La vita comincia domani: romanzo - 15

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Era la prima volta che gli accadeva di provare quel senso di stanchezza,
di noia... Perchè la prima volta?
Alcuni convalescenti passeggiavano per il giardino, e lo salutarono.
Egli guardò la quercia altissima che sorgeva dal mezzo dello sterrato,
l’albero calmo e tutelare intorno a cui le vetture compivano il giro per
ridiscendere verso la cancellata. Nell’alto fogliame, come in un immenso
alveare, le nidiate cantavano.
Com’egli era stanco!... Perchè mai così profondamente stanco?
La Direttrice gli scese incontro per la piccola scalinata, e con molta
esuberanza lo festeggiava. Un infermiere, due medici, uno studente
stavano su la porta. «Ben tornato! Ben tornato!...»
Egli s’accorse d’un lieve odore d’acido fenico e di cloroformio che
usciva dal corridoio; questo lo sorprese, come l’aveva sorpreso
l’aspetto della Clinica.
Tese la mano a tutti, scambiò alcune veloci parole coi più vicini,
mentre la Direttrice, un po’ chiacchierona, non ristava dall’esclamare:
— Com’è dimagrato, signor professore! Com’è pallido! Non sta bene?
— Un po’ d’insonnia, signora Maggià; nulla di grave.
S’avviò frettoloso verso lo studio, seguìto dal suo primo assistente, un
bel giovine biondo, con gli occhi luminosi ed intelligenti, che aveva
una così chiara voce da mandar in visibilio tutte le infermiere, quando,
nelle ore d’ozio, accompagnandosi con la chitarra, cantava. Una profonda
cicatrice, pur visibile tra la barba, gli feriva il principio del collo
sotto la mandibola sinistra, ed era il segno d’un’infezione presa nel
curare un malato. Egli era così devoto al Ferento, e così ciecamente lo
ammirava, che gli avrebbe dato il suo corpo stesso per un esperimento
micidiale, s’egli lo avesse domandato. Più che venerazione, questo amore
per il suo maestro era una specie di totale soggiacimento, anzi una di
quelle fanatiche sottomissioni, che gli uomini di scienza riescono
spesso a determinare, per una superiore virtù del loro ingegno, sui
discepoli che hanno meglio educati.
— Ebbene, Rosales, come va?
Il giovine stava ritto davanti alla scrivania, guardandolo chiaramente
negli occhi.
— Io sto bene, professore. Ma lei ha veramente l’aspetto stanco.
— Sì, un po’ stanco, un po’ stanco... Ed i malati? Come vanno i nostri
malati? Nulla di nuovo?
Intanto sfogliava la numerosa corrispondenza, lacerando le buste con
l’unghia e scorrendo i fogli con nervosa rapidità. Nel medesimo tempo
l’assistente gli faceva il suo rapporto, con voce calma, precisa,
mettendo nelle sue frasi una brevità quasi soldatesca.
— Bene, — mormorava tratto tratto il Ferento; — bene. — Poi lo
interruppe: — Qui fa caldo, le pare? Apra la finestra, la prego.
Il giovine ubbidì. Lo studiolo terreno dava sul giardino; l’aiuola
correva lungo la muraglia; un grande albero d’olea fragrante nasceva
poco in là dalla finestra, tutto bianco della sua fioritura; i
ramoscelli poggiavano contro i vetri; nell’aprir questi, entravano.
— Professore, — disse da ultimo il Rosales, — in questi giorni, che
furono per lei così tristi, non ho creduto necessario scriverle parole
oziose; ma ora vorrei solo dirle...
Il Ferento, levatosi, gli battè leggermente una mano su la spalla: —
Grazie, grazie... — Poi soggiunse: — Lei pure in questi giorni avrà
avuto un orario faticoso per colpa della mia assenza.
— Oh, niente affatto! Desideravo che lei tornasse, ma non per questo, —
rispose il giovine con un accento pieno di tenerezza filiale.
La Direttrice picchiava discretamente all’uscio.
— Entri, signora Maggià.
Era una donna dal volto segaligno, dal corpo assai florido. Grigia, con
gli occhiali a stanghetta, portava un abito nero leggermente ricercato.
— Vorrei domandarle, professore, se comincerà con le visite o se prima
farà il giro delle sale?
— C’è molta gente?
— Otto o dieci persone.
— Allora prima salirò. Venga, Rosales.
Depose nel portacenere la sigaretta ed uscì nel corridoio. Assistenti,
chirurghi, medici, suore, infermieri, lo aspettavan su gli usci per
salutarlo; egli rispondeva, di qua di là, con un cenno del capo,
camminando veloce, seguìto a un passo di distanza dal suo primo
assistente. Si fermava per stringer la mano ad alcuni, con una rapida
cordialità. Mentre stava per salir le scale s’incontrò con un gruppo
d’infermieri che ne scendevano, portando sopra una barella un malato
verso la sala operatoria. Costoro si fermaron bruscamente per lasciargli
il passo.
— Avanti, avanti! — egli disse loro. E guardò quella faccia supina,
livida, scarna, che sbarrava attonitamente le pupille acquose, piene di
paura.
— Un tumore al fegato, — gli spiegò sottovoce l’assistente, quando la
barella fu passata.
Egli non intese, o non comprese; ma vedeva solamente la scala salire,
lucida, innanzi a sè, con un tappeto di sole... confusamente salire
verso l’invetriata fiammeggiante. Nel fondo de’ suoi propri occhi vedeva
una cosa futilissima: i gomitoli di lana con i ferri da calza, que’
grossi rotondi gomitoli di Marcuccio Landi, e gli pareva udir ronzare
dentro di sè il motivo di quella sua certa Canzone, che finiva in uno
scoppio di riso tragico sul violino singhiozzante...
Ora camminava lentamente per le corsìe piene di luce, da un letto
all’altro, visitando, interrogando. I malati gli sorridevano; le suore
componevano le coltri sotto i loro menti gialli: l’assistente, con un
libro in mano, prendeva nota delle sue prescrizioni. Scriveva
rapidamente con una penna stilografica, facendo stridere la carta. Un
malato aveva fame, l’altro voleva uscire, un terzo si lamentava, un
quarto era gonfio e paonazzo di febbre così da non poter parlare.
Tutto questo lo stupiva un poco, gli dava non so quale sensazione
d’irrealità, quasi non fosse più così utile come una volta curare i
malati, ascoltare quel che dicevano, saper esattamente di che male
soffrivano.
Anzi uno gli disse una cosa che lo stupì:
— Ma mi lasci morire, dottore... Cosa faccio al mondo io?
Egli, che prima non lo aveva quasi guardato, allora lo guardò. Era un
povero vecchio, asmático, piagato, canceroso, al quale avevan rasa
l’ispida barba a chiazze; una orrenda maschera contraffatta, con gli
occhi semichiusi, ove permaneva un barlume di vita, la bocca bavosa, tra
cui spuntava un po’ di lingua nerastra. Lo guardò ed ebbe voglia di
rispondergli: — «Hai ragione. Perchè cercherei di salvarti? Non v’è
senso comune, quando un uomo vuol morire...»
Mentre la suora lo scopriva, egli vide che aveva le mani allacciate da
un rosario. Siccome la suora voleva scioglierlo ed egli si rifiutava, le
disse di lasciarlo stare e gli fece sollevar le braccia sopra il capo.
Di letto in letto la sua sensazione d’inutilità cresceva; e gli sembrò
che fosse ozioso andar oltre, perchè i suoi assistenti eran tutti bravi
giovani ed il meccanismo della sua Clinica poteva ottimamente camminare
anche senza di lui. Egli era stato lontano alcun tempo, e tutto era in
ordine, tutto s’era compiuto e si compiva con la regolarità consueta.
— «I malati guariscono perchè la natura li fa guarire; muoiono quando la
natura li uccide. La nostra scienza non si riduce in fondo che ad una
serie di tentativi empirici... Ora, il tentativo d’un altro, che ho
pienamente ammaestrato, può valere il mio. Qui essi credono tutti,
medici ed infermi, ch’io possieda qualche maravigliosa virtù di
salvatore: ma è assurdo! Un giorno s’accorgeranno d’essere ad un
dipresso quel ch’io sono, e questo farà nascere uno stupore immenso...»
Passava da una camerata nell’altra, meccanicamente, domandando ogni
tratto il suo parere al Rosales con un’affabilità che non gli era
solita. Entrava ora in una corsìa di donne, più silenziosa, più intima,
ove nell’aria vagava un respiro di maternità e di sacrifizio, dove il
dolore pareva essere più profondo e tuttavia più contenuto.
Le tende abbassate mitigavano il chiarore del giorno; in quella luce
dorata i letti s’allineavano tranquilli. Una specie di riposo lo
avvolse, come se la sua missione di curatore tornasse a parergli buona e
come se un álito di riconoscenza muovesse a lui da ogni coltre su la
quale si curvava.
— Come?... — domandò improvvisamente al Rosales; — come ha detto? qual’è
il suo nome?...
L’assistente riaperse il libro che stava per rimettere sotto il braccio,
e rilesse:
— Novella Júdice, di Urbino; affezione...
Egli non ascoltò più oltre; qualcosa di dolce, di soverchiante, gli
commosse il cuore, come se da quel nome si partisse una infinita soavità
e la donna chiamata con tal nome fosse un’ombra lontana, imprecisabile,
di quell’amante che amava.
Prese un polso della malata e si curvò su lei pianamente. La faccia
pallida riposava nel guanciale, delineata in un contorno di capelli
biondi, così radi e lievi che parevano appena un velo fasciato intorno
alla sua fronte. Era una giovinetta forse di vent’anni e sorrideva
guardando il medico, la suora, comprimendosi la mano libera sul petto,
quasi per un senso invincibile di pudore. I suoi docili occhi azzurri
parevano domandar perdono d’essere tanto malata, e nel sorridere le
guance scarne le facevan agli angoli della bocca due graziose piccole
infossature.
Egli non contava affatto le pulsazioni dell’arteria, ma provava una
strana dolcezza nel toccare quel polso accelerato e fioco, nel guardare
quella miserrima fanciulla, che aveva il nome d’un’altra, il nome
ch’egli portava in sè.
— Vi sentite male? soffrite? — domandò egli, come non avrebbe domandato
un medico ma un affettuoso parente. Poi le passò una mano su la fronte
per consolarla e disse:
— Coraggio! Guarirete presto, molto presto... ve lo assicuro.
Il sole, dalla finestra di fronte, dorava i suoi capelli vaporosi, e
quel sorriso buono, come d’una bambinella ferita, continuava su la sua
bocca smorta...
Dopo aver compiuto il giro delle sale, andò a visitare i malati che
abitavan nelle camerette solitarie, simili a celle d’un monastero; poi,
sceso a pianterreno per un’altra scala, s’indugiò a discorrere con il
Rosales in quel breve ándito che da una parte sboccava nel giardino,
dall’altro sopra una corte.
In quella corte precisamente v’era un carro mortuario, fermo, attaccato
con un solo cavallo; il cocchiere, sceso di cassetto, s’era tolto il
cappello e facendosi vento discorreva con un cuoco.
— Cosa fa quel carro? — domandò il Ferento.
— Professore, le ho riferito dianzi ch’è morto il vecchio Celsi, del
riparto chirurgico; morto ieri, nove giorni dopo l’operazione.
— Ah, infatti... — egli mormorò. — E lo portan via ora?
— Credo.
— Voglio vederlo, — disse con rapidità. E scese per la scaletta
sotterranea che conduceva nella sala refrigerante, ove si deponevan i
cadaveri dopo averli sottoposti a necroscopìa. L’assistente lo seguiva.
— No, lei vada pure, — disse il Ferento.
Giunse in fondo; aperse l’uscio; fece qualche passo nella fredda stanza,
chiara d’elettricità. De’ sei tavolacci di zinco, cinque eran vuoti e
risplendevano; su l’altro era steso un grosso involto bianco, simile ad
una statua supina ravvolta nella sua tela.
L’odore acre dei disinfettanti mordeva l’aria, e gli sembrò di riceverne
un senso di stordimento.
Fece per avvicinarsi al cadavere, ma, poichè la porta erasi rinchiusa,
tornò indietro e l’aperse in bílico.
Di nuovo ne’ suoi confusi occhi, apparvero que’ gonfi e tondi gomitoli
dello scemo, con i ferri da calza; di nuovo gli cominciò a ronzare nelle
orecchie la nenia del violino singhiozzante.
S’accostò al cadavere, ed ebbe voglia di scoprirlo; ma gli parve che le
sue mani incontrassero una certa difficoltà nel compiere gli atti
necessari.
Le sue mani di fatti non si muovevano; ma egli provava un piacere
ansante nello star presso a quel cadavere, il piacere pauroso che si
prova stando su l’orlo d’un precipizio.
«Se chiamassi un guardiano per farlo scoprire?... No, è inutile.»
Le lampadine elettriche bruciavano dal soffitto basso in un cerchio di
luce immobile, mettendo a nudo il groviglio del lor filo incandescente,
il quale pareva complicarsi.
«Che idea di voler vedere questo morto? A che serve? No, me ne vado.»
E non poteva muoversi di lì; sentiva il bisogno, la tentazione, di
guardare quella faccia; tuttavia non sapeva risolversi a mettere la mano
su quel lenzuolo.
Gli tornò in mente il carro funebre che attendeva nella corte, il
cocchiere senza cappello che parlava con il cuoco.
«Ho capito: è già pronto per esser chiuso nella cassa; meglio non
toccarlo. Me ne vado.»
Ma nel medesimo tempo, come se le sue mani ubbidissero ad un’altra
volontà che la sua propria, sollevò il rovescio del lenzuolo che gli
doppiava sul volto e ne aperse i due lembi, scoprendolo fino a metà del
petto.
Era una faccia senile, glabra, gonfia, cinerea, che pareva sprofondata
nelle sue mascelle, rientrata nel collo quadrato, per insaccarsi entro
la convessità delle spalle. Il petto era sezionato da una lunga ferita
verticale, nera su gli orli di grumi sanguigni ed imbottita di bambagia.
Egli guardava senza ben comprendere, anzi gli pareva di dover
cominciare, davanti ad una classe di allievi invisibili, un corso di
anatomìa... Poi gli parve di trovarsi, come s’era già trovato un’altra
volta, nella necessità di sollevare quel corpo rigido su le sue braccia
restìe, per riportarlo a giacere in un letto, ma scivolando, senza far
rumore... Gli parve a poco a poco di riacquistare un suo stato d’animo
anteriore, di retrocedere in una forma di sè stesso già lontana, già
dispersa, e che le lampadine si spegnessero d’un colpo, — le quattro
lampadine appese alla volta sotto il riflettore di metallo bianco — e la
glabra faccia senile divenisse quella d’un altr’uomo, la faccia serena
che lo guardava dalla morte, senza rancore...
Rapidamente la ricoverse con il lenzuolo, si battè insieme i due polsi
per darsi vita, e risalì.
Volse un’occhiata nella corte: il cuoco se n’era andato; il cocchiere,
appoggiato al muro in un angolo d’ombra, fumava tranquillamente; il
vecchio cavallo nero dondolava la coda per scacciare le mosche.
Gli parve che il sole fosse una polvere in fiamme, una rossa nuvola
piena d’avvolgimento...
«Cosa devo ancor fare?... Ah, sì!...»
E rapido si volse; infilò il lunghissimo corridoio che traversava tutta
la profondità dell’edificio, rotto nel mezzo da un padiglione vetrato,
che imbiancava le stuoie d’una rotonda chiarità; lo percorse
velocemente, facendo co’ suoi passi un rumor forte sul linoleo
brillante; sentiva il bisogno di parlare, di agire, di ridere.
La Direttrice gli veniva incontro.
— Sì, éccomi, signora Maggià! Li faccia entrare.
— Senta, senta, — chiacchierava la Direttrice correndogli appresso; — il
professor Damiato e i due chirurghi primari son venuti varie volte per
salutarla. Vuole che li chiami?
— Sì, li chiami, grazie.
Ed entrato nello studiolo, accese una sigaretta, respirandone il fumo
con ingorda voluttà.
L’olea frascheggiava piano piano, con uno sciacquare di foglie rumorose,
facendo piovere le sue minute fioriture candide, sperdendo in larghe
ondate il suo voluttuoso buon odore; nel giardino si udiva un passo
lento e pesante camminar su la ghiaia; dalla città lontana saliva un
rumor confuso, interrotto spesso dal fischio d’una locomotiva, dagli
urli vorticosi, lamentosi, che nell’alto sole del mezzodì, con furia
lanciavano le sirene.


VII

Le adiacenze, la scalinata, la corte quadrangolare dell’Università ed il
suo vasto porticato a colonne di marmo, eran ingombri d’una studentesca
minacciosa.
L’agitazione, promossa dai corsi di medicina, i quali volevan si
sostituisse il professore d’anatomia, si estendeva per l’altre facoltà,
con fischi ed urli contro il Rettore, che non concedeva certe agevolezze
per una sessione d’esami.
La strada rigurgitava di studenti, che ne sbarravano il passaggio; altri
eran seduti in lunghe file su la scalinata, cantando; altri giravano in
drappelli, a passo militare, sotto il porticato, scandendo epigrammi
sopra un motivo d’operetta, ed assiepavano il cortile mareggiando con
gridi e gesti frenetici. Gli arringatori, saliti su gli zoccoli delle
colonne, rossi di collera e di fatica, parlavan gesticolando; una specie
d’assedio ingrossava davanti allo scalone della Segreteria.
Si gridava: — «Sciopero! Sciopero! Abbasso il Rettore Rolandi! Fuori il
professore Saraceno! Basta il Saraceno! Basta!... Viva la terza
sessione! Viva!...»
Un Commissario di Polizia, chiamato per telefono, sopraggiungeva co’
suoi agenti e li schierava in un vicolo vicino, pronti, nascosti. Ma li
videro; e si cominciò a gridare contro la forza pubblica. Il pennacchio
d’un carabiniere, che apparve davanti all’Università, fu accolto con un
subisso di fischi.
Da otto giorni il professore d’anatomia comparata, Enrico Saraceno,
impartiva la sua lezione a banchi semivuoti; ma quella mattina, dopo
averlo fischiato e vilipeso, eran entrati nell’aula dietro lui come una
masnada di vandali, mettendo i banchi a soqquadro, lanciando calamai
davanti alla cattedra, scaraventando i fascicoli al soffitto, in un
diavolìo che più non finiva.
— «Fuori! Basta! Non vogliamo il Saraceno! Fuori!...»
Questi era un meridionale allampanato, miope, con una cotenna spessa e
riccia come quella di un negro, la faccia olivastra, il naso leggermente
adunco, la bocca sottile, che portava sul labbro sporgente un sottile
paio di baffetti neri.
«Mannaggia! Mannaggia!» — bestemmiava, dando gran pugni su la cattedra e
con la voglia di scagliarsi, lui solo, contro quella scolaresca
dileggiante. Quando un calamaio spruzzò d’inchiostro l’assito polveroso
che innalzava la cattedra, divenne livido per la collera, si compresse i
pugni su le tempie, diede un calcio a quel calamaio spezzato, ed uscì.
La scolaresca lo accompagnava cantando a tempo di fanfara:
— «Non si vuol nè più nè meno, che scacciare il Saraceno!».
Man mano che finiva una classe gli studenti affluivan nella corte,
sicchè tutti i professori, dopo aver tentato invano d’imbrigliare quella
ribellione, s’eran adunati perplessi nella sala del Consiglio
Accademico.
Frattanto, sotto il porticato, s’improvvisavan cartelli a pitture
d’inchiostro e s’affiggevano alle colonne, o, inastate, si portavan come
insegne sopra il mareggiare delle teste.
— Vogliamo la terza sessione! Fuori il Saraceno! Abbasso il Rettore
Rolandi!»
Poi si torcevan dalle risa davanti ad una caricatura improvvisata, che,
nel contorno d’una enorme bottiglia d’Acqua di Janos, raffigurava il
Rolando e il Saraceno seduti a braccetto sopra due pitali. E sotto eravi
la scritta:
«Congedo per motivi di salute»
— Fuori! fuori! si chiude! — gridava a squarciagola il bidello, tentando
di persuaderli con le buone a scendere in istrada. Ma lo tiravan per la
giubba e gli davan lo sgambetto, chiamandolo il «Grand’Eunuco», per
esser egli senza pelo, alto e panciuto.
Dalla scala del Consiglio, stretta d’assedio, scese un piccolo vecchio
dalla bianca barba quadrata, il professore di fisiologìa, che gli
studenti amavano. Fu accolto da un’ovazione: — «Viva il professore
Sammarco! Ci ascolti, professore...»
Tutti gli si facevano intorno, volevano tutti parlare.
Egli alzò davanti a loro il palmo rugoso, come faceva dalla sua cattedra
per imporre silenzio.
— Sentite, figliuoli... Se non vi sciogliete súbito, il Rettore annunzia
che farà chiudere l’Università fino a tempo indeterminato. E riflettete
che siam presso agli esami. Ragazzi, mandate una commissione: le vostre
domande saranno discusse.
— È un pezzo che inoltriamo domande! Ci si beffa di noi! Revoca e
sessione! Viva il professor Sammarco!
— Figliuoli, ascoltate...
Ma la sua voce debole si perdeva nel frastuono, mentre la notizia della
minacciata chiusura si diffondeva per la corte sollevando urli; un
gesticolar di braccia furibonde si agitava contro le finestre del
Consiglio Accademico.
Il Commissario camminava nervosamente davanti all’Università, senza
badare ai dileggi velati che gli mandava la studentesca; una ressa di
popolo curioso ingombrava la strada, e su l’alto della scalinata il
bidello gesticolante cercava di persuadere quelli ch’eran seduti sui
gradini a levarsi e discendere nella strada.
Ma in fondo alla corte cominciavano a scoppiare grida sediziose: —
Barricate la porta! Non vogliamo poliziotti. Contro la forza useremo la
forza! Uh!... uh!...
L’orologio della torre sonò le undici, con lenti colpi metallici che
furono ascoltati; poi tutti si ammassarono sotto le finestre del
Consiglio, quasi avessero in animo di darvi la scalata.
Appunto alle undici doveva il Ferento impartire la sua lezione agli
studenti del quinto anno, ed ecco sopraggiungeva, camminando frettoloso,
allorchè di lontano vide quell’assembramento davanti all’entrata
dell’Università.
Quasi correndo percorse l’ultimo tratto, udì le grida, si cacciò nella
folla ed apparve in basso della gradinata.
Il Commissario, che per primo lo riconobbe, gli si avvicinò parlandogli
concitato:
— Questa indecenza dura da oltre un’ora! Hanno messo un’aula a soqquadro
ed asserragliano i Professori. Esito ad intervenire per timore di guai
serii, ma se fra dieci minuti non si sciolgono, chiamo rinforzi, entro e
li sgombero.
— Aspetti! — egli disse rapidamente. E saliti d’un balzo i tre gradini
esterni, si cacciò in mezzo ad un gruppo di studenti, che al vederlo
ammutolirono.
Egli girò su tutti loro uno sguardo freddo, quasi malvagio, ma nulla
disse: camminò avanti, a fronte alta, quasi fosse certo che la scalinata
ingombra dovesse aprire un varco davanti a lui.
D’improvviso, tutti coloro che barricavan la gradinata standovi seduti e
vociando, con un sol moto sorsero in piedi, si fendettero, ed egli salì
fra loro velocemente, con gli occhi accesi d’una collera muta.
Su l’alto della scalinata si volse con veemenza:
— E nessuno di voi — gridò ai più vicini, — ha osato imporre silenzio a
questa gazzarra da comizio pubblico? Nessuno? E perchè venite qui a
studiare l’uomo, se non avete compreso ancora che la più vile cosa per
un uomo è ubbidire alla folla?
Il bidello ansante gli corse incontro, congiungendo le mani, quasi che
in lui fosse l’estrema sua speranza. Egli non l’ascoltò nemmeno, ma
vôlti gli occhi beffardi sovra il cerchio di studenti che gli si formava
intorno:
— Dove sono e chi sono, — interrogò — i promotori d’una così bella
rivolta? Chi sono, domando? Non c’è fra voi uno solo che osi declinare
il proprio nome?
— Io, per esempio! — esclamò con tracotanza un giovine di membra
complesse, che, sebben lontano, cercava di estollere il suo massiccio
cranio chiomato, perch’egli lo riconoscesse.
— Ah, lei? Magentini, se non erro?
— Appunto, Magentini del quinto anno, — rispose il giovine facendosi
largo. E incominciò, con un tono arrogante: — Perchè, vede,
professore...
— Non si disturbi, la prego! Di lei mi ricordo bene, assai bene. Poichè,
avendola interrogata qualche tempo fa su certi problemi di embriologìa,
ella mi espose una teorìa siffatta, secondo la quale, come le osservai,
il colmo per la donna evoluta sarebbe quello di mettere al mondo un
neonato con la barba... Si accomodi pure!
Una risata clamorosa eruppe dagli ascoltatori, facendo giustizia del
malcapitato, che si rimpicciolì nella ressa, mentre invece, nel fondo
della corte, il gruppo de’ più facinorosi non cessava dalle grida
ostili.
— Taceranno! — egli affermò con la voce rauca d’ira. — Taceranno! — E si
cacciò davanti, pallido, nel tumulto che infieriva.
Due ne prese per le spalle, quattro ne urtò: sotto i porticati la
studentesca ondeggiava; un lungo solco di silenzio rimaneva dietro i
suoi passi. Chiamati per nome, alcuni studenti lo spalleggiavano; e
camminando a fronte alta, sicuro di non fermarsi, la sua pallida forza
impetuosamente li dominò. Un certo silenzio intorno a lui si fece, un
poco d’ordine fu ristabilito, e solo permaneva sotto le finestre del
Consiglio il gruppo de’ più accesi, che non volevano intender ragione.
Quando costoro s’accorsero che la maggioranza dei compagni stava per
arrendersi a consigli di moderatezza, con furore insorsero chiamandoli
disertori e pecore, facendo quanto baccano potevano, perchè nessuna
parola d’ordine fosse potuta udire.
— «Uh! vi lasciate tirare per le orecchie! Pecore! pecore! uuh!...»
Poi si cominciò a gridare: — «Abbasso il Ferento!» — prima da qualche
voce isolata, poi con gran clamore da tutto il gruppo ch’era lontano.
Egli si volse, come se l’avessero staffilato in pieno viso; balzò sul
muricciuolo che riuniva i colonnati, così da estollersi alto e solo
sopra l’assembramento, e simile a quello ch’era stato nei giorni di
battaglia, quando, amato e odiato, il suo nome batteva come una
bandiera, tese verso loro il braccio, e ridendo esclamò:
— È inutile che mi gridiate abbasso, perchè la natura mi ha posto in
alto!
E brillava, e la sua testa leonina era bella a vedersi come quella di un
tribuno imperioso che dómini un parlamento. Brillava ed era solo, e
raggiava da sè tanta forza, che i gridatori si tacquero, mentre da tutta
la studentesca infiammata un altissimo grido si partiva, una sol voce,
che obliosa d’ogni piccola discordia pareva inginocchiasse quei giovani
davanti all’uomo più forte.
— Spezzare qualche banco, assediare una scala, dipingere ad inchiostro
una piacevole caricatura, farvi suonare i tre squilli e sciogliere dalla
Polizia... sarebbe questo per caso lo spirito di ribellione che
imparaste nei suburbi, dall’eloquenza degli arringatori plebei?
O glorioso tempo di rivolte, ove uno scaricatore di fogne diventa
tribuno del Quartier Latino e Rettore Magnifico degli Atenei!...
Ma or che avete iniziata la rappresaglia con sufficiente rumore,
spaccato abbastanza legno, assediate abbastanza scale, ornato a
sufficienza di pupazzi la vostra Camera del Lavoro, delegate altresì una
Commissione di studenti, che renda noto al Consiglio Universitario la
natura ed i motivi delle vostre lamentele...»
— Già fatto! già fatto! Inutile! Nessuno ci ascolta! — s’interrompeva da
varie parti.
— ...a meno che non preferiate, — egli proseguì, — affidarmi la vostra
causa, fin dove io l’accetti e fin dove mi sembri giusta, perch’io mi
faccia interprete presso il Consiglio Accademico dei vostri desiderii,
e, con esso d’accordo, vegga di ottenervi una soluzione soddisfacente.
— Sì, sì! — acclamarono i più vicini, poi gli altri, poi l’intera
studentesca, prorompendo in applausi clamorosi, che soverchiarono il
tumulto.
Il suo nome volò da ogni bocca: — «Viva Andrea Ferento!» Lontano, alto,
per l’aria libera, il suo nome cantò: — «Viva Andrea Ferento!» E volando
e cantando inebbriava il cuore dei giovani, perch’era un nome di ribelle
anch’esso, e lo portava un uomo ch’era giovine ancora, che aveva sempre
insegnato a vivere combattendo, a cercare i pericoli delle più dure
battaglie, generoso alfiere d’una insegna di libertà.
— Ora scioglietevi, — egli disse, — Io sono il vostro parlamentare:
davanti al Consiglio Accademico sono garante per voi. Chè se invece
questo Ateneo, dove, nella più alta misura delle proprie forze, ciascun
professore dedica giornalmente a voi giovani la sua più bella e più
serena fatica, fosse per divenire un luogo sedizioso, dove si carpiscon
laure con scioperi di studentaglia e con fracasso di vetri spezzati, io
per il primo non vorrei più rimetter piede in queste aule, dove con
tutto amore, con tutta fede, credevo di educar familiarmente una libera
e franca gioventù, la quale sapesse fermamente che non bisogna mai, mai,
trovarsi dieci contr’uno per avere in dieci quel coraggio che uno solo
non ha. Io stesso, che non volli patire il giogo di nessuna obbedienza,
debbo anche dirvi che la vera libertà consiste nel non essere il
gregario di nessuna sopraffazione!
Allora centinaia di braccia si protesero a lui, quasi cercassero di
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