La vita comincia domani: romanzo - 05

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mai sperduti d’amore e di terrore, mentre il destino si compiva in ogni
attimo, con una irremediabile celerità. Egli si tese in ascolto, poi
l’attrasse dietro un alto cespuglio che faceva quasi una nicchia, dove
nessuno li avrebbe scorti.
Che buon odore di menta selvatica veniva dall’umida erba in quella sera
scintillante! La terra satura esalava il suo respiro profumato,
quasichè, nella propizia ombra, godesse la carezza d’un amante e quel
soverchio profumo fosse l’effluvio della sua nascosta voluttà.
Là dietro, per l’intrico dei rami, si vedeva la casa biancheggiare con
tutte le finestre chiuse, tranne una, che splendeva, ma d’un lume
vacillante, quasi già vi ardesse il chiarore d’una lampada funeraria e
l’anima dell’abitatore addormentato stesse di là per evadere nella notte
grande. Non osavan guardare lassù, a quella sola finestra rischiarata,
poichè, dietro la trasparenza dei vetri, vedevano la vasta camera
taciturna, greve di morbo, densa di ombre fluttuanti, la camera ond’eran
usciti poco prima, a breve distanza l’un dall’altro, cauti, su la punta
dei piedi, per non interrompere quel sonno troppo lieve.
Oh, come sono diverse le finestre che splendono di notte nella facciata
d’una casa buia! Sonvene, per chi cammina e le vede passando, alcune che
fanno invidia, che dànno quasi uno scoramento indicibile, una specie di
triste gelosia verso la gioia che rischiarano. Sole, nell’alta notte,
nell’alto silenzio, brillano d’una luce impudica, irruenta, ilare, che
somiglia quasi ad uno scoppio di riso, che somiglia quasi alla
bianchezza d’una nudità, — e sono le finestre dell’amore; ma dell’amore
giovine, che non rifugia nell’ombra le sue colpe, che non ha paura della
propria felicità.
E sonvene di più velate, dalle quali pertugia insidiosamente un chiaror
soffocato, che paiono dire a chi passa: — «Férmati e ascolta; non senti
venire per l’aria un ánsito di voluttà? Siamo due soli e nascosti, e
siamo accesi d’una febbre taciturna, che istilla quasi un veleno sottile
nel sapore d’ogni bacio...» — E sono le finestre dell’amore; ma
dell’amore già perverso, che si ubbriaca di filtri e sóffoca il suo
grido nella coltre contaminata. Poi talune che vegliano solitarie, con
una lampada immota, e sembrano rischiarare l’insonnia d’un’attesa, —
d’un’attesa lunga ed inutile, o il mormorio d’una preghiera, — d’una
preghiera fatta per l’assente, che forse non tornerà — o la stanchezza
d’una mano che scrive, che scrive senza mai fermarsi, che scrive senza
mai rileggere, al suo sogno lontano, al suo lontano amore...
Poi talune, che sembrano illuminarsi d’un tratto, per una paura
subitanea, per un dramma notturno, con ombre che s’avvicendano
repentine, come se vi fosse nella camera un tramestìo di gente, che va,
che viene, che parla concitata... Poi altre, le quali sembrano tenebrose
della lor luce, come sono quelle fiammelle ad olio che bruciano davanti
ai tabernacoli, in certe abbazìe di campagna, le sere d’autunno, dopo il
vespero, quando le chiese dei poveri si émpiono di preghiera e di
malinconia...
Sono finestre semispente, che hanno un colore; nessuna ombra si muove
nel loro fondo opaco; nessun romore viene dalla lor immobilità; ma solo
una specie di brivido che si prolunga nella notte, che si propaga nel
buio, con disperata tristezza. — E sono le finestre segnate, su le
quali, perchè si spengano del tutto, soffierà la morte...
Assaliti così da quel brivido, e pur indugiando nel bacio che li colmava
d’oblìo, essi rividero la faccia supina dell’infermo, affondata nel
guanciale, che apriva gli occhi senza muoversi ed in quel bacio li
guardava. Sebbene avesse le fattezze del cadavere già scolpite sotto la
pelle trasparente, li guardava cupo e fiso, per infondere uno spavento
inesorabile nel loro inesorabile amore.
Egli disse a lei, che s’annidava nelle sue braccia, e lo disse come per
esprimere quella imprecisa paura:
— Non odi?
— Che?
— Un rumore...
Ascoltarono.
Tutto il giardino dormiva. Solo, tra ramo e ramo, tra foglia e foglia,
qualche rapido crepitìo, qualche sussulto fugace interrompeva l’odorato
silenzio, metteva nell’ombra effusa di chiaror lunare un risveglio pieno
d’ambiguità. Su la terra, nell’impenetrabile intrico dell’erbe, si
agitavano vite furtive; in alto, fra i tacenti nidi, sotto le volte
sonore dei padiglioni arborei, gli sciami notturni come orchestre in
sordina aliavano senza tregua producendo un indefesso ronzìo. Laggiù,
nella vasca, lo zampillo tenuto basso pullulava piano piano, scorrendo
in un rivolo quieto che non sciacquava, ed ogni tanto interrompendosi
come per riprender lena. Ad intervalli vi si udiva uno schianto: era
forse una ranocchia, od un rospo, che dal margine vi saltava dentro, sul
ventre piatto. Dai piccoli sentieri, fra i cespugli, sbucava un odore
intenso di fioriture nascoste; poi d’improvviso, nell’inclinar del
vento, la fragranza del maggengo non mietuto, che arruffandosi ad ogni
folata prolungava per i campi una sonorità non dissimile dal tintinnìo
d’un metallo, e in vicinanza, in lontananza diminuiva, come uno strepito
di verghe d’argento.
Senza parlarle, quasi con ira, egli appoggiò contro la sua fronte una
mano fredda, e piegatole il capo all’indietro si curvò su lei, come se
lo struggesse la tentazione di dirle una parola terribile, di confidarle
un segreto immane, ma volesse prima leggere ne’ suoi femminili occhi se
aveva una così forte anima da poterne contenere in sè la tragica
violenza.
— Ascóltami, — egli disse, con voce sorda, che pareva il rombo d’una
soverchia fatica interiore, — ascóltami, Novella, e médita bene prima di
rispondere.
Poi fece una pausa ed accrebbe la lentezza delle sue parole. Domandò: —
Fino a che punto puoi amare un uomo?
— Non un uomo — ella fece, con perdizione, — te solo, te solo...
— Non mi rispondere così, a fior di labbro. Interroga bene te stessa.
Troppe volte si confonde l’amore con l’esasperazione dei sensi, e troppe
volte l’amore ha paura di sè stesso, quando lo risveglia un pericolo
ch’esso non prevedeva.
— No, — ella disse, — non c’è risveglio, non c’è limite...
— Ma vi può essere, — egli rispose, premendo col palmo su le radici de’
suoi capelli scintillanti, — vi può essere un’altra cosa che tu non
sai... — E sordamente, senza un tremito nei diritti occhi, soggiunse: —
La disperazione.
Ella stava un po’ curva all’indietro, piegata su le reni, ed oscillò. Ma
il braccio dell’amante la reggeva per la cintura, onde non fu che un
peso più greve contro la sua forza. Ismemorata, come se non potesse bene
afferrare il senso di quelle sue parole, ma tuttavia ne rabbrividisse:
— La disperazione?... — balbettò. — Che dici?
E gli andava serrando le braccia con le mani trepide, come se cercasse
in lui contro lui stesso un aiuto. — Che vuoi dire? Perchè mi parli a
questo modo? Io non so nulla, non so nulla... ma ti amo...
Diceva questo con una semplicità, con una sincerità che soverchiava ogni
ragionamento; pareva che gli volesse rispondere: — Perchè m’interroghi?
perchè mi tormenti? perchè cerchi di esagitare in me fantasmi che non
conosco? Ti amo... Non c’è forse tutto in questa parola? A che scopo
vuoi saper oltre?... La disperazione?... ma è una sola: Non essere tua.
Ecco, ti rispondo: Essere tua fin dove tu voglia, e come e fin quando a
te piaccia. Divenire un oggetto minuscolo, inerte, nel dominio della tua
forza: null’altro. Ed è questo, non ti sembra? l’amore...
Così ella pareva dirgli con quelle parole semplici, ed egli se ne rese
ben conto. Anzi misurò per un attimo lo sfondo senza limiti dell’anima
femminile, anima che sfugge alla comprensione dell’uomo nè sopporta
l’altrui e meno ancora la sua propria vigilanza. Ond’egli pensò ch’era
oltremodo vano tormentare con tante ricerche il suo docile cuore.
A sè stesso, più che a lei, mormorò due parole rapide, vicino alla sua
bocca: — «Non ancora».
«Non ancora. Tu hai diritto alla mia mercede, povera creatura, perchè
sei meno forte, e perchè mi ami. Io solo soffrirò per entrambi: — io
solo».
Subitamente, quell’odore della sua bocca lo sconvolse. Più forte che
l’aroma della notte primaverile, più forte che l’olezzo del giardino
ebbro, vaporante come un incensiere, su lui potè l’odore femineo di
quella sua bocca soavissima, di quelle sue labbra socchiuse, appena
umide, che avevano sete, che avevano involontariamente la forma ed il
sapore d’un bacio, ch’erano più lascive di una forma ignuda, più nude
che la nudità. Allora vide, intorno a’ suoi occhi abbassati, le ciglia
luminose tessere due piccoli semicerchi d’oro, e vide la sua pelle, su
le gote, sul collo imbiondire per una vellutatura ch’eravi cosparsa,
limpida, scintillante come l’oro.
E vide nella sua gola riversa accumularsi un’ombra che tutta la vestiva,
come un manto sotto il quale fosse nuda, e sentì che il suo petto gonfio
colmava lo spazio fra loro, trasalendo ad ogni respiro, come fa un
ventre femineo quando assorbe la voluttà...
Brillava una finestra, una sola, ma fosca, nella casa buia; e fra i
meandri del giardino addormentato egli la portò a giacere su l’erbe che
fiorivano, come sopra una coltre viva, in un letto fragrante.
Il vento, delle praterie sonore, portava lo strepito del maggengo non
mietuto, che in vicinanza, in lontananza diminuiva, come un clamore di
verghe d’argento.


VI

— Natalissa! Natalissa, vieni su!
Era la voce di Maria Dora che chiamava dall’alto del giardino,
affacciandosi al terrazzo, fra le spalliere dei gerani rampicanti, che
fiorivano a mazzi d’ogni colore, nascondendo sotto un magnifico tappeto
vivo tutto il muro della scalinata.
— Corri, Natalissa, corri!
La bambinetta era in fondo al giardino, aveva nel grembiule un fascio di
ramoscelli, che suo padre mondava dall’aiuole troppo folte.
— Lascia giù quella roba, e corri, Natalissa!
Con una certa cura la bambinetta vuotò il grembiule sul margine del
prato, fece in modo che il suo fascio non si disperdesse, poi cominciò a
correre. Aveva in testa un cappello di paglia che la copriva come un
ombrellone, ma il sole tuttavia l’aveva morata come una bacca selvatica.
— Signorina Maria, che vuole? — diss’ella con quel suo modo garbato di
donnicciuola grande, la quale sappia il fatto suo.
— Bisogna che tu corra sùbito in paese a cercare il dottor Paolieri, e
dovunque si trovi, che venga su di filato, ma sùbito, e venga pure se
fosse occupato, perchè il signor Giorgio sta male... sai, piccina: molto
male.
— Oh, poveretto! — esclamò la bimba senza riflettere. — Ma, e se non lo
trovo?
— Cércalo, cércalo dappertutto; dillo al farmacista, dillo a tutti
quelli che incontri, e manda persone in giro finchè l’abbiano trovato.
Poi non rimase a discuter oltre; tornò dentro frettolosa, gridando
ancora una volta:
— Corri, Natalissa!
Ma questa, nella sua testolina ragionevole, non poteva persuadersi di
quella necessità.
— Come mai? Hanno un dottore in casa... che bisogno c’è del Paolieri,
quello che cura i poveri?
Tuttavia si mise a correre, come le avevan detto, poichè era ubbidiente.
Intanto, sul primo pianerottolo della scala, Maria Dora vide qualcosa
che la percosse d’un grande stupore. Novella era nel corridoio, diritta
contro la parete, a pochi passi dalla camera di Giorgio; pareva in croce
contro il muro, con le spalle oppresse come dal peso di una fatica
interiore, le braccia un po’ discoste dai fianchi, le mani aperte, quasi
aderenti all’intónaco, e tutta bianca nel viso d’un pallore che alterava
le sue fattezze. Non solo, ma nel medesimo tempo aveva intravveduto
Andrea sparire di lì, entrar per una porta, uscirne, tornare, quasichè
non avesse potuto nascondersi a tempo. Era passato davanti a lei che
saliva, senza guardarla, senza forse vederla, con gli occhi stranamente
esagitati, i capelli che parevan irti. Ed in entrambe quelle facce un
non so che di malvagio, di folle, una specie di tragica simiglianza.
Ella vide questo, e si fermò davanti alla sorella, senza trovare il
coraggio di parlarle. Ma questa non fece il più piccolo movimento, e
rimase con gli occhi sbarrati, le mani aperte, quasi crocifissa contro
il muro.
— È strano, — pensò Maria Dora; — ogni volta che Andrea torna dalla
città, Giorgio si aggrava...
Tutta la casa era sossopra; nella camera del malato i familiari si
affacendavano; la Berta ne usciva ogni tanto, in punta di piedi,
strisciando su le pantofole di feltro, facendo tutto quello che le si
ordinava. Ora passava con una bottiglietta, or con una pentola d’acqua
bollente; poi venne fuori papà Stefano e si mise a chiamare con voce
soffocata:
— Andrea...
Maria Dora prese una mano della sorella e dolcemente le domandò: — Che
hai?
Novella strinse la sua mano, forte, forte, senza rispondere; gli occhi
le brillavano, accesi d’una febbre che ne consumava il pianto. Allora,
levando il capo verso l’altro pianerottolo, Maria Dora vide il suo
fratello Marcuccio, seduto su l’ultimo scalino, fermo come un cane
accucciato, e che guardava in aria, con le pupille fisse, ascoltando.
Aveva il suo violino su le ginocchia, l’archetto nel pugno, e senza
batter ciglio, con ferma intensità, pareva tutto assorto nell’ascoltare
un lontano rumore di avvenimenti, una confusa voce che parlasse con lui
solo.
Vedendo la casa in tumulto, guidato forse dall’istinto, era venuto egli
pure su quella scala, presso la camera dell’infermo, dove non entrava
mai.
— Andrea, Andrea... — ripeteva la voce del padre.
— Ebbene? — disse questi, apparendo su l’angolo del corridoio.
C’era in lui una specie di convulsione ferma, che la tensione de’ suoi
nervi dominava a stento.
— Non posso fargli più nulla, — disse con voce rapida.
Aveva tra i sopraccigli una ruga profonda.
— Ma... ràntola... — balbettò Stefano.
Andrea rovesciò indietro il capo, con una specie d’urto che scosse tutta
la sua persona:
— Lasciàtelo stare. O la crisi passa, o questa volta è finita.
Ripetè ancora, con una voce più sorda: — È finita.
E cominciò a camminare velocemente, in sù, in giù, davanti all’uscio
dell’infermo. I suoi passi facevano romore; il pianerottolo ne
traballava; la ringhiera scossa mandava una specie di ronzìo.
Poi si fermò di scatto:
— Viene questo medico?
— Sì, — rispose Maria Dora timidamente.
— Che viene a fare?
— Mi avete detto voi di chiamarlo... voi stesso, poco fa...
— Sì, è vero: l’ho detto io. — Fece una pausa: — Bene, venga!
Di nuovo si mise a camminare, più rapido, con maggiore concitazione.
Gli occhi di Novella inseguivano ogni suo gesto, ogni sua mossa, quasi
fossero ammaliati; ed egli non la guardava mai; non guardava nessuno.
Dalla stanza dell’infermo uscì mamma Francesca, e piangeva. Mormorò:
— Bisogna salvarlo...
Poi carezzava la fronte della figlia maggiore, dicendole:
— Ti senti male, è vero, povero cuore?...
— Sì, mamma, così male!...
Ma la Berta, ch’era per un momento rimasta sola con il malato, scappò
fuori quasi correndo, bianca di paura.
— Oh, la sciocca! — fece Stefano, vedendo la sua pavidità.
Ora, quel giorno, Marcuccio la odiava. Per non guardarla, o forse per
dispregio, col dosso della mano in cui teneva l’archetto si coverse gli
occhi, fin quando fu passata.
Macchinalmente Andrea guardò l’ora. Disse:
— Le tre. Non piangete, Novella! vi prego, vi prego non piangete!...
E risolutamente varcò la soglia, dietro la quale stava il moribondo; la
soglia buia che segnava quasi un limite.
Allora, in quella penombra, da solo, Andrea s’avvicinò al letto nel
quale stava disteso il malato inconoscibile; si curvò leggermente per
ascoltarlo, e rimase immoto. In quella breve distanza, dal limitare al
letto, nello sforzo enorme che aveva dovuto compiere sopra sè stesso,
l’incubo del suo spirito si era dissipato come per incanto; una gran
pace gli entrava nel cuore: piuttosto che pace era una lucida
insensibilità.
Lo guardava, lo poteva guardare senza tremarne. Non era più che la
squallida ombra d’un uomo, in cui persisteva tenacemente una fievole
vita.
E il medico pensò: — «Una crisi. Non sarà l’ultima. Ora è già quasi
domata. Passa.»
Avrebbe voluto anche toccarlo, tastargli le tempie, i polsi, il cuore, —
ma le sue proprie mani, involontariamente, si rifiutarono. Allora tese
l’orecchio: il respiro fluiva più uguale nonostante il fiochissimo
rántolo, nonostante la viscida saliva che gli schiumava tra le labbra.
E il medico pensò: — «Fra poco gli si potrebbe fare un’altra iniezione
di caffeina; il cuore ha già ripreso un po’ di forza.»
E vedeva con l’occhio esperto riaccendersi la vita nell’esausto cuore.
Lo vedeva, senz’averne alcun segno, per una specie di sensazione fisica,
la quale gli proveniva dall’aver molto spiati gli indizi della morte, il
calore impercettibile della vita.
Non si moveva; era come affondato nel materasso; la coltre si alzava sui
piedi congiunti, su le ginocchia un po’ salienti: un braccio pendeva dal
lenzuolo con la mano torta, come se nell’affanno avesse cercato di
ghermire, di stringere; soltanto nella gola denudata era il gonfiore di
uno sforzo continuo; nelle palpebre qualche battito.
Gli pareva d’essere accanto ad un altro malato, ad uno dei tanti che
aveva ritolti alla morte o vegliati nelle agonie; gli sembrava quasi
d’essere l’artefice davanti all’opera, e di doverla compiere con quella
tranquillità di spirito che pareva separarsi dal suo cuore d’uomo; gli
sembrava di non esser altro che una macchina, attenta e paziente. Se una
vita era in pericolo, a lui toccava salvare quella vita: questa era la
sua missione nel mondo, questo gli appariva semplice, come al timoniere
il mettere su la barra la sua mano forte, come allo spegnitore d’incendi
l’avventarsi dentro il fuoco.
Macchinalmente mescè dentro un cálice alcune gocce d’una pozione con un
sorso d’acqua, e gliela fece colare traverso le labbra bavose,
tenendogli sollevato il capo con una mano passata dietro la nuca. Senza
volerlo aveva pur vinta la repulsione del toccarlo, e poichè il liquido
non trangugiato gli colava per il mento, lo rasciugò con un panno.
Dolcemente gli ripose il capo nel cavo del guanciale, gli compose la
mano torta sotto la coltre, lo coverse fino alla gola, e stette a
guardarlo.
Allora l’uomo — non più il medico — pensò ad un tempo lontano della lor
giovinezza, quando quella creatura sfinita era un maschio avventuriero
della buona strada, e si erano data la mano, da uomini, da galantuomini,
per affrontarla insieme, la vita. E lo rivide nelle sue sembianze
d’allora, vestito di panni semplici, come si conviene a chi vive tra lo
scoppio delle mine ed il rimbombo delle macchine generatrici, con la sua
bella fronte illuminata di volontà, l’anima che gli brillava negli
occhi, limpida come il suo sguardo sincero. Egli era forse un po’
selvatico a quel tempo, e si trovava dappertutto a disagio fuorchè tra
le squadre d’operai, che capitanava come un condottiero, che lo amavan
come un fratello più forte, ma uguale ad essi nelle fatiche, primo nei
pericoli, integerrimo nella sua splendida povertà.
Rivide un giovine alto della persona, nervato di ferrei muscoli nella
carne arida, sebbene dal colorito un po’ esangue, dalle fattezze quasi
di adolescente, forse per quegli occhi azzurri che gli schiaravano la
faccia e la biondezza dei capelli non folti, che davan quasi una
trasparenza alla sua dolce fisionomia. Non aveva più famiglia, era solo
nel mondo, e in luogo d’ogni altro amore aveva l’ambizione inflessibile
di avanzarsi contro la vita per una via di conquiste, sacrificando tutti
gli agi allo splendore della sua meta lontana.
Ma aveva un fratello nel mondo, un fratello come lui combattente, come
lui persuaso che ogni giorno si debba fare un passo più innanzi; e
quand’ebbero denaro, divisero il denaro, quand’ebbero sciagure, divisero
le pene, quand’uno si coronò di gloria, e l’altro si sentì pure
innalzato nella sua medesima elevazione. Da presso, da lontano, separati
e mai disgiunti nelle dure imprese che affrontavano, traverso l’età e le
molte insidie che la vita ordisce contro gli affetti umani, salvarono
quest’amicizia sacra, questo patto fraterno che li rendeva più forti, e
delle cose o dei principii che la vita aveva loro insegnato a
considerare in guise opposte non discutevano mai, per non gettare
un’ombra pur lieve su questa concordia assoluta.
Quanta vita nella memoria! quante vicende coraggiose! quante belle
pagine di due storie umane, vissute per cammini opposti, con un solo
cuore!
— «Ti ricordi?...» — voleva quasi dirgli, mentre stava curvo sopra il
suo letto, sopra le sue logore membra, in quella camera semibuia. — «Ti
ricordi?...»
E con quella celerità istantanea che solo il pensiero possiede, tutta
rievocava in un baleno la storia di tanti anni, le vestige di tante
memorie che infuriavano, là indietro, come foglie ammulinate, in quel
turbine che si chiama il passato. E ogni tanto domandava a sè stesso,
quasi con un senso di reale incertezza: — «È lui? proprio lui,
quest’uomo che ora giace? quest’uomo ch’io faccio morire? È lui?
Giorgio?...»
Anche il suono mentale di questo nome gli pareva una cosa lontana.
Poi subitamente si ricordò di una sera, — una sera non tanto remota in
quella corsa a ritroso degli anni — quando Giorgio era venuto a trovarlo
nel suo laboratorio e s’era seduto in un angolo, taciturno, ma con
l’aspetto di volergli dir qualcosa, di volergli fare una confessione
grave. Perchè mai di quella sera egli si rammentava così bene ogni più
piccolo episodio? — Che strana cosa! In quella sera egli provò per la
prima volta una specie di presentimento, oppure una di quelle sensazioni
inspiegabili che paiono più tardi presentimenti quando il fatto accade.
Era verso l’ora del pranzo, d’inverno, e pioveva. La pioggia produceva
di continuo su la gran vetrata del laboratorio quel rumore scrosciante
che un secchio d’acqua produce vuotandosi di colpo sovra un lastricato.
Giorgio lo guardava; ed egli era seduto sotto la luce del riflettore, in
mezzo a fiale, a storte, a gelatine dense di bacilli. C’era su la tavola
un coniglio morto; in una gabbia tre topolini che giravan come trottole.
— Sai, Andrea...
— Ebbene?
— Son persuaso che tu ne riderai, ma devo nondimeno confessarti una
cosa...
— Ti ascolto.
— Ecco: mi sono finalmente annoiato di viver solo; ho un’idea fissa,
nella testa, o nel cuore, non so... Insomma c’è una ragazza alla quale
voglio bene... ed avrei pensato di prender moglie.
— Oh, strano, strano... strano.
E si ricordò di aver sollevato per le orecchie quel coniglio morto,
ch’era freddo agghiacciato, e che ricadde come piombo. Certi particolari
di nessun rilievo hanno talvolta più valore, più senso, nella memoria,
che altri avvenimenti gravi.
Gli sembrò allora, per la prima volta in tutta la vita, che da quelle
parole, da quell’attimo, fosse per insorgere un ostacolo fra loro. Ma
egli era un incredulo, un negatore: non vi badò.
In quei giorni doveva riferire all’Accademia di Scienze su la scoperta
di un nuovo bacillo e sopra un metodo di cura ch’egli proponeva,
presentando un siero, che, dapprima combattuto, invalse poi nella
medicina come un rimedio indiscusso, lasciando gli stessi medici
stupefatti per la rapidità e la potenza de’ suoi risultati. Era in quei
giorni assorto pienamente dal lavoro, nervoso, irritabile, pervaso da
quella febbre che accende l’uomo il quale sappia di possedere in sua
mano una forza prodigiosa e debba farla riconoscere dalla ottusa
diffidenza di coloro che paventano la novità; non viveva che tra la
Clinica ed il laboratorio, trascurando il cibo, accordandosi poche ore
di sonno, sostenuto solo da quella incurvabile volontà che gli stava
confitta nel cuore come una lama, fino all’elsa, in un legno duro.
E però si rammentava anche la voce di Giorgio, quando gli disse quelle
parole; una voce che non gli aveva udita mai, vergognosa o timida, come
la voce dell’uomo che debba farsi perdonare una colpa.
Gli aveva risposto, quasi con negligenza:
— Allora ti sei finalmente innamorato... ami... anche tu!... — in
quell’«anche» c’era quasi un piccolo disprezzo. Giorgio rispose:
— Anch’io.
E un’altra cosa rammentava, più nitidamente ancora, con una precisione
singolare.
Qualche settimana dopo gli venne curiosità di conoscere questa fidanzata
di Giorgio e andò con lui a visitarla nella sua casa.
L’aveva trovata bella... sì, molto bella — e null’altro. Era stato al
loro matrimonio, li aveva condotti fino alla stazione quand’erano
partiti per il loro viaggio di nozze. Se ne tornò indietro solo, un po’
triste, mentre gli pareva che qualcosa dell’antica lor fratellanza fosse
andato in fumo, poichè per tutti i sentimenti, per l’amicizia come per
l’amore, non bisogna essere che in due.
Ma una volta, forse un anno, un anno e mezzo più tardi, Giorgio lo aveva
invitato a pranzo, come soleva di tempo in tempo, e quella sera Giorgio
si sentiva male.
Ella era sempre un poco taciturna quand’egli veniva nella lor casa;
Andrea lo aveva osservato infatti, senza domandarsene il perchè. Inoltre
certi suoi movimenti, certe inflessioni particolari della sua voce, gli
parevan un po’ ambigue.
Si era chiesto sovente se Giorgio fosse felice con lei, ma non osava
parlarne con l’amico; era sceso tra loro un insensibile velo.
Quella sera lo ricevette lei sola, in un salotto che dava sul giardino
ed aveva un terrazzuolo fiorito di caprifoglio; sì, di caprifoglio o
forse di glicine: un’alberatura nodosa che saliva dal giardino
sottostante arrampicandosi nella ringhiera, e che mandava un odor forte.
Non c’eran lumi nel salotto, poichè si andava incontro all’estate; il
crepuscolo, rosso come un gran braciere, bastava da sè ad illuminare con
il riverbero delle sue vampe.
Ed ella disse che Giorgio era sul letto a riposarsi prima del pranzo
«perchè Giorgio stava un po’ male...»
Poi discorsero d’altre cose. Eran seduti vicino alla finestra, a due
passi l’un dall’altra, lei con un abito di color viola, scollato,
percorso intorno alla cintura da una grande fascia nera. Teneva i piedi
sovrapposti, poggiati sovra un cuscino: quello ch’era sotto si piegava
come avesse la caviglia rotta, con una straordinaria elasticità; l’altro
non istava mai fermo. Le calze tenui trasparivan di bianco; aveva su
ciascuna scarpina una bella fibbia di antichi diamanti, rotonda, che
luccicava.
Il rumore della sua gonna di seta ogni tanto le saliva intorno alla
persona come il rumore di una cosa viva; ella parlava distrattamente, di
cose futili, con una voce lenta, facendo lunghe pause.
Allora egli sentì per la prima volta, con precisione, ch’ella lo
guardava come una donna guarda un uomo, attentamente, minutamente, senza
lasciarlo intravvedere, e questo gli dette un senso di molestia, un
senso anche di stupefazione. Si accorse d’un tratto ch’era singolarmente
bella, d’una bellezza tentante, d’una bellezza non casta: il che aveva
quasi dimenticato dal primo giorno che la vide.
Sollevò gli occhi per guardarla negli occhi, e tutt’e due si sentirono
un po’ confusi... Di che? Di nulla; d’un pensiero, d’un’ombra, d’una di
quelle indefinibili sensazioni che sono il principio di tutti i desideri
colpevoli.
Egli cominciò ad osservarla, e subitamente gli parve di aver già
custodita nel suo pensiero l’immagine di una donna fatta come lei. Sono
vibrazioni veloci, contro le quali non si ha tempo di reagire; ciò che
le provoca è forse la loro impossibilità apparente, ciò che le alimenta
è forse il terrore che incutono.
Cominciò a guardarla egli pure, minutamente, attentamente, come un uomo
guarda una donna, e la trovò più bella che mai. Gli piacque non solo il
suo corpo, ma il vestito che portava, e quel suo nastro nero alla
cintura, ed il rubino che le brillava sul dito come una goccia di
sangue, ed il profumo del quale si era cosparsa, e la mano e la bocca ed
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