La vita comincia domani: romanzo - 13

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polvere, nereggiando nel soverchio splendore della mattinata, cullandosi
nella nenia dei salmi ecclesiastici e nel bisbiglio che faceva sotto il
gran sole quel corteo camminante.
Altri uomini frattanto s’aggruppavano intorno a Tancredo, al sindaco
Berra ed al medico Paolieri; fra gli altri un certo giornalista che
Tancredo conosceva benissimo, perchè appartenente come lui a quella
brigata clandestina di galantuomini matricolati, che vivon per così dire
di tutte le professioni altrui, grattando e scovando per ovunque l’aria
sappia di corrotto, e che stanno con gli orecchi tesi fra le quinte
della commedia cotidiana, pronti a balzar fuori come bracchi affamati
sul primo espediente che loro cápiti a portata di mano. La sua
professione confessabile era quella di giornalista, e faceva il
redattore estemporaneo di quei giornaletti effimeri nati per vendere il
lor silenzio, talvolta per fomentare uno scandalo, per farsi complici
d’una equivoca speculazione, talvolta per servire gli odii o per
lusingare le ambizioni d’un uomo potente.
La sua età poteva essere di quarant’anni, il suo nome: Saverio Metello.
Tancredo si maravigliò di non averlo prima veduto.
— Che diavolo, Metello? Cosa fai qui?
— Mi manda la «Voce», — rispose il Metello; — come vedi, sono costretto
ad occuparmi anche della necrologia... Che porco mestiere!
Tancredo sospirò e prese un’aria di cordoglio melodrammatico.
— Vedo che ti sei messo in lutto, — scherzò il Metello. — Che uomo
elegante!
Allora lo sdegno di Tancredo proruppe:
— Diavolo, non lo sai? Giorgio Fiesco era...
— Cos’era?
— Ma, per bacco, mio fratello! — Poi corresse: — mio fratellastro.
— Cáspita, è vero! E non ci avevo pensato! Ti giuro che non mi era
neanche passato per la mente! Scusami, veh... Condoglianze!
— Oh! figúrati... — fece il Salvi. E tuttavia prese un’aria leggermente
sostenuta.
Il corteo, giungendo nella piazza ingombra di folla, si fermò davanti
alla Chiesa; Tancredo, facendosi largo nella ressa, camminò dietro la
bara. Il Metello invece, dopo aver osservato con uno sguardo ironico il
suo camerata Salvi, trasse fuori di tasca un largo fazzoletto, e
piegatolo a sciarpa se lo mise intorno al collo, poichè sudava. Poi
volse uno sguardo circolare per la piazza, cercando un’osteria dove
potesse almeno bere una gassosa.
Tra l’insegna d’un ciabattino e quella d’un cordaio vide pendere la
frasca metallica d’un’osteria; essa teneva sul marciapiede tre tavolini
di ferro, con qualche scranna; v’era gente seduta; ma egli colse il
destro d’uno che s’alzava e si pose con placidità frammezzo a quegli
estranei. Volse lo sguardo in alto, aspettando che lo servissero.
L’orologio del campanile segnava le dieci e cinque; le sfere parevan
d’oro sul quadrante diviso dalla lor ombra; un vortice di rondini
roteava intorno alla guglia.
L’ostessa, panciuta, con un bel grembiule fiammeggiante, gli portò la
gassosa; egli ne bevve un bicchiere d’un fiato, e la trovò eccellente;
poi di nuovo riempì il bicchiere e stette a guardare le bollicine che vi
salivano scoppiettando. Cominciò ad imbastir mentalmente l’articolo
funebre.
«Giorgio Fiesco, nato nel... morto di... oh, di cosa è morto poi? Tisi?
Paralisi cardiaca? Mah? C’informeremo. Aveva dunque, — fece il conto, —
trentanove anni. Laureatosi ingegnere nel... questo non importa; diremo:
giovanissimo. Costrusse i ponti di... di... etc., capolavori
dell’ingegneria moderna, etc. etc. — Partì con i primissimi pionieri
della civiltà in regioni, etc. — famosi disastri minerarii, etc. —
costruì diecimila chilometri di strada ferrata... che il diavolo se lo
porti... etc.!»
Al suo medesimo tavolino eran seduti tre altri uomini, i quali si
credevan di parlar piano, accostandosi l’uno all’altro quanto più
potevano, con i gomiti poggiati sul tavolino di metallo; ma invece
parlavan in guisa da esser uditi e davano al tavolino certe scosse, che
il suo bicchiere di gassosa ne traboccava.
Uno d’essi ripeteva continuamente:
— Ti dico di sì, ti dico di sì!
E l’altro:
— Impossibile, impossibile!
Il terzo:
— Ma che impossibile d’Egitto!
Poi si guardavan intorno sospettosi. Saverio Metello, che per principio
soleva dare un grande peso ai discorsi enigmatici, prese un’aria
distratta e ricominciò a guardare in alto, verso le sfere luccicanti,
verso il balenante vortice di rondini che roteava intorno al campanile.
Onde sorprese questo bel discorso:
— Insomma, vediamo un po’: che il professore fosse l’amante.
— Va vene, va bene, questo lo so, — ammise l’incredulo.
— E che fosse incinta, lo sai o no?
— Si mormora... Ma non bisogna credere a tutto.
— Insomma, — esclamò l’interlocutore, che aveva l’aria d’un ricco
mercante, — lo ha detto a mia moglie una persona che bázzica per casa
loro; non voglio dire chi, per non compromettere nessuno; ma in una casa
è più facile batter falsa moneta che custodire un secreto. E posso
aggiungere anche questo: la gravidanza è di qualche mese.
— Del resto, — intervenne il terzo, che doveva essere un capomastro a
giudicare dal decimetro di legno giallo che gli usciva dal taschino, —
questo fra poco si vedrà.
— A meno che, — insinuò il denunziatore con aria sibillina, — ora che
lui, poveraccio, se n’è andato... a meno che, dico, non provvedano
altrimenti! Sai bene, i dottori fanno presto... E, dato che sarebbe
difficile, per non dire impossibile, attribuirne al marito la
paternità... capirai bene a cosa voglio alludere!
— Insomma, ditene quel che volete, ma io non credo! — esclamò quegli che
pareva un chierico d’avvocato, con la sua vecchia testa grigia e
ascetica.
— Allora sei testardo più d’un mulo! Méttiti bene in mente che, quando
una voce corre, qualcosa di vero c’è sempre, poichè dal niente non nasce
niente.
— Se così fosse, guai!
— Così è. Del resto, come spieghi tu il fatto che quel povero diavolo
non aveva chiuso ancora gli occhi e già tutto il paese mormorava la
stessa cosa: — L’hanno?...
— Sst!... Io non mi spiego niente, ma non credo, — fece l’altro,
caparbio.
— D’altronde, — venne a dire quegli che aveva l’apparenza d’un
capomastro, — il primo a lasciarselo scappar di bocca è stato il dottor
Paolieri, e l’ho inteso io, con queste orecchie. Eravamo in farmacia,
quando sono entrati a dare la notizia della morte. Il Paolieri è saltato
su di scatto e, senza riflettere, è venuto fuori con una frase che
lascio interpretare a voi: «È morto il Fiesco?... Me lo immaginavo! Se
l’avessero lasciato curare a me, che sono un asino, campava un pezzo
ancora!» Dopo se l’è rimangiata sùbito, anzi ha dato in escandescenze,
dicendo che l’avevan capito male... Ma l’ho inteso io, con queste
orecchie, dunque non serve che adesso egli neghi per paura.
— Insomma, — concluse l’incredulo, — volete un consiglio? Sarà quel che
sarà, ma state zitti; perchè in queste faccende v’è caso di buscarsi
qualche brutta seccatura, ed io, per me, come vi ripeto, non credo.
— Oh, tu, la sai lunga!... — fecero gli altri due, come se volessero
tacciarlo d’ipocrisia. Poi s’alzarono, ed insieme con altri sopraggiunti
entraron nell’osteria.
Saverio Metello aveva ascoltato flemmaticamente, ma senza perder sillaba
di quel grave discorso; aveva continuato a darsi l’aria più distratta
del mondo, a fissare i voli delle rondini, le sfere dorate che
camminavano sul quadrante acceso. La sua faccia restò impassibile, e,
quando i tre se ne andarono, altro non fece che sollevare lentamente il
bicchiere nel quale scoppiettavano le bollicine, poi tracannare sino
all’ultima goccia la fresca bevanda con una specie di lenta voluttà.
Era un uomo calmo, scettico, annoiato, che si risolveva difficilmente a
trovare alcunchè d’interessante nella vita, un uomo passato al di là da
tutte le sorprese, che odiava il mondo intero, ma con un odio
neghittoso. L’udire che un tale poteva essere stato ucciso, gli faceva
press’a poco lo stesso effetto che leggere nella quarta pagina d’un
giornale l’annunzio funebre d’una persona sconosciuta, od il rialzo od
il ribasso della rendita italiana, ch’egli, naturalmente, non era in
caso di possedere. Perchè una cosa giungesse ad interessarlo, bisognava
che toccasse da vicino la sua propria persona; ed allora quest’essere
apatico trovata in sè un’improvvisa e feroce gagliardìa per piombare su
tutto quello che poteva essergli utile, come sopra una legittima preda.
Il resto faceva meccanicamente, con una specie di disinganno anteriore,
con una incolmabile noia. Ora, davanti a tutto quello che aveva udito,
non trasse che una piccola riflessione.
— Adesso capisco meglio perchè Tancredo sia qui.
Supponeva naturalmente che l’ottimo Salvi ne fosse informato, e, con la
prontezza che gli era solita nell’intravvedere un affar losco, decise
d’avvertirlo in via confidenziale che nel disbrigo di quella faccenda
voleva mettere il suo zampino ancor lui.
«Pazienza! Non sarà stato un viaggio del tutto inutile.»
E trasse un enorme sbadiglio.
Adesso il funerale usciva di chiesa; la folla sgorgava dalle duplici
porte ingombrando la scalinata; una teoria di fanciulle, con il velo
della cresima, portavan i ceri funebri; quel brulichìo di smorte fiamme
pareva cancellarsi nel fulgore del sole. Ricollocaron la bara sul carro,
tra mucchi di corone, poi di nuovo il crocifero mosse in capo del
corteo.
A malincuore, anche il Metello s’incamminò. L’aver saputo eludere le
litanie dei preti non lo scampava da quelle de’ conferenzieri.
Intanto vedeva Tancredo discorrere con animazione, prodigarsi, fare un
grande sperpero d’inchini e di sorrisi. — «Ha tutte le fortune quel
birbante! Capace perfino di ereditare...» E davanti al pensiero che
Tancredo potesse ereditare, lo riprendeva un odio feroce contro tutta la
specie umana.
Presso il cancello del cimitero si trovaron lato a lato.
— Olà, bel giovine! — fece il Metello; — sono al corrente anch’io,
sai...
— Al corrente?... ma di cosa?
— Fa pur l’indiano... se ti garba!
— Uhm, non capisco... — grugnì Tancredo.
— In ogni modo, — concluse il Metello, — se vuoi che facciamo quattro
chiacchiere prima ch’io riprenda il treno...
— Volontieri.
La bara, portata a spalle, s’incamminò per il piccolo viale: i familiari
la seguivano e Tancredo s’affrettò con essi. Quando il feretro fu
deposto su l’orlo della fossa, Tancredo si trovò di faccia il Ferento.
Entrambi, quasi dimentichi d’ogni altro pensiero, per un lungo attimo si
fissarono. Poi Tancredo volse altrove lo sguardo, incapace di sostenere
più a lungo la sua bianca tranquillità.
Gli affossatori sollevaron la bara, mentre la folla erasi radunata in
cerchio presso il luogo del seppellimento. E qualcosa tuttavia di
solenne, di solenne anche per l’incredulo, si rinnovava nell’atto
semplice che nasconde per sempre sotto il lenzuolo di polvere una
spoglia supina e còrica l’uomo anchilosato, putrescente, nella divina
zolla piena di palpito che domani rifiorirà.
Ognuno intanto s’aspettava che parlasse Andrea Ferento, e nel succedersi
degli oratori ogni volta si lasciava un più lungo intervallo, mentre
tutti lo guardavano con attesa. Ma il Ferento se ne stava immobile, a
piè della tomba, con le due mani entro le tasche della giacchetta, gli
occhi fissi al coperchio della bara, e pareva che una grande solitudine
si estendesse intorno a lui.
Gli sguardi vigili del medico Paolieri non l’abbandonavan un momento,
così pure gli occhi d’altre persone disperse fra gli ascoltatori. Egli
sentiva con una specie di molestia la tenacità di quegli sguardi e
s’accorgeva di farsi continuamente più pallido come se una fredda febbre
gli consumasse la faccia. Si avvedeva di quell’attesa nella quale stavan
tutti, ch’egli parlasse, ma era ben risoluto a non dissuggellare la
bocca. Poi temette che il suo silenzio avesse a parer strano, e da
ultimo gli sembrò di parlare infatti, gli sembrò di esser ritto,
parlante, gesticolante, su l’orlo di quella fossa, ma di udire che
intorno si rideva sgangheratamente, beffando il parlatore, il morto, e
la vedova ch’era lontana, lassù, nella sua camera deserta...
I discorsi finirono, la gente non si moveva. Gli si avvicinò il sindaco
Berra:
— Professore, non crede lei pure...
— Grazie, no! — rispose il Ferento.
Ma la gente non si moveva; e lo guardavano; tutti guardavano lui. Gli si
avvicinò un giornalista ch’egli conosceva benissimo. Paolo Giordano, e
gli mormorò alcune parole a bassa voce.
Allora il Ferento comprese ch’era tuttavia «necessario» parlare; guardò
con odio la folla, eresse in un terribile sforzo la sua dura volontà, e
disse: — Va bene.
Fece qualche passo avanti, rialzò la fronte luminosa, e le sue labbra
obbedienti parlarono.

«Giorgio Fiesco...» — Limpida suonava la sua voce, senza tradire il
convulso che gli torceva l’anima, ed ancora due volte pronunziò questo
nome:
«Giorgio Fiesco... Giorgio Fiesco, ingegnere della miniera di Haswill,
costruttore del più alato ponte sopra la valle di Cimbra, io t’ho
salutato altre volte per morto, quando salpavi dal molo atlantico nel
meraviglioso pericolo della tua temerità. Senza lacrime allora, senza
lacrime ancor oggi, che non puoi tornare, ti saluto. Altro non facemmo
in vita che scambiarci nelle ore più forti una rapida stretta di mano ed
uno sguardo chiaro, che vedeva la strada fino all’ultima pietra
milliare, che non diceva mai: «Férmati» — ma diceva tranquillamente:
«Arriverai!» Poichè ti conobbi meglio di chicchessia, risponderò in tua
vece a coloro che oggi videro cadere su te la pietra del sepolcro. Le
tue parole sono queste: — «Non piangete. Un uomo sereno e stanco è sceso
nella morte che non temeva. Non fece che restituire la sua nascita, in
un’ora calma. Egli vorrebbe solamente insegnarvi a sciogliere questa
parola dal suo dolore, dal suo terrore, dall’inutile angoscia ch’essa
propaga in ogni giorno della vita; vorrebbe convincervi che la morte non
è una cosa triste, poichè il bene ultimo, l’ultima felicità degli uomini
è la pace...
«Sì, Giorgio: io che ti conobbi meglio di chicchessia, mi rammento che
pronunziavi queste parole poche ore prima di addormentarti. Ed ora che
non àbiti più nella spoglia coricata, il tuo fratello non ti deve che
uno sguardo chiaro, una stretta di mano, da compagno a compagno,
l’ultima, con semplicità.»

La sua voce solenne, il suo virile aspetto pieno di una tranquilla
magnificenza, parvero in quel momento ravvolgere l’uomo ed il sepolcro
nella significazione d’un rito. Un rito laico, ma profondamente umano,
che il simbolo del vivo compisse verso l’ombra dell’estinto, e che fosse
maggiore, più alto, più leale, di tutte le parodie con cui le religioni
accompagnano i morti a sepoltura.
Egli era scientificamente un ateo, sapeva i destini della polvere, aveva
escluso Dio. Molti, nell’ascoltarlo, si rammentavan le più note pagine
de’ suoi libri, ed anche se lontani da lui, anche se inadatti a
comprenderlo, sentivano raggiare da’ suoi occhi una potenza soggiogante,
sentivano quasi un’invidia della sua temeraria e mai genuflessa libertà.
Era un evangelista laico, un profeta che non vendeva dal pergamo le
formule dell’Assoluto, ma sui frantumi di tutti i Pantheon, delle
necropoli e delle chiese, innalzava la deità dell’uomo, dell’uomo
autocrate nel mondo, sterminatamente orgoglioso del suo nulla più grande
che Dio.
Era un profeta, non perchè avesse donato ancora una volta la
inconoscibile verità, ma perchè predicava la scienza come la sola
religione degna del tempo futuro, come quella che, svincolato il
pensiero da ogni teosofia, da ogni metafisica imbastita su ipotesi
arbitrarie o su telai di parole ingannevoli, guiderebbe ogni spirito ai
limiti della conoscenza ed al sereno amore della vita.


III

«La vedrò finalmente questa vedova!» pensava Tancredo, camminando in un
salotto attiguo alla sala da pranzo, mentre, per la porta socchiusa,
intravvedeva la Berta posare su la credenza un bel piatto fumoso.
Egli tornava dall’aver accompagnato alla stazione il suo compare Saverio
Metello, col quale aveva per l’appunto scambiate quelle quattro
chiacchiere che si erano promesse.
In quel momento entrò la signorina Dora, che, toltasi il cappello ed il
velo di crespo, ancor più frivola di giorno e più leggiadra gli parve
che di sera.
— Lei ha fame probabilmente, signor Salvi, — disse con la sua voce
fresca e maliziosa.
— Peuh... un tantino. Ma non ci pensavo neppure. In queste gravi
circostanze...
— Certo, — ammise Maria Dora con una boccuccia impertinente. — Ma ora si
va a tavola, non dubiti. — Poi soggiunse: — Cosa pensa del funerale? È
riuscito grandioso e commovente, non le pare?
— Quello che il povero Giorgio si meritava, — osservò Tancredo con aria
ispirata. — E sua sorella come sta?
— Eccola, — disse Maria Dora. Ella entrava con sua madre infatti;
Maurizio la seguiva con Stefano e con lo scemo. Poco dopo sopraggiunse
il Ferento, che lo presentò alla vedova:
— Il signor Tancredo Salvi, che forse non conoscete.
Ella fece un saluto con il capo, un saluto serio e dolce, al quale
Tancredo rispose con una specie di riverenza impacciata.
Quando furon tutti seduti, la Berta mise davanti alla vedova una tazza
di brodo; il Salvi non poteva ristare dall’ammirarla tanto, ch’ella
teneva costantemente la faccia china. Poi guardava con invidia il
Ferento, pensando: «Beato lui!»
Tranne alcune brevi parole di Maria Dora, la colazione passava
taciturna. Lo scemo aveva smesso l’abito nero, per indossar di nuovo il
suo giubbone quasi giallo, e si divertiva nel battere la stoviglia con
la forchetta, il bicchiere con il coltello; poi faceva le boccacce alla
Berta, ridendo e tirandola per la sottana ogni qualvolta costei gli
passava daccanto.
Verso la fine della colazione entrò Mattia, che aveva da parlar con
Stefano, il quale si levò, e uscirono. Marcuccio pure sorse di tavola
prima che gli altri finissero, e scomparve. Maurizio si puliva le unghie
con uno stuzzicadenti. Quando Maria Dora, che gli era seduta vicino, se
n’accorse, gli diede un colpetto con la mano; il giovinotto si mise a
ridere. La vedova non voleva neppure le frutte; sua madre le mise
tuttavia sul tondo una bella pesca, rossa come un caldo velluto, e che
mandava profumo.
— Mangiate almeno quella pesca, Novella, — disse il Ferento, che pur
tacendo si occupava continuamente di lei.
Ella volse gli occhi a guardarlo, sorrise ed obbedì.
Tancredo aguzzava tutte le sue facoltà d’osservazione, poichè la voce
del Ferento, nel parlare con la vedova, lo aveva infatti colpito: una
voce così diversa dalla sua consueta, blanda, persuadente, morbida, «una
voce — se la definì Tancredo — che pareva la carezza d’un innamorato.» E
per la seconda volta, ma quasi con rancore, si disse: — «Beato lui!»
Frattanto s’accorse che Maria Dora e Maurizio si parlavan piano e
ch’egli doveva essere appunto la causa de’ loro bisbigli. Allora domandò
al Ferento:
— Scusi, professore, quando riprende i suoi corsi all’Università?
— Fra una diecina di giorni, signor Salvi.
E basta. Non c’era proprio mezzo d’attaccar discorso. A lui pareva che
tutto dovesse avere un limite, anche il dolore per un morto, e trovò che
in fondo esageravano un poco.
— Prenderemo il caffè in sala, — disse Maria Dora. E si levarono.
Tancredo, nel salone semibuio, si sprofondò in una comoda poltrona; di
fianco gli misero un tavolino con la chicchera del suo caffè; Maria Dora
gli propose la scelta fra un bicchierino di «Chartreuse» ed uno di
«Cognac»; Tancredo preferì quest’ultimo per la veneranda polvere che ne
affumicava la bottiglia.
La sala — quella medesima sala ove poco tempo innanzi, durante un chiaro
pomeriggio di sole, Novella si era seduta al pianoforte per eseguire una
fuga di Bach, mentre il marito l’ascoltava e la guardava protendendo
verso lei con un disperato amore l’esausta persona febbricitante — la
sala medesima era come quel giorno fragrante di rose, e come quel giorno
il sole vi pertugiava dalle persiane, dissolvendosi traverso la penombra
in una striscia di polvere luminosa.
Tancredo si sentiva bene, deliziosamente bene, sicchè, abbandonandosi
alla sua natura fantastica, sognava che quella casa fosse la sua propria
casa, immaginava di potervi da quel giorno in poi trascinare una vita
opulenta e neghittosa, facendosi servire come un satrapo, satollandosi
di pasti luculliani, consumando una cantina di bottiglie decrepite, lui,
Tancredo Salvi, padrone d’una villa in campagna.
Il Ferento, in piedi su la soglia d’un altro salotto, stava leggendo un
giornale; mamma Francesca s’appisolava sul divano; Maria Dora ed il
giovinotto discorrevan sottovoce nel vano d’una finestra; la vedova era
seduta quasi di fronte a Tancredo, con le due mani poggiate sui
bracciuoli della poltrona di velluto scuro, il capo rovesciato sopra un
cuscinetto che guerniva la spalliera, sicchè la sua gola bianchissima
appariva scoverta come una procace nudità.
Allora Tancredo arrischiò una frase, timidamente:
— Si ricorda, signora? Io venivo a trovar Giorgio qualche volta in
città...
Ella n’ebbe un tremito, come s’egli l’avesse interrotta nel mezzo d’un
sogno.
— Sì, me ne ricordo, signor Salvi...
La sua voce le somigliava: era come la sua gola turgida, come la sua
gamba seminuda, come tutta la sua persona, viziata, appassionata, soave.
— Ma ultimamente era un pezzo che non rivedevo Giorgio.
— Forse da quando si ammalò?
— Appunto.
Gli occhi della vedova eran dolci, grandi, fermi: lo guardavano in
faccia, ed egli si sentiva vergognoso come un contadino sotto lo sguardo
di questa bella donna.
Maria Dora, udendoli parlare, s’avvicinò e mise una mano sul braccio
della sorella, poi s’appoggiò con i gomiti su la spalliera stessa
ov’ella teneva il capo.
— Ed ora, — domandò il Salvi — lei pensa di rimaner in villa, o forse di
fare un viaggio per distrarsi?
— Non so nulla per ora; non abbiamo ancora deciso nulla.
— Signor Salvi, — disse d’improvviso il Ferento, con una voce quasi
gaia, — vuole che facciamo insieme una passeggiata nel giardino?
Egli si levò in piedi con un atto di repentina obbedienza e rispose: —
Volentieri.
Scesero dalla scalinata e s’allontanarono fra gli alberi. Camminando, il
Ferento ripiegava con lentezza il giornale, che poi si mise in tasca. Ma
d’un tratto e senza preamboli disse:
— Lei desidera probabilmente saper qualcosa intorno al testamento di
Giorgio Fiesco, non è vero?
— Ecco, no... ossia... — spiegava Tancredo con impaccio.
— Dunque: il testamento fu trovato nella sua scrivania ed ora è nelle
mani del notaio Garlantini, qui del paese, presso il quale può prenderne
visione quando crede. È molto semplice: istituisce la moglie erede
universale, tranne un cospicuo legato in terre ai suoceri Landi, perchè
poi lo trasmettano alla lor figlia Maria Dora. Qualche ricordo agli
amici più stretti: lei non vi è nominato.
— Ah, benissimo... — rispose livido il Salvi, che per tutto quel
discorso aveva trattenuto il respiro.
— Ecco: volevo dirle questo, — concluse il Ferento.
«È un colpo forte, forte, forte...» — pensò Tancredo. Guardò in terra,
in cielo, fra gli alberi, poi soggiunse:
— Ma, scusi, lei trova giusto?... le pare una cosa giusta?...
— Sì, — rispose il Ferento con una voce pacata.
Il Salvi a tutta prima non seppe che dire; quella risposta recisa lo
sbalordì.
— Giusta fino ad un certo punto, — si permise di osservare. — Dopo tutto
ero il solo parente...
— Che vuole? Non è sempre la parentela quella che suggerisce gli
affetti, e le dico in verità, poichè mi ha domandato il mio parere, che
Giorgio Fiesco non avrebbe potuto accorgersi di avere un fratello, o sia
pure un fratellastro, se non dopo la sua morte.
— Ma non era colpa mia se...
— Via, non le pare che sian discorsi oziosi? Volevo dirle piuttosto una
cosa, signor Salvi. Lei è arrivato iersera ed ha creduto opportuno
alloggiare in villa, pur non conoscendovi nessuno...
— È vero, professore; ma era così tardi... poi desideravo...
— Mi lasci dire. Tutto questo può esser ancor naturale. Ma quello che
trovo assai meno lecito è il suo contegno in tale circostanza.
— Quale contegno, professore? Ho cercato solo di rendermi utile.
— Quel che trovo assai meno lecito, — continuò il Ferento senza badargli
— è per esempio la sua dimestichezza improvvisa con persone di servizio,
che vanno lasciate in cucina.
— Ah, lei vuol dire... — fece Tancredo mordendosi un labbro.
— Non volevo dirle altro che questo, signor Salvi, e mi perdoni la
libertà. Ma siccome la famiglia Landi è molto colpita in questo momento
ed io sono il loro amico più stretto, così ho creduto necessario di
parlarle chiaramente.
Si era fermato e gli esponeva queste cose con affabilità, con una
garbatezza calma e sicura, davanti alla quale Tancredo non seppe che
rispondere.
— Mi scusino... — mormorò.
— Nient’affatto, signor Salvi; lei non deve scusarsi affatto.
Poi gli parlò d’altre cose affatto prive d’importanza, tornando passo
passo verso la villa.


IV

Da questo colloquio Tancredo intese che le parole del Ferento
equivalevano ad un commiato e che perciò era necessario far presto.
— Non dubitare che mi vendico! — borbottava a denti stretti, ripreso da
un accesso di bile nel pensare alla sfumata eredità. E seduto nella
medesima poltrona, in quella profumata sala dove non c’era più nessuno,
immaginava con iracondia le sue vendette future. Ma poco dopo entrò lo
scemo, s’accocolò in un angolo e, preso l’archetto, incominciò ad
eseguire sul violino quell’unica dolorosa Canzone ch’egli sapeva.
Arrivato ad un certo punto, s’interrompeva sghignazzando, e ricominciava
da capo.
— «Di’, scemo? seguiterai per un pezzo a farmi questo bel concerto?» —
-mormorò Tancredo a mezza voce.
Ma lo scemo, che aveva un udito finissimo, lo intese, o intese almeno
l’epiteto, del quale si corrucciò. Scese dalla seggiola, e con il
violino in pugno gli venne davanti, minaccioso.
— Come ti chiami? Chi sei? Cosa fai qui? Vattene!
E con l’archetto gli segnava l’uscio, protendendo sul collo turgido la
faccia incollerita. Per prudenza Tancredo si levò in piedi e fece atto
di ubbidirgli, ma riparatosi dietro la poltrona cominciò a fissarlo.
— Dica, professore... non facciamo scherzi! Professor Marcuccio, per
carità... si calmi, professore!
Accortosi che quel nome produceva un buon effetto, glielo dispensò a
manate: Professore, professore...
— Non ti piace la musica, eh? — lo derise Marcuccio, battendo l’archetto
sul violino.
— Così così...
— Allora forse preferisci che ti legga una poesia?
— Ecco, — disse Tancredo con longanimità, — preferisco.
Lo scemo depose il violino, trasse di tasca un quaderno scarabocchiato
di righe storte, si pose nel mezzo della stanza, e imitando gli oratori
che aveva uditi quel mattino al camposanto, cominciò a leggere:
«Sette matasse di lana
di sette colori che sono:
il bianco, il giallo, il verde, il rosso, il blu,
— gli altri due non so più —
hanno filato le monache
per fare il lenzuolo di morte
ai morti del paese.
Sette matasse di lana,
perchè si marita domani
il maniscalco che batte,
che picchia, che batte, che picchia,
sui ferri, tutta la settimana.
Sette matasse di lana.
— Ti piace?
— Sì, professore, è molto bella. Come dice?... «il rosso, il giallo, il
verde, il bianco, il blu, — gli altri due non so più...» Bello! molto
bello!
E Tancredo batteva le mani.
— Silenzio! — impose lo scemo. E ricominciò:
«Sette rocchetti di refe,
di refe bianco e di refe turchino,
hanno filato le monache
per fare una vesta da festa,
tutta bianca e tutta rosa
alla Berta che va sposa:
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