La vita comincia domani: romanzo - 02

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era d’alta statura, un po’ rigido e ben complesso nelle membra dotate di
virile giustezza: il mento segnato con forza, la bocca aspra, i baffi
corti, precisa la maschera del volto, fermi gli occhi ed accesi d’una
insostenibile fiamma, la bella fronte piena di sovranità. Questa
imperiosa fronte, come soltanto hanno i ribelli e i dominatori, stupendo
segno di forza, pareva che facesse nascere, che spingesse indietro
l’onda maschia della capigliatura, già venata nel mezzo e su le tempie
di qualche filo bianco. Un’eleganza sobria, una singolare nobiltà,
trasparivan da ogni suo gesto; e come se la natura nel foggiare il suo
calco avesse voluto con un segno d’imperiosità predestinarlo al comando,
l’intera sua persona raggiava magnificenza. Nell’espressione del volto,
in tutte le sue membra così pienamente virili, dominava il segno d’una
volontà inflessibile come l’acciaio. Diritta, piombante fra i
sopraccigli, aveva incisa nella fronte una profonda ruga.
Tosto che lo vide, Marcuccio si levò e gli mosse incontro:
— Vi aspettavo, professore, — disse con tono declamatorio. — Sono giunto
alla fine del nono capitolo. Ho scoperto la teoria dell’equilibrio fra
gli uomini e le piante, fra la pietra e l’uomo. Volete che vi legga?
— Non ora, Marcuccio, — egli rispose benevolmente; — mi leggerai più
tardi.
Nel frattempo la Berta entrava, recando sopra un vassoio il caffè
bollente, che spargeva in nuvole di vapore il suo delizioso aroma. Non
appena Marcuccio ebbe veduta la rubiconda fantesca, (poich’egli l’amava
d’un amor voglioso e tutto ne ardeva nel fuoco d’una tardiva pubertà),
scioccamente le si mise intorno a vezzeggiarla e provocarla con insulse
risate. In quel rinascere del tempo di primavera lo scemo sentiva le sue
vene gonfiarsi d’una sensuale gioventù; la florida carne della ragazza
ventenne come una droga selvatica lo riscaldava di bramosie. Nel giorno
l’assaliva per gli angoli della casa, la notte passava lunghe ore dietro
l’uscio della sua camera, guardando per la serratura e picchiando
affinchè gli aprisse; per lei verseggiava con incoerenza e scriveva
lunghe pagine d’amore.
Ed ecco, lo scemo si mise a dondolarle intorno, canticchiando queste
parole che aveva cucite insieme chissà con quale intendimento:
«Quando la Berta scende al villaggio
non ha il coraggio
di guardare in faccia
nè Pippo dritto, nè Pippo storto,
nè il macellaro, nè il beccamorto.
Maria Dora, nel mescere il caffè, ripeteva insieme con Marcuccio:
nè Pippo dritto, nè Pippo storto,
nè il macellaro, nè il beccamorto.
Poi disse a Marcuccio:
— Non vedi che la fai scappare? La Berta non vuol saperne di te.
— Sorellastra, non parlare di quello che non sai! Vérsami il caffè.
Maria Dora gli riempì la tazza, ed egli si prese con ingordigia un
grosso pezzo di focaccia.
— Maria Dora, — disse Giorgio, mentr’ella se ne andava dall’uno
all’altro mescendo il caffè, — v’ho intesa cantare tutta la mattinata:
avete una bella voce.
— Sicuro, e farò la cantante! Perchè io, — disse con intenzione,
guardando Andrea, — non son nata per il matrimonio... Affatto! Ecco il
vostro caffè, signor Andrea. E farò la cantante, con dietro uno
strascico di seta lungo due metri...
Così dicendo ne faceva il gesto.
— Bada che versi il caffè! — l’interruppe sua madre.
— ... e una bella parrucca di color stoppa, le labbra dipinte, la faccia
imbellettata, una scollatura fin qui... E voi, signor Andrea, mi
manderete un bel cesto di fiori per la mia serata d’onore... Già, ma
frattanto la mattina russate così forte che vi si ode fin nel corridoio.
— Vorrei sapere dove hai imparato a discorrere in questa maniera
sconveniente! — esclamò padre Stefano.
— In convento, papà... dalle piccole suore! Si parlava così da mattino a
sera, poi si pregava... quanto si pregava dalle piccole suore!
— Che impertinente!
— Volete un po’ di crema, signor Andrea? È fresca.
— Volentieri, — egli rispose. Intanto le osservò le mani. — Veh!... che
manine ben curate avete ora! C’è dunque una manicure nel villaggio?
Ella prestamente nascose la mano libera dietro il dosso:
— Vi burlate sempre di me, signor Andrea...
Ancora un poco discorsero insieme, poi ciascuno se ne andò per le
proprie faccende; mamma Francesca nella guardaroba per curare i bucati,
Maurizio con Stefano a battere la collina in cerca di lepri, Giorgio a
intiepidirsi le spalle freddolose nel bel sole che allietava il
giardino. Novella scese con lui, sorreggendolo mentre poneva il piede su
la scalinata, e, quando furono in mezzo al viale, si volse per
domandare:
— Voi non venite, Andrea?
— Finisco la mia sigaretta quassù, discorrendo con Maria Dora, — egli
rispose, rimanendo ritto su l’ultimo gradino e fissando la bella figura
di lei, che s’allontanava. Lo scemo erasi di nuovo rannicchiato nel suo
cantuccio e rileggeva gravemente le pagine interrotte.
— A discorrere con me? — fece Maria Dora. — Come possono interessarvi le
mie chiacchiere?
— Molto, forse... Ma, se avete altro a fare, posso anche rimaner solo.
— Non avrei altro a fare che finire di vestirmi... — ella disse con
civetteria. — Sono ancora tutta in disordine.
— Forse di donne e d’abiti m’intendo assai poco, ma mi sembra, Maria
Dora, che così vestita stiate deliziosamente bene.
— Ora, — disse Marcuccio avanzandosi fra i due, — ora, professore,
mandate via Dora, che vi leggerò qualcosa.
— Veramente, Marcuccio, — egli rispose con indulgenza, — queste letture
si ascoltano meglio la sera. Di giorno c’è troppo svago e troppo rumore.
Attendi fin stasera: verrai nella mia camera e leggeremo. Intanto
lavora.
— Come volete... — rispose lo scemo, con malumore. Ma sùbito si arrese a
quel ragionamento: — Certo la sera è meglio; si è più raccolti. Solo non
posso trovare il titolo per il mio libro: me lo dovreste suggerire voi.
— Ci penserò, Marcuccio, e stasera lo avrai.
Allora lo scemo si ritrasse, parlando fra sè, con ampi gesti: — Voglio
divenir celebre, celebre, celebre!... — Poi, forte: — Spiegàtemi: come
si fa per diventar professori?
— Io vi dicevo, Maria Dora... — E rispose a Marcuccio: — Si studia e si
lavora.
— Aouff!... — esclamò Dora stizzosa.
Ma lo scemo, senza badarle:
— E quando avrò pubblicato il libro, mi chiameranno professore?
— Certo, certo!
Marcuccio si allontanò mormorando: — Celebre! celebre... professore!
— Dunque vi dicevo, Maria Dora, che nell’abito di questa mattina voi
state deliziosamente bene. Poi vi curate ora con somma attenzione; ogni
volta che torno dalla città, e vi rivedo, mi serbate una sorpresa.
— Ma sapete, signor Andrea, che non riesco bene a comprendere se
parliate sul serio o per burla! — esclamò la fanciulla, un po’ confusa.
— In ogni modo so che vi divertite spesso alle mie spalle... e fate
male!
— Perchè?
— Perchè questo, in fondo, mi potrebbe anche dispiacere...
— Ma io dico sul serio, — egli fece con pentimento.
Ella sùbito si rasserenò: — Allora continuate! Fàtemi un po’ la corte...
— Ecco, dicevo che siete ora una signorina, del tutto signorina, e molto
graziosa, e molto... desiderabile!
— No... — ella si schermì con civetteria.
— Ma sì... molto desiderabile! Vedo anche, per esempio, che avete
cambiato pettinatura; non è forse vero?
— Sì. Vi piace questa?
— Molto mi piace; vi sta molto bene: v’invecchia. Ora non sembrate più
la piccola educanda ch’eravate all’uscir dal convento. Vi ricordate? Son
venuto una volta con Giorgio e con Novella a trovarvi nel parlatorio.
Cosa fanno le piccole suore?
— Vado a visitarle di tempo in tempo e canto ancora nei cori.
— Infatti, voi avete sempre quella freschissima voce... Anche stamane,
vestendomi, v’ho intesa cantare.
— Ed anche prima... dormendo! — lo punse Maria Dora.
— Già, russando, come voi dite... Ma questo non conta. V’ho intesa, in
ogni modo, e voi eravate, credo, nel giardino.
— E nel giardino, e nella sala, ed in cucina, in granaio, nel
corridoio... dappertutto!
— Ma io dico nel giardino perchè è più poetico, vi pare?... Dunque la
vostra voce veniva su limpida e quasi primaverile, come se la portasser
dentro i raggi del sole... È sentimentale questo? Vi piace?
— Così, così...
— Allora, non so perchè, ho pensato ch’eravate una signorina, una bella
signorina, e ho deciso di farvi un poco la corte. Ecco, e vi faccio la
corte ora, come desiderate voi...
— Per ridere? — ella domandò perplessa.
— Ma... già! la corte si fa sempre per ridere.
— Allora siete molto maleducato! — ella esclamò con dispetto.
— Davvero?!
— E non so perchè vi divertiate a farmi del male...
— Che male vi faccio?
— Ma... naturalmente! Se io, per esempio, prendessi le vostre parole sul
serio? Mi avete detto che sono una signorina, ben vestita, ben curata,
con le unghie lucide... vedete... — e gliele mostra; — che vi piace la
mia pettinatura... — se la tocca; — che canto bene... che la mia voce
era come una primavera, mentre vi destavate appena... e tutto questo può
turbare una ragazza, può farle un certo male, può darle quasi una
profonda voglia di piangere... ecco!
— Oh, no!... Allora vi domando scusa e vi prometto di non farvi mai più,
mai più la corte... Va bene?
— Chissà se va bene?... chissà... Anzi non va bene affatto!
— E perchè?
— Il perchè non ve lo dico. Ma voi siete un uomo crudele: lo si vede dai
vostri occhi!
— Ohibò! Ditemi una cosa: quanti anni avete ora, Maria Dora?
— Diciannove anni e mezzo, signor Andrea!... — ella rispose con un
sospiro.
— Oh!... e lo dite come se fosser molti!
— Per me sono molti... — Poi fece una pausa, una lunga pausa: — Del
resto lo so bene che non posso interessarvi per nulla... io!
Quante cose in quell’«io», così breve, così profondo!
— Perchè, Maria Dora? — egli fece, un po’ confuso.
— Voi domandate troppi perchè, mio caro!... I quali sono difficili a
dirsi, e non si debbono dire. Credete forse che a diciannove anni e
mezzo non si veda nulla? Invece si vede tutto. E si sa tacere anche...
certo: si sa tacere.
Egli la guardò con un senso timoroso di maraviglia, per quel sùbito
mutamento avvenuto in lei, nella frivola bimba, piena d’allegrezza e di
civetteria. Ora ella parlava gravemente, come se dal volto le fosse
caduta una maschera d’infantilità, e lo sguardo intenso de’ suoi occhi,
l’attitudine amara della bocca, la facevan singolarmente rassomigliare
alla sua triste sorella.
— Non vi comprendo più, Maria Dora... Quello che voi dite mi sembra
strano.
— Strano?... Forse. Ma, vedete, non bisogna burlarsi di me; non bisogna
prendermi come un piccolo gioco, perchè io so anche pungere, se voglio.
Solo, non voglio pungere voi, ed il perchè... — Fece di nuovo una pausa,
nella quale tornò ridente: — ... il perchè lo so io sola! Non ve lo dirò
mai. E per non dirvelo me ne vado. A rivederci!
S’alzò e corse via come un leggera farfalla, ridendo, e lasciando
nell’aria il suo limpido riso.


II

Egli era nella sua camera, insonne, affacciato al davanzale, quando già
nella casa dormente più non udivasi alcun rumore. Aveva spento il lume,
per abbandonarsi al torpore delle proprie meditazioni; ma la stanza era
piena d’una luce quasi fantastica, per il chiarore che vi tramandavano
le infinite stelle. Splendeva il suo letto, splendeva il grande armadio
vetrato, carico d’orciuoli, di fiale, di vasi, d’ampolle medicinali.
Ondeggiante, sfioccata, lontana, una striscia di nebbia navigava sopra
il mare delle foreste, ogni tanto mutando colore, come un naviglio
veliero, nell’incantesimo della notte. E quella striscia di nebbia era
una immagine dell’anima sua, sospesa fra i più grandi abissi, incerta e
pur navigante.
A stordirlo salivano dall’inebbriante giardino vampe di profumi e
d’aromi, come se la primavera dormente fosse un’ara infinita e vi
bruciassero incensi; ma, chiudendo appena gli occhi, vedeva un immenso
lenzuolo nero scendere su quel mondo stellato e gli pareva che fantasmi
orrendi si aggirassero nella tenebra disperata.
Egli pensava ancora una volta all’amore e al delitto: — le eterne fiabe
degli uomini: il delitto, e l’amore.
Poi gli parve udire quel lievissimo fruscìo noto, dietro l’uscio, quel
respiro di lei che sentiva quand’era impercettibile, quel profumo di lei
che lo snervava quand’era pur lontana, e si volse.
La vide infatti, che socchiudeva la porta con precauzione, appena tanto
da potervi passare; la vide che tremava per un lieve scricchiolìo dei
cardini, tutta raccolta nelle spalle, quasi volesse annullare anche il
proprio respiro... e fu nella camera. Girò la chiave con cautela, perchè
la serratura non stridesse, poi gli scivolò accanto, lieve, con un
brivido, nel quadrato azzurro della finestra.
Egli non si mosse, non la baciò. La guardava. La guardava con una specie
di stupefazione, tanto il timore e l’amore facevanla bella. Ma
poich’erano vestiti entrambi di nero, ad entrambi sembrò che vi fosse
qualcosa di funereo in quella veglia che facevano davanti alle stelle.
— Che hai? — diss’ella.
Il respiro della sua bocca, poichè aveva il sapore medesimo della sua
carne, parvegli che fosse un bacio. Sotto quel bacio egli s’irrigidì,
chiuse gli occhi, volendone quasi godere una tentazione più prolungata.
Ella nervosamente gli posò le mani su le spalle:
— Che hai? Perchè mi sfuggi?
Allora, d’improvviso, l’attrasse nelle sue braccia, se la strinse al
cuore con una specie d’amor convulso, affondando la bocca nel tepore del
suo collo, nel principio della sua nudità. Ella era piena d’istinti
lascivi, come nella più matura estate un favo è gonfio di miele. Tanto
pallore le scorreva nel viso, che di quel solo bacio pareva godesse un
estremo piacere.
— Perchè mi sfuggi? — domandò ancora, ma contro la sua bocca. — Durante
il giorno, appena mi guardi; quando arrivi, quando parti, cerchi sempre
di non parlare con me.
Egli non rispose; ma sostenendo sul braccio il peso della sua nuca
rovesciata, le carezzava gli occhi dalle ciglia quasi d’oro, a lungo e
piano, come si fa talvolta per addormentare un bimbo.
— Non mi ami più?... — ella disse, mentre invece sentiva la passione
dell’amante invaderle ogni vena come una immateriale carezza.
— Sì!... sì!... — egli proruppe; — ma sono un vilissimo uomo, Novella, e
fra noi ci sono troppe ombre.
Allora ella si strinse nelle braccia dell’amante come in forte rifugio.
— E adesso, dorme? — domandò Andrea.
— Sì, dorme.
— Ne sei certa?
— Sì.
— Ti ha parlato di... noi?
— Non ancora, ma ogni momento pare che sia per farlo.
Tre stelle filanti, lontane, veloci, caddero insieme. La notte si
accendeva di chiarori fantastici, di vampe fatue, per ogni dove, come un
rogo. Egli, tenendola nelle sue braccia, le fissava la fronte
illuminata, quasi fissasse un punto magnetico, seguendo le bufere de’
suoi propri fantasmi. E vedeva su quella fronte le radici dei capelli
scintillare minutamente, quasi fossero cosparse d’una invisibile polvere
d’oro.
— Novella, — esclamò, — che faremo?
Egli disse queste parole con un’esausta voce desolata, e le disse, lui
così forte, come un bimbo.
— Non importa, — ella fece, scuotendo il capo. — Se tu mi ami, non
importa! Quello che vuoi... anche uccídimi!
Parlava come in un’ebbrezza, piena di lui, sotto il potere del suo fermo
sguardo. E rovesciando la gola turgida esclamò di nuovo: — Poichè fra
poco saremo scoperti, e poichè il nostro bimbo non può, non deve
nascere... poichè non possiamo avere la nostra felicità... uccìdimi, se
vuoi, ma con le tue mani... con le tue sole mani, che amo... non mi
farai male.
Ora la sua passione la transfigurava in una bellezza più che umana, e
questa offerta di martirio pareva, su la sua bocca, semplice.
Egli s’irrigidì; un lampo sinistro gli splendette negli occhi: tutta la
volontà parve gli balzasse d’improvviso al sommo dell’anima,
inflessibile.
— Era il mio amico e non lo è più, — disse con una tetra lentezza; — era
il mio fratello, e non lo è più. Ho creduto ad altre cose false nella
vita, e le rinnego; una sola cosa è vera, necessaria, inevitabile: te.
Fece una pausa dura e guardò nella notte che brillava; brillava come un
incendio di fosforo, su tutte le cime, vertiginosa. Poi affermò, piano
con le labbra, ma forte nel cuore: — Sì, è possibile!
— Che dici?
— Nulla; non voler sapere. Questo solo posso dirti: non ti perderò. Se
ho potuto per questo amore giungere alla frode in cui viviamo entrambi,
se ho potuto annullare la mia coscienza fino a tradirlo nella sua casa,
vicino all’ora forse della sua morte... questo solo posso dirti,
Novella: non ti perderò.
Ella ebbe un sorriso estatico, che le rideva fin su le ciglia, che le
sperdeva gli occhi in una immensa felicità.
— Così mi ami?
— Così, e più forte. Non dimenticare queste due parole: «più forte».
Fiumane, fiumane, quasi d’un sole notturno, invadevano lo spazio,
ravvolgendo come di gloria il loro colpevole ma stupendo amore.
Sul tetto della casa, forse, o forse nei rami dell’antichissima quercia,
un usignuolo cominciò a cantare. Le ghiaie frammiste con frantumi di
vetro mandavano sprazzi, simili a quelli che davan i suoi denti nel riso
d’ogni bacio, fra i due fili rossi delle labbra. Ella fu sua con tanta
disperazione, con tanto delirio, che le sembrò veramente di sentirsi
dare la morte, fra vena e vena, per tutto il sangue, fino al cervello,
senza patirne, come aveva detto, alcun male.
Nello stesso tempo, e solo qualche passo più in là, diviso appena da
leggere pareti, un uomo afferrato già dalla morte vera, da quella bieca
e putrida che porta indosso un lenzuolo per coprirsi le costole nude,
sussultava in un sonno angoscioso, respirando a fatica il lezzo del suo
proprio respiro, con la fronte che si bagnava di uno stillar gelido,
l’anima che si rompeva in un tormento senza pace: carcame d’uomo
incominciato a marcire.
Ancora una volta era necessaria quella vicinanza, che non è fortuita ma
universale, della voluttà con la disperazione, del nascere con il
morire: inestricabile nodo che s’aggroviglia nell’ironia continua della
vita. Una casa d’uomini dormiva insensibile nella notte bianca, e da due
finestre vicine usciva unitamente a sperdersi nell’aria stellata un
respiro voluttuoso d’amanti che s’inebbriavano ed un fioco rantolo
d’addormentato, ch’era già quasi un rantolo d’agonia. Sopra questi aliti
vicini e dissimili, che sono tuttavia la parola di tanti silenzi
notturni, sul tetto della casa, forse, o forse nei rami
dell’antichissima quercia, un usignuolo, come per ischerno, s’era messo
a fischiare.
E forse in quel sopore affannoso, come traverso un velo di lontana
irrealità, il malato sognava...
Si rivedeva nella piena giovinezza, povero ma risoluto a far molto
cammino, senz’altra ricchezza nella vita che il suo forte ingegno ed un
amico più forte. Questi era medico ed egli ingegnere di ponti e miniere,
sbalzato dalla sorte in ricche terre inospitali, a tutte le temerità
risoluto pur di conquistarsi la vita. E si vedeva nei pozzi profondi,
ne’ corridoi angusti, malsani di miasmi e di gas asfissianti, con le
squadre di operai destinati alle galere sotterranee, armati di maschere
e di lanterne cieche, non più simiglianti ad uomini ma quasi a rettili
tenaci contro i forzieri della terra; si rammentava le tragedie, gli
eroismi laggiù, dove il sole non è mai giunto, e riudiva quel sordo
rombo della macchina calata nelle viscere della terra, per rovistarla e
ferirla come una sonda nell’utero materno, e rammentava le catastrofi
repentine, con gli urli delle vedove e dei figli intorno ai cadaveri
carbonizzati...
Poi le ore di vittoria, quando si era messo con i cercatori d’oro, con
gli impavidi pionieri che l’umanità spinge come vessilli a’ suoi limiti
sconosciuti, e quando, per aprire altri valichi alla potenza temeraria
dell’uomo, aveva trionfalmente forato il grembo calcareo delle montagne,
gettato ponti leggeri come ghirlande di ferro sopra fiumi turbolenti, e
condotta l’acqua ove le terre ardevano di siccità, e deviata la piena
delle valli di straripamento...
Non amori inutili, non sciocche ambizioni, ma la voglia di vincere, sola
e terribile nella sua bellezza, e quest’unico amico del cuore splendente
come l’acciaio, che a sua volta vinceva nei dominî liberi della scienza,
che scopriva bacilli nefasti, che inventava sieri prodigiosi: questo
rinnovatore che le Università si contendevano, questo violento
sollevatore d’uomini che lanciava traverso il mondo possa di volumi
clamorosi... Certo l’avevano contesa palmo a palmo, fraternamente, la
lor terra di conquista, e ciò che aveva spronato l’uno a superare sè
stesso era la vittoria del compagno; ciò che li aveva sorretti entrambi
nelle ore più tragiche, era soltanto la loro scambievole fraternità. Non
mai fra loro un’ombra d’invidia, che non fosse la più generosa
emulazione; mai secreto nè diffidenza fra loro, tanto eran certi e fermi
nel voler compiere insieme, fra qualsiasi evento, l’intero cammino della
vita.
Sì, forse il malato sognava...
Sognava di lei, quando la vide per la prima volta e la guardò per la
prima volta con un pensiero d’amore, così bella che gli parve una cosa
inaspettata, nuova nel mondo, benchè sembrasse allora un po’ malata, e
non d’altro forse che della sua faticosa verginità. Si ricordava d’aver
comprato per lei forse il primo, l’unico mazzo di fiori ch’egli mai
desse ad una donna, e ricordava la prima volta che ardì stringerle una
mano, con paura profondamente soave, per dirle infatti ch’era bella,
bella, bella, e che l’amava con un cuore ignoto, con un’anima nuova,
nata in quel momento...
Si ricordava quella voce di lei, così grave, così lenta, quando chinò la
faccia e gli rispose:
— Sì, Giorgio, vi sposerei volentieri, se lo voleste...
Allora gli si aperse negli occhi un infinito paradiso, e queste parole
gli parvero piene d’un immenso amore, perch’egli fino a quel tempo non
era stato amato mai.
L’aveva poi svestita, una notte, religiosamente, quando ancora fra i
suoi capelli sciolti fluttuava l’odor nuziale della corona d’arancio; e
nel vederla sua, per sè, per sempre, si sentì naufragare in una gioia
troppo grande, che gli soverchiava l’anima, onde gli parve che ogni cosa
di quel momento si disperdesse fuori dalla vita, in un colore
d’impossibilità. Erano stati felici insieme — o così gli parve — qualche
anno, poi... Poi, già nello svestirla quella prima notte, si era sentito
ruggire dentro un male sordo, crescente...
E infine accadde che una volta fu sorpreso di attonita maraviglia
nell’ascoltare la voce di sua moglie che parlava con Andrea...
Era un sogno, poteva non essere che un sogno... e l’usignolo,
nell’azzurra notte, spietatamente cantava.
. . . . . . .
Ella s’avvinghiò al suo collo, seminuda, sobbalzando sul letto, e
mormorava con voce soffocata:
— Ascolta...
Tesero l’orecchio, ambedue mortalmente paurosi, verso la parete, verso
l’uscio, verso la camera lontana.
— No, t’inganni, — egli disse. — Non sento alcun rumore.
— Sst... taci!
Ascoltava, protesa innanzi nello splendore del raggio lunare, che
vestiva d’innocenza la sua lussuriosa nudità; teneva un braccio intorno
al collo dell’amante, l’altro puntato su la sponda del letto, con le
dita aggrappate nella coltre come bellissimi artigli, tra l’ansia del
pericolo, atterrita ma pronta. Il respiro contenuto le gonfiava la gola,
palpitante ancora di voluttà; i capelli semisciolti le ingombravano il
collo bianchissimo; tra i pizzi della camicia un seno erto le sbocciava
come una splendida melagrana.
Ma non udiron altro che l’usignuolo infatuato lanciare i suoi fischi
melodici nell’odorosa notte, sopra una orchestra lieve che
l’accompagnava in sordina, con brividi appena di foglie nei respiri del
vento.
Racquetata, ella si compresse il cuore con una mano e s’allentò nelle
sue braccia.
— Se mi chiamasse di nuovo, come la notte scorsa? — mormorò.
— Sì, hai ragione. Làsciami.
— Ancora un momento... Guarda quante stelle!
Ubbriacato, egli le passava le dita fra i capelli, posava la bocca su la
sua pura fronte.
— Dimmi... — ella fece; — una cosa orribile che finora non ti ho mai
domandata... Andrea, tu che sei medico...
Per osare una tale domanda ella nascose la faccia contro di lui,
affinchè non la vedesse. — Tu che sei medico, dimmi: È grave?... è molto
grave il suo male?
Egli rispose bruscamente, con una scossa che lo percorse da capo a
piedi:
— Non so! non so!
Ed ella, con un filo di voce appena percettibile:
— Può guarire?...
— Ah... taci!
Ma la strinse così forte a sè, che tuttavia non si sentì odiata. Allora
ella cominciò a parlare sommessamente, con una voce cauta, pressochè
insidiosa, mettendo lunghe pause fra parola e parola.
— Vedi, questa notte, quando ti ho chiamato, ed eravamo curvi, tu da un
lato, io dall’altro del suo letto, soli, nel chiarore di quel lume così
funereo, io, come in un lampo, involontariamente, ho pensato: Se... se
domani...
— Se non ci fosse più! — egli disse con una voce tetra.
Ed ella non li vide, ma gli occhi di lui splendettero d’una luce quasi
micidiale.
— Anch’io, — diss’egli lentamente, con uno sguardo atono, — anch’io ho
pensato questo. Era quasi un incubo, ed avevo la visione precisa del
cadavere, come se dalle sue membra immobili soffiasse già quel freddo
che mandano i morti.
Rabbrividita, ella si agitò nel letto e si ristrinse contro il tepore
dell’amante. Ma egli, senza un tremito, e quasi provando una gioia
malvagia nel torturare sè e lei con queste parole, ricominciò:
— Era veramente un incubo, e chinandomi sopra il suo cuore fioco, io,
medico, io suo amico, sentivo solo dall’altro lato del letto il profumo
che veniva dalla tua persona bella e viva, l’odore di te che mi
sopraffaceva, quell’odore de’ tuoi capelli un po’ disfatti, che
portavano ancora il segno del guanciale... e l’orrore di sentirmi così
colpevole davanti a quella specie d’agonia, accresceva smisuratamente il
desiderio, il desiderio fisico, intendi? che avevo di te.
Ora fu ella, smarritamente, che supplicò:
— Taci!...
Ma egli s’inebbriava della sua propria nefandità, si esaltava della sua
propria tortura.
— Lo sai che ho dato finora tutte le mie forze umane alla difesa della
vita? Lo sai che sono un medico? un salvatore? Lo sai che ho fatto
rinascere centinaia di uomini, e tanto amore mettevo in quest’opera, che
per salvare la più inutile vita serenamente avrei data la mia?...
M’intendi? Ebbene, ora per la prima volta concepisco la possibilità
astratta di rinnegare la mia missione; e questa morte, questa ingorda
morte, che ho combattuto accerrimamente, con il cervello e con le
braccia, nelle corsìe degli ospedali, fra i crogiuoli de’ miei
laboratori, questa morte che fu la mia nemica dappertutto, che odiai
fino all’eroismo, la vedo per la prima volta come un’alleata, quasi come
una benefattrice... e mentre le mie mani avvezze lottano ancora contro
di lei, macchinalmente, su questo corpo che ci divide, il mio cuore, il
mio spirito, il mio nascosto essere che vuole te, la chiama, la chiama,
e le dice con un’oscura voglia di tradimento: — Sì, che tu sii la più
forte... e ch’io non ti sappia vincere mai più!
Ella gli pose una mano su la bocca, una sua mano fredda, che aveva il
profumo della colpa, e quella buia fossa che andavano scavando al
morituro, ancora una volta colmarono di voluttà.


III

— Un’imprudenza? Ebbene, sì, mi è piaciuto commettere un’imprudenza! —
disse Giorgio a Novella ed al Ferento. — Se sapeste con quale delizia un
malato, come un bimbo, cerca di fare le cose proibite! Povero me!... non
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