorelluccia, ti ricordi... com’erano belle, belle... sorelluccia... le
margherite!
Novella, con un piccolo fremito, guardò rapidamente il padre, la madre,
silenziosi, mentre lo scemo rideva, rideva.
— Non so cosa vuoi dire con queste tue margherite! — rispose, un po’
aspra, riaffacciandosi alla vetrata. Poi d’un tratto esclamò:
— Ecco Maurizio!
— Le margherite... le margherite... — cantilenava lo scemo.
Frattanto Maurizio aveva rinchiuso il cancello e saliva per un vialetto,
in giubba da cacciatore, con schioppo e cartuccera, tenendo due bracchi
al guinzaglio. Era un giovine di men che trent’anni, d’alta corporatura,
nodoso, erto, con la faccia riarsa dal sole, bello e ruvido nella sua
forza. Quando giunse a’ piè della scalinata, si tolse il cappello di
feltro:
— Buon giorno a tutti! Se avete una tazza di caffè la prendo con
piacere.
— Per voi sempre, — gli rispose mamma Francesca. — Ma lasciate fuori i
cani, perchè Marcuccio non li vuol vedere.
— I cani?... i cani!... dove sono i cani?... — gridò lo scemo, balzando
in piedi spaventato, poi raccogliendo in fretta quaderni e gomitoli. —
Via i cani!... — urlava battendo i piedi. — Non voglio cani! Puzzano,
mordono... Eccoli là... Via i cani! Puzzano, mordono... — Scappò
timoroso verso la sala: — Via i cani!
Allora Maurizio, tirando i bracchi per il guinzaglio, mentre abbaiavano,
girò dietro la casa per legarli ad un’inferriata.
— Ecco, son via, — disse mamma Francesca. — Vieni, Marcuccio; càlmati;
non ci sono più: vieni.
Lo scemo si affacciò timoroso al limitare della sala e guatò in giro:
— Non si può lavorare! Anche i cani!... Son come le iene... Vogliono il
cadavere, i cani... Via i cani!
E scalciava nel vuoto come se lo assalissero per intorno, feroci,
abbaianti; finchè, piano, piano, strisciando a ritroso, di nuovo si
rifugiò nel suo cantuccio.
— Badate, Maurizio... — ammonì Francesca, vedendogli posar lo schioppo
in un angolo del loggiato.
— Non abbiate paura: ho tutte le cariche nella cartuccera, — egli
rispose, battendosi la mano su l’ampia cintola. — E Giorgio come va?
— Lo stesso, o peggio, — Stefano rispose.
— Malinconie! — disse il giovinotto crollando il capo. — Malinconie! —
Poi si fece animo e riprese il tono gioviale: — Sono in giro dalle
cinque senza sparare un buon colpo. Ho tirato ad una lepre, ma i cani
l’hanno mancata.
— Tanto meglio; vuol dire che rimarrà per me.
Entrò Maria Dora come un soffio di vento:
— Oh, l’indiano!
Lo chiamava così per il suo colorito scuro e per quell’aria di brigante
che gli davan l’uose, la cartuccera, la giubba di frustagno.
— Servitor suo, signorina, — mormorò il giovinotto, un po’ confuso.
— La Berta dice che il caffè bolle, ma non si vedono ancora nè Andrea nè
Giorgio, — ella disse, facendo una smorfia con il musetto a quel
ragazzone saldo e ruvido come un montanaro, che si era levato in piedi.
— Non dovevate aspettarmi, — rispose Giorgio, entrando nel loggiato a
passi un poco barcollanti e con le spalle ravvolte in uno scialle di
lana. — Ordinate pure il caffè, mia bella cognatina; sono in ritardo e
vi domando scusa.
— Che scuse! neanche per sogno! — esclamò Stefano gaiamente. — Vedo che
l’umore è buono, la cera discreta, e questo è l’essenziale.
Il buon vecchio mentiva pietosamente per infondere in quel triste malato
un poco d’allegria. Giorgio rispose con un gesto vago, e sedette nella
poltrona di vimini foderata di cuscini, che Novella in quel mentre aveva
sospinta verso di lui. Ora, senza farne le viste, ognuno guardava
curiosamente l’infermo. Egli s’accorse di quell’esame dissimulato, ed un
senso di molestia, quasi di pudore, gli alterò i lineamenti. Quel suo
viso era emaciato, ma pieno di chiarore, quasi lo rendesse vivido la
continua febbre. Una rada barba biondiccia gl’incorniciava il mento;
aveva gli occhi dolci e smarriti, una bella capigliatura, dove l’umido
solco della spazzola aveva lasciata una traccia brillante. Il colletto
era troppo largo per il suo collo esile, ridotto a mostrare la sua
tramatura di tendini come un cànapo consunto, e nello sforzo continuo
del reprimere la tosse le vene flaccide si gonfiavano con un livido
colore d’apoplessia.
— Vuoi un altro scialle? — disse amorevolmente Francesca.
— Grazie, sono coperto abbastanza; non ho freddo; grazie.
Gli dava noia che si occupassero di lui, che avessero tante cure della
sua salute; per il che cercava in mille guise di sviare il discorso.
— Ecco l’ultimo!... — esclamò, vedendo entrare il Ferento. — Speriamo
che la Berta non abbia lasciato versare il caffè. Quella Berta è tanto
sciocca!
E rideva, ma d’un riso così artificiale, ch’era pietà udirlo. Andrea gli
battè una mano su la spalla:
— Come ti senti?
— Bene; quasi bene.
— È primavera, — disse Andrea per dargli animo; — torna la gioventù!
— Poeta!... — esclamò lievemente Maria Dora, con un ironico sospiro.
— Se lei me lo permette, signorina... — egli disse ridendo.
Andrea Ferento era tale a vedersi, che il suo primo aspetto muoveva in
chi lo guardasse una subitanea curiosità, un involontario timore. Egli
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