La vita comincia domani: romanzo - 20

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l’infierire della battaglia ed il termine della gravidanza non avessero
persuaso il Ferento a separarsi da lei, rendendola in grembo alla sua
famiglia. Era d’altronde necessario che tutti venissero in città per
coadiuvarlo nella sua difesa: e da poco erano arrivati, quand’egli
sopraggiunse nella casa del Fiesco. Entrò rapidamente, senza lasciare il
tempo d’essere annunziato.
Eran tutti raccolti nella grande sala, ove i divani e le seggiole,
custoditi sotto fodere di tela greggia, diffondevano in quella fredda
casa un senso di antica disabitazione. Nel vedere il Ferento, sorsero in
piedi con uno scatto involontario, come se ognuno avesse preferito in
quell’attimo non trovarsi viso a viso con lui.
Marcuccio, ch’era d’umor pessimo per la fatica e la novità del viaggio,
se ne stava seduto sul bracciuolo d’una poltrona, con un piede
accavallato su l’altro ginocchio, e oziosamente si strofinava le unghie
contro la suola polverosa. Non súbito lo riconobbe; ma, dopo averlo ben
fissato, incominciò a ridere, a ridere, chissà per qual ragione.
Andrea guardò Novella, ch’era lì, seduta; guardò il suo cappello da
vedova posato accanto a lei sopra un tavolino, guardò la sua giovine
sorella, che le stava presso, ritta in piedi, e quasi la vigilava
tenendo una mano appoggiata sul pizzo nero che ricopriva la sua
scollatura.
Dall’infocato tramonto veniva una luce soverchia, nella quale tutte le
fisionomie parevano colorarsi d’una vampa. Essi a lor volta lo
fissarono, e lo videro quale non era stato mai, con tutta la sua forza
raccolta nel viso, eppure stanco. Una ruga profonda, incisa fra i
sopraccigli, duramente spartiva la sua fronte; una specie di ostinato
sarcasmo gli armava la mascella dura.
Egli li guardò come nemici, tutti insieme, senza fissare i suoi occhi
negli occhi di nessuno; poi disse:
— Benvenuti; era tempo che foste qui.
Novella prese la mano di Maria Dora e se ne coverse le palpebre
affaticate, con una specie di affettuosa voluttà; insieme le carezzava
il dorso della piccola mano, lentamente, soavemente, facendo scorrere le
dita fin sopra il suo polso pieghevole. Ma la fanciulla, con il capo
incline all’indietro, nel cerchio di luce dorata, pareva insensibile a
quella carezza, insensibile a tutto quanto accadeva intorno a lei,
tranne a quella specie di suggestione dolorosa che le produceva
l’aspetto di Andrea Ferento; gli occhi le si empivano di maraviglia, una
specie di latente paura stringeva il suo cuore di fanciulla.
Andrea s’avvicinò al vecchio Stefano e con forza gli prese una mano, con
forza la tenne chiusa fra i suoi palmi, come per impadronirsi nel
medesimo tempo della sua docile volontà.
Il vecchio lo guardava perplessamente, senza trovar parole, con una
specie d’angustia, con un visibile impaccio, ch’egli stesso avrebbe
voluto poter nascondere.
— Voi sapete ogni cosa, è vero? — disse il Ferento, con una voce opaca e
piena tuttavia d’una concitazione mal dominata. Egli sentiva per istinto
che c’era in quegli animi una ostilità involontaria contro di lui;
quella medesima ostilità che ormai gli pareva d’incontrare dappertutto,
più sensibile ancora fra le persone che l’amavano. Talvolta gli era
sembrato perfino d’accorgersi che questo senso vago d’ambiguità
penetrasse, come un sottile brivido, negli abbandoni voluttuosi
dell’amante.
Ma egli non veniva per difendersi; era spaventosamente calmo,
spaventosamente risoluto ad ascendere, senza un attimo di pavidità, fino
all’ultima pietra del suo calvario. Adesso eran giorni di battaglia; si
trovava sul terreno di combattimento, non rimaneva per lui che una sola
necessità: vincere.
Egli abbandonò allora la mano di Stefano, ma intrecciò insieme le sue
proprie dita, e le torse con ira, sorridendo per il dolore che ne provò.
Poi disse:
— Vi ho pregato di venire in città perchè Novella non poteva più a lungo
rimaner sola, nè rimanere con me. Inoltre avevo qualcosa da comunicarvi,
ed è per questo che ora son venuto.
Parlava a scatti, con la voce un poco ansante, passandosi tratto tratto
una mano su la fronte.
— Fra pochi giorni tornerò ad essere l’uomo di prima. Se ne dubitate
anche voi... poco importa!
— No... — volle dire Stefano. Ma egli lo interruppe con sarcasmo:
— Poco importa! Sono avvezzo a difendermi e sono avvezzo anche a vincere
nella vita. Ma, davanti ad una simile accusa, ero del tutto impreparato.
Sono stati più abili di me, finora; ma i conti li faremo in ultimo.
Benchè ferito alle spalle, ho fiato ancora per combattere, come si
vedrà. Intanto, non per giustificare me stesso, ma per tranquillare voi,
sappiate che nessun perito al mondo potrà mai scoprire nel cadavere di
Giorgio Fiesco una traccia qualsiasi di veleni, se non tali e quanti
ogni medico adopera necessariamente nelle sue medicine.
Egli fece una dura pausa, e considerò sorridendo l’espressione dei lor
volti, che parevano rischiararsi davanti alla fermezza delle sue parole.
— Ma poichè non voglio difendermi, e poichè son pronto a mostrarvi che
non ho bisogno di difendermi, sappiate ancor questo: — la scienza, ve lo
dice un medico, può facilmente uccidere senza che un perito se n’avveda.
In altre parole, vi sono veleni che non lasciano traccia. Così, almeno
fra voi, chi mi vuol credere innocente avrà la compiacenza di farlo
senza che io gliene fornisca la prova.
Nella pausa che intervenne, ricominciò a singhiozzare la risata
gutturale dello scemo, che ora si batteva le unghie raggruppate contro
la suola delle scarpe.
Il Ferento lo guardò con attenzione, poi esclamò, con un’alzata di
spalle:
— Sì, Marcuccio... hai ben ragione di ridere! Poichè tutti quanti non
siamo che istrioni, costretti a fingere una grottesca parte nella
commedia della vita, ove tu solo forse riesci ad essere uno spettatore
veramente imparziale!...
Diceva queste parole quasi a sè stesso, mentre un moto nervoso contraeva
la ruga diritta ch’era incisa nel mezzo della sua fronte. Poi si volse,
parve d’improvviso vincere una titubanza estrema, si recò dietro la
spalliera della poltrona dove Novella era seduta, e con dolcezza, con
una dolcezza così grande che lo mutava in modo singolare, posò le due
mani aperte sovra le spalle dell’amante.
Ella si scosse, rovesciò leggermente il capo all’indietro, per guardarlo
negli occhi, mentre sorpresa ed impaurita la sorella si ritraeva. Egli
di lei non s’avvide; ma la sua fisionomia, che appariva distinta nel
fascio di luce crepuscolare, sembrò aggravarsi d’una passione che la
stancava, che scioglieva i suoi nervi contratti in una specie di
faticoso allentamento. Dal cuore gli saliva una ondata buona, e questo
era visibile, come se l’amore che aveva per lei fosse una luce d’anima
che gli splendesse all’intorno, per avvolgerli entrambi nella medesima
tristezza, nella medesima infinita voluttà, ove sentivano d’essere uniti
al di sopra di tutte le pene, al di sopra di tutti gli ostacoli che
vanamente la vita e la morte frapponevano al lor colpevole amore.
Allora egli guardò ad una ad una l’altre persone, poi disse lentamente:
— Volevo confessarvi una cosa... Novella è mia, mia da lungo tempo, mia
fin da prima ch’egli morisse... Questo è innegabilmente vero.
Ella restò con gli occhi spalancati, ferma, percorsa da un interiore
brivido; gli altri tacquero. Solamente la fanciulla si raccolse fra le
dita contratte la stoffa della camicetta, e fece qualche passo
all’indietro, barcollando, con un visibile tremito.
— Sì, questo è vero, — egli confessò un’altra volta. — Ma era necessario
che io ve lo dicessi, perchè a dividerci non basterà nemmeno questa
grande sciagura. Vegliate sopra di lei, fin quando io non torni e vi
dica: — Ora vengo a riprenderla, poichè sono libero ed ho vinto!
Ella s’aggrappò con le due mani al suo polso che le posava sopra una
spalla, e contro vi poggiò la bocca, per nascondere insieme un
singhiozzo ed un bacio.


VII

Egli uscì tranquillamente da quella casa, e nulla fece per sottrarsi
alla vigilanza delle spie che seguivano i suoi passi.
Cadeva una bella serata quasi glauca su la città rumorosa; le strade
piene di movimento cominciavano ad imbiancarsi di chiarori elettrici. A
piedi percorse la distanza che lo separava dalla sua casa, evitando le
strade frequentate, facendo un più lungo giro, affinchè nessuno lo
riconoscesse nella crepuscolare ombra dei vicoli.
Camminava con gioia, velocemente, immergendosi nella sera come in un
bagno voluttuoso, ed una ilarità quasi perversa gli accelerava i battiti
del cuore. Si sentiva padrone della sua vittoria, misurava la vendetta
con una precisa e fredda crudeltà.
Ormai la bufera gli era passata sopra senza schiantarlo; anzi ne usciva
più forte, acceso di tutti i suoi spiriti battaglieri, pieno fino alla
gola d’una viva ebbrezza di combattimento. Aveva d’un tratto riafferrato
il comando della sua schiera; gli ubbidivano ancora senza riflettere,
con quella dedizione assoluta che inebbria i condottieri. L’avere
ucciso, l’esserne accusato pubblicamente, non gli pareva cosa bastevole
perchè la legge avesse forza contro di lui. Era così tirannicamente
sicuro del suo diritto sovrano, che non avrebbe mai teso i polsi alle
catene dei poteri sociali; non riconosceva nel mondo alcuna forza che
bastasse a limitare in un modo qualsiasi la sua magnifica e terribile
volontà.
Ma, se mai un tal giorno venisse, Andrea Ferento rifiuterebbe di
ubbidire. Non lo vedrebbero mai, seduto fra due sgherri, sul banco degli
accusati; mai elargirebbe quest’ora di trionfo all’ambizione d’un
Salvatore Donadei.
Rifiuterebbe l’obbedienza come un ribelle, come un sollevatore di folle,
come un re. Prima di poterlo ammanettare, bisognava combattere qualche
giornata di guerra civile; — in ultimo, non lo avrebbero che morto.
La legge che basta per dominare le piccole anarchie, non bastava per
lui: era un capo, aveva la sua milizia, pronta fino all’eccidio, darebbe
il segnale: si combatterebbe. Un odio furente lo accaniva contro tutti
coloro che avevan osato trattarlo come un uomo. Nell’ardore della
contesa, in lui si riaccendevano tutti gli istinti feroci ed imperiosi
che facevano di questo apostolo d’idee un selvaggio dominatore di
uomini.
D’altronde, in quella sera, egli sentiva che la battaglia stava per
esser vinta. I medici preposti alla necroscopìa eran tre uomini dei
quali conosceva tutti gli errori professionali, tutte le ambizioni
private, come un padrone conosce le pecche de’ suoi domestici; nè per
coscienza propria nè per istigazione d’altri, mai avrebber osato
accertare a suo danno la prova, ch’era d’altronde inaccertabile.
Ognuno sentiva oscuramente che Andrea Ferento non verrebbe tradotto in
Corte d’Assise, e quelli stessi che si cullavano in tale speranza, eran
tuttavia trattenuti dallo smascherarsi per tema della sua vendetta. Lo
sapevano potente, e sapevano che i potenti non sono mai soli.
Eppure, quanto numero di acerbe invidie non sentiva egli strisciare
dietro il suo passo tranquillo, pronte a sibilare, a mordere, quando
appena lo vedessero inginocchiato! Invidie non solo politiche, ma
professionali e private; subdoli rancori di uomini mediocri, ai quali
era passato dinanzi, troppo fulgido, nel cammino della vita, e che ora
speravano con silenziosa viltà di vederlo per sempre abbattuto nella
polvere.
Ben lo sapeva, ed era con un senso d’orgoglio intimo ch’egli sentiva
battere contro la sua dura forza questo impossente furore. Forse nella
sua Clinica stessa, nell’Ateneo medesimo dove insegnava, tutta una
rivalità che non poteva sperare di sorpassarlo altrimenti, era in attesa
del colpo mortale che lo ferisse in pieno cuore. Quanti Salvatore
Donadei, grandi o piccoli, non vivevano intorno al suo cerchio di
splendore, camuffati e silenziosi, fino al giorno in cui potessero
togliersi via la maschera!
Ma uno solo aveva osato per tutti. Aveva osato con un coraggio
inconsulto e precipitoso, giocando a sua volta una posta ben grave, per
un uomo com’era il Donadei, pieno di accortezza, di cautela e
d’impostura. La passione lo aveva sopraffatto; si era sentito sicuro di
poter guidare un assalto irresistibile, e senza timore alcuno aveva
bruciato i ponti dietro di sè.
Nel muovere questa guerra, egli contava senza dubbio su vaste
complicità, su poderose alleanze; ma era ugualmente fuor di dubbio che
l’estensore degli articoli firmati «Ergo» non aveva quasi nemmeno tenuto
conto di quella prudenza elementare, che sempre ágita davanti agli occhi
degli accusatori e dei polemisti gli articoli del Codice Penale intorno
alla diffamazione. Gettando il dado, Salvatore Donadei dava il suo
nemico per morto.
In verità s’era troppo affidato alle testimonianze del medico Paolieri e
di alcuni fra quelli che avevano veduto il cadavere del Fiesco. Era
forse rimasto così stupefatto di questa possibilità inattesa, che
l’aveva súbito accettata, non senza discuterla, ma parteggiando per
essa, ben certo che un’accusa di tal genere, o vera nei fatti, o
soltanto verisimile, dovesse riuscir bastevole a pugnalare in pieno
petto un uomo come Andrea Ferento.
Non aveva dunque troppo indugiato nell’esaminare se questi fosse
colpevole davvero; gli bastava che a rigor di legge una simile
colpevolezza potesse venirgli imputata; gli bastava di poter finalmente
radunare contro lui tutta l’ira della sua parte, trascinarlo giù
dall’altare, mettere alla gogna la sua storia d’amore.
Quell’uomo era stato il fantasma nero della sua vita. Salvatore Donadei
credeva di combattere per un’idea sua propria, mentre in verità non
faceva che combattere contro le idee dell’altro; supponeva di avere
un’ambizione sua propria, la quale non era nata invece che dal desiderio
di misurarsi con la potenza dell’altro; e sopra tutto l’odiava, perchè
il Ferento, invece di raccogliere la sua sfida, non si era mai curato
d’altro che di squassarlo da sè come un piccolo avversario importuno.
Con l’andar degli anni quest’odio aveva preso in lui così profonde
radici, che avrebbe dato la sua fede, il suo giornale, il suo denaro, e
perfino i suoi figli, per il piacere di calpestarlo senza remissione con
la sua fredda ira, come si tenta spegnere coi piedi la fiamma di una
lampada rovesciata. Giunta l’ora in cui tutto ciò gli parve possibile,
questo uomo cauto e pieno d’insidie si lasciò quasi ubbriacare dalla sua
crudele speranza.
Dal giorno in cui Tancredo ed il Metello eran venuti a proporgli quel
terribile mercato, egli non si era più concesso un attimo di pace. Aveva
tramato, congiurato, subornati o fatti subornare testimoni, s’era
accaparrato a forza di denaro una parte della stampa ed aveva messa in
opera tutta la sua potenza d’uomo politico, di giornalista, di capo d’un
numeroso partito, finchè suonata gli parve l’ora di dar fuoco alle
polveri e scatenare nella piazza la congiura tessuta nell’ombra.
E, se Andrea Ferento non fosse stato che un platonico banditore d’idee
od un eroico cercatore di verità, esiliatosi fuor dal mondo, costoro,
senza dubbio, per il lor numero e la potenza grande che ancora il
pregiudizio esercita sopra la terra, costoro lo avrebber vinto con
facilità. Ma in Andrea Ferento v’era un uomo altresì che amava la
potenza per sè stessa, v’era il partigiano accanito che sapeva l’arte
imperatoria del guidar le fazioni, e sapeva che al di sopra di tutte le
forze radunate in mano dei poteri sociali, v’è sempre stata e sempre
dominerà la violenza d’un uomo solo.
Oh, quanto nel suo spirito beffardo egli derideva coloro che si
aspettavano di veder lui, Andrea Ferento, semiconfesso e pavido sui
banchi d’una Corte d’Assise! Credevano dunque che per tanti anni egli
avesse investigata la materia invano? che per tanti anni avesse dalla
sua cattedra bandita l’ultima parola delle scienze positive, per doversi
ridurre, quando gli fosse mestieri sopprimere, ad iniettare nelle vene
della sua vittima qualcosa che tre chimici dozzinali potessero poi
raccogliere nei loro suggellati specilli? Ma no! ma no!... egli aveva
disciplinato il suo delitto come si disciplina un esperimento
scientifico, e la natura è ben più vasta che non suppongano gli sbadati
farmacisti o gli avvelenatori da suburbio che solo confidano sopra il
silenzio delle tombe. Non lui, che si chiamava Andrea Ferento, ch’era il
più dotto e prodigioso fra gli scienziati d’Europa, non lui che aveva
per giorni e settimane fatto progredire il suo delitto, a grado a grado,
indisturbatamente, col pieno potere che gli veniva dalla sua coraggiosa
libertà.
Per un istante infatti egli aveva temuta, non la giustizia degli uomini,
ma l’onnipotenza dei partiti che si collegavano contro lui, capaci senza
dubbio di subornare un giudice, di dettare ai periti un responso
dubbioso e per tal modo trascinarlo in Corte d’Assise, od anche mandarlo
assolto per non provata reità. Era quello che tuttavia bastava per
distruggere in un sol giorno la sua magnifica vita.
Ma davanti al pericolo egli aveva ritrovato con una prontezza
meravigliosa il suo posto di battaglia e la memoria strategica dell’uomo
che in altri tempi aveva camminato alla conquista del potere.
Ormai, se da una parte operavan sul giudice istigazioni potenti, egli ne
faceva esercitare altre più incontrastabili; se poteva esservi nella
designazione dei periti un intento recondito, egli era giunto a far
cadere questa scelta su persone che avrebbero dovuto resistere a
qualsiasi adescamento; se una parte della stampa lo aveva nei primi
giorni assalito con furia, man mano egli era giunto a far piovere
dall’alto certi minacciosi avvertimenti, che persuadevano i Direttori ad
imbrigliare i più focosi retori; e frattanto egli allestiva con una
pazienza, con una minuzia da certosino, la querela di diffamazione che
avrebbe chiaramente dimostrato i pericoli del firmarsi «Ergo» alla dolce
pecorella cristiana che si chiamava Salvatore Donadei.
Egli sapeva bene che per le grandi cause occorrono grandi avvocati, e
giornalmente passava un paio d’ore nello studio del senatore Ippolito
Sandonato, l’oratore che piegava sotto il suo potere le Corti di
Giustizia, soggiogava l’alte Assemblee con la speciosa eloquenza del suo
discutere, il patrono che nonostante la tarda canizie rimaneva un uomo
di toga intrepido e focoso come un esordiente.
Incominciata la battaglia, non bisognava nè perdere nè vincere a metà;
nella tensione di nervi che il combattimento gli dava, la storia verace
del suo delitto aveva esulato lontano da lui, s’era quasi affondata
senza memoria nella buia tempesta del suo spirito.

Ora egli camminava leggermente, esagitando fra sè stesso le più remote
conseguenze di tutto quello che stava per accadere, ed anzi era
particolarmente gaio, per aver avuta in quel giorno un’idea felice, che
Ippolito Sandonato si accingeva per l’appunto a mettere in opera.
«Quel buon Tancredo Salvi... che aveva senza dubbio uno sviscerato amore
per la Giustizia, e doveva certo essere incorruttibile come un santo
monaco francescano...»
Camminava tra questi pensieri, e frattanto era giunto vicino alla sua
casa, quando, all’uscir dal vicolo nella diritta contrada, un clamore
confuso di voci, un accorrere di persone, subitamente lo fermarono.
Pochi passi lontano era la sua casa, l’ultima su l’angolo; più oltre, la
piazza con il porticato, che nereggiava di gente ferma, dalla quale
provenivano i clamori. Egli non poteva ben discernere nè udire, ma erano
i giornalai che gridavano a squarciagola una notizia inattesa e
vendevano a centinaia le copie de’ giornali, che la folla spiegava
concitatamente. Quasi nello stesso tempo, alle sue spalle, si levò un
simile clamore, e, vóltosi, vide accorrere cinque o sei strilloni,
rossi, rauchi, affannati, sotto il peso dei fasci che portavano,
inseguiti da una folla che li spogliava man mano del supplemento
stampato a grandi lettere. Gli passaron davanti come un’ondata, ed
allora udì.
Egli divenne orribilmente pallido, non volle credere a sè stesso, volse
in giro gli occhi ed aguzzò l’udito come per riafferrar quel grido.
— «L’assassinio di Salvatore Donadei!... Supplemento all’_Epoca_!...
Supplemento al _Nuovo Giornale_!... L’assassinio di Salvatore
Donadei!...»
Non vide, non udì più nulla; un cerchio rosso, che si partiva dalle sue
stesse pupille, occupò la vuota órbita che gli roteava tutto
all’intorno... E sentì che il cuore gli batteva nel petto fino allo
schianto, ma non seppe se di gioia, d’ansia o di terrore, tanto gli
pareva che nel vortice improvviso del mondo si disperdesse come polvere
il senso di tutte le cose.
Poi si calmò. D’un tratto gli parve che la gente lo guardasse, anzi
guardasse lui solo, quasi già sospettandolo di questo nuovo delitto. La
morte gli si allacciava intorno come una compagna necessaria; ebbe
istintivamente voglia di volgersi, di fuggire... poi di cacciarsi
avanti, frammezzo a quella moltitudine e di gridare con tutto il suo
fiato: — Non io! non io!...
Sopravvenivano altri giornalai; la strada fino al termine biancheggiava
di pagine spiegate. Macchinalmente anch’egli si cercò nelle tasche una
moneta, comprò il giornale, poi, quasi correndo, percorse la distanza
che lo separava dal suo portone, entrò difilato in mezzo alla gente che
l’ingombrava: si trovò nella corte. Un lampione ad acetilene rischiarava
il porticato facendo splendere la porta a vetri che chiudeva l’accesso
dello scalone.
Alcuni gli si fecero intorno; egli chiese distrattamente: — Che è stato?
che è stato? — e spiegò il giornale.
Allora, súbito, dette un urlo. Aveva letto in capo della colonna: —
«L’assassino è l’assistente di Andrea Ferento: Egidio Rosales.»
— Ma no! ma no! ma no!... — si mise a dir forte, mentre con gli occhi
leggeva, e mentre intorno a lui si andava stringendo un cerchio di
persone silenziose.
Ogni tanto egli le fissava con occhi esterrefatti, come per
interrogarle; poi di nuovo a leggere con avidità, con terrore.
La notizia era questa: poche ore innanzi, mentre Salvatore Donadei
scendeva dalla Redazione della _Crociata_ insieme col suo capo
redattore, un giovine lo aveva subitamente affrontato sul marciapiede,
scaricandogli addosso tre colpi di rivoltella a bruciapelo e gridandogli
ad ogni colpo: — Basta! basta! basta!
Ferito due volte nel petto, una volta nella fronte, il Donadei stramazzò
senza rispondere, morto.
L’aggressore gli gettò sopra l’arma fumante, si volse alla strada e
gridò:
— Voleva uccidere un santo! Io l’ho vendicato!
E scomparve. Tutto questo in un baleno.
Dieci minuti più tardi, presentatosi al Commissario di Polizia, ripeteva
le stesse parole con una calma ed una fissità da ipnotizzato, poi
rimaneva immobile davanti alla scrivania del Commissario, stringendosi
con una mano il polso tremante, che aveva ucciso.
— Il vostro nome?
— Egidio Rosales. Ho ventisei anni, mio padre è morto; mia madre anche.
Sono il primo assistente di Andrea Ferento: a quest’uomo debbo tutto, e
non feci che assolvere un debito liberandolo dal suo nemico.
— Conoscevate l’onorevole Donadei?
— No.
— Sapete che è morto?
— Lo so, e volevo che morisse.
Non un muscolo, non una linea trasaliva nella sua delicata faccia
pallida; solamente le pupille, che parevano aver perduta ogni virtù di
espressione, bruciavan d’un fuoco fermo e s’affondavano sempre più nelle
profonde órbite.

Allora il Ferento, con impeto, ruppe il cerchio delle persone ch’erano
intorno, uscì fuori, balzò in una vettura, corse al Commissariato di
Polizia.
— Voglio vederlo, súbito, súbito... vederlo!
Il Commissario lo fece chiamare nel suo gabinetto. Il Rosales entrò, in
mezzo a due questurini, pallido, con il bavero alzato. Nella sua chiara
fronte, ne’ suoi femminili occhi splendeva una estatica serenità.
Con un atto paterno e disperato il Ferento gli si buttò incontro, quasi
volesse tentare di strapparlo a’ suoi carcerieri, a quelle due guardie
impassibili, ferme, agghindate nell’uniforme dalle bottoniere
luccicanti.
— Rosales! figliuolo mio! che avete fatto? Che avete fatto, per
carità?!...
Ma questi non rispose; un tremito convulso gli agitò le spalle, gli fece
brillare intorno al mento la tenue barba bionda; poi si lasciò cadere a
piè del suo maestro, e singhiozzando avvinghiò le braccia intorno alle
sue ginocchia.
— Perdono! perdono... — balbettava; — ma non era più possibile che
Lei...
Andrea Ferento lo sollevò da terra quasi con violenza, e come padre e
figlio, come fratello e fratello, que’ due uomini, fra i quali stava la
morte, insieme piansero abbracciati.


VIII

L’istruttoria si trascinò ancora per qualche tempo, finchè i periti
risposero con un giudizio fermamente negativo. Allora il giudice Niscemi
chiuse l’istruttoria e sottopose gli atti alla Camera di Consiglio, la
quale, frustrando la denunzia, addusse in favore del Ferento
l’inesistenza del reato.
Il cadavere dissepolto ritornò a dormire l’interrotto sonno in quel
piccolo cimitero di campagna, ove ormai gli sfioriti mazzi de’ papaveri
si piegavano con una specie d’ubbriachezza, dondolando su gli esili
steli, mentre qualche foglia gialla si metteva a correre di tomba in
tomba nelle folate crepuscolari.
Così era passata la bufera sul grande omicida, su l’anima sua di tiranno
e su l’insorgere tempestoso delle fazioni. Era passata e già si
disperdeva, come tutto si disperde nel mondo, in una nube di polvere, in
un’eco lontana e fievole che man mano la distanza confonde.
Nell’ora più tragica del combattimento un fanatico s’era gettato a
fronte bassa nella mischia per salvare il suo tragico maestro, ed anche
se un tal eroismo per avventura fosse stato inutile, allora come sempre
il mondo non poteva impedirsi d’ammirare queste barbare magnificenze.
Come il Ferento aveva creduto e voluto, la battaglia era vinta; vinta
senza riserve, ampiamente, crudelmente. Ora, poichè la strada era
sgombra, poteva camminar oltre, verso il domani vertiginoso. Si era
fatto amare abbastanza per trovare intorno a sè una falange di
partigiani, serrata e forte, che ovunque lo avrebbe difeso a spada
tratta, vita per vita; ormai non gli restava che godere il premio della
sua temeraria impunità.
Colpita nel cuore, la fazione avversaria s’era lasciata debellare
facilmente: egli poteva ora scegliere vendette come rose profumate in un
largo paniere. La folla, quella medesima folla ch’era insorta contro il
suo nome, ora l’applaudiva; persuasa o meno, egli era stato il più
forte; e ciò bastava perchè, secondo la logica della vita, il più forte
avesse anche ragione.
Era stata immolata una vittima per placare il dio della civile
discordia; dopo molto contorcersi, la città aveva bevuta per gli
interstizi del suo lastricato una fresca vena di sangue; l’epilogo era
nella morte: bastava.
Domani, con altre bandiere, si ricomincerebbe a guerreggiare; ma la
battaglia di ieri diventava una fredda pagina di storia morta, un nero
turbine che si allontanava nella immensa caligine delle cose finite. Su
l’avvenire degli uomini urgeva e pulsava il domani, che appartiene
sempre al vincitore ed è implacabilmente la disperazione del vinto.
Questo era vero nella breve battaglia fra due fuggenti uomini, com’è
vero nella storia dei popoli, nelle leggi fondamentali della vita, in
tutte le distruzioni, in tutte le creazioni della possibilità umana.
Egli era stato adunque il padrone del suo diritto imperatorio: aveva
ucciso, aveva costretto altri ad uccidere, e la folla soggiogata
l’applaudiva. Sopra il suo delitto non aveva trovato altro giudice che
sè.
Questo anarchico e questo santo alzava la sua rilucente potestà sopra i
divieti che sono la catena dei mediocri: s’era involto, calmo ed
inesorabile, in quel magnifico diritto che gli uomini titubanti avevano
decretato agli Dei.
Ma non soltanto sopra la scena mutevole della commedia umana era passata
ormai come polvere l’improvvisa bufera; non soltanto fuori da lui, ma
nel suo spirito stesso, era passata e lontanava.
Non più l’irosa voglia del combattere, non più la gioia sopraffacente
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