Il roccolo di Sant'Alipio - 13

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abnegazione personale completa. Ed ogni regione d'Italia ammirava la
resistenza di Venezia agli stranieri, senza darsi pensiero della forma
di governo che aveva scelto. In quel tempo Gioberti ministro della
monarchia scriveva a Manin dittatore della repubblica, annunziandogli
in questi termini la prossima spedizione d'un sussidio: — «Siate
persuaso che il Piemonte non cede a nessuno in zelo ed in ardente
simpatia per l'eroica Venezia; nello stesso modo che Venezia è oggi al
disopra di tutte le città d'Italia e dell'Europa per la grandezza della
sua virtù civile, è al primo rango nell'affezione e nell'ammirazione
degli uomini!»
Dopo la battaglia di Novara il feroce Haynau, grondante del sangue
di Brescia, scrisse da Padova al governo di Venezia, che la città non
aveva da sperare altro appoggio «alle sue ribelli tendenze» intimando
di «cessare una resistenza inutile, e a rimettere la città al suo
legittimo sovrano l'augusto imperatore d'Austria.»
Radetzky vincitore del Piemonte venne apposta a Mestre per esortare
Venezia alla capitolazione «un ultima volta, coll'olivo in una mano,
colla spada nell'altra per infliggere la guerra sino allo sterminio
se persistesse nella ribellione.» Venezia impavida si mostrò sempre
ripugnante a patteggiare cogli austriaci. Venne convocata l'assemblea,
in quel giorno (2 aprile 1849) che resterà memorabile negli annali del
risorgimento d'Italia.
Nella magnifica sala storica del palazzo ducale, nella quale si
erano radunati i magistrati della repubblica per quattordici secoli
indipendente, l'assemblea in solenne silenzio attendeva il dittatore.
Egli entrò, salì alla tribuna ed annunziò con semplici parole il
disastro di Novara e l'abdicazione del re Carlo Alberto in favore di
suo figlio Vittorio Emanuele. Allora ebbe luogo quel dialogo fra Manin
e l'assemblea, del quale dice uno storico insigne: «nè più breve nè più
grande ricordano altro le storie» (C. Cantù Cronistoria).
— Che volete fare?.... chiese il dittatore.
— Il governo medesimo proponga.
— Volete resistere?
— Sì — fu la risposta unanime.
— Ad ogni costo?
— Ad ogni costo.
— Volete dare poteri illimitati al governo per dirigere la resistenza,
per reprimere, ove occorra, quelli che pretendessero impedire che si
resista?....
— Noi lo vogliamo — risposero ad una voce.
— Badate che v'imporrò sacrifizi enormi.
— Noi li sosterremo.
E fu votata la seguente deliberazione:
«L'assemblea dei rappresentanti dello Stato di Venezia, in nome di Dio
e del popolo unanimamente decreta: Venezia resisterà all'austriaco ad
ogni costo. A questo scopo il presidente Manin è investito di poteri
illimitati.»
Tale decreto venne mandato in risposta alle intimazioni di Radetzky e
di Haynau.


XIV.

Al diritto di natura, al sacro dovere di difendere la patria, gli
austriaci non avevano da contrapporre altro che ferro e fuoco, bombe e
cannoni, il diritto della forza brutale. L'Europa attonita contemplava
con ammirazione i veneziani che difendevano la loro città, un giojello
d'arte, un museo di glorie patrie, e guardavano gli aggressori
stranieri con orrore e indignazione.... ma non si muoveva. Questa è
una seria lezione che deve ammonire i popoli quanto possano contare
sull'aiuto dei vicini amici, e sulla giustizia delle nazioni. Altro
è giustizia altro politica, altro il singolare, altro il plurale. I
tribunali d'ogni stato infliggono pene infamanti ai piccoli usurpatori
che si chiamano ladri, ma i governi onorano col titolo di gloriose
vittorie le grandi usurpazioni che si chiamano conquiste, ove stranieri
senza diritto invadono l'altrui territorio, uccidono, rubano ed
usurpano la roba degli altri. La grandezza del furto trasforma il
ladro in conquistatore, è vergogna rubare un pane od una lira, è gloria
decantata rubare un paese e dei milioni. L'omicidio è punito in tutti
gli stati, i massacri delle guerre sono iscritti nella storia a titolo
di onore e di trionfo, non di chi aveva ragione, ma di chi ha vinto....
e guai ai vinti!.... E sarà sempre così fino a che il culto della
vera giustizia, della morale e della logica non ottengano la sanzione
di tutti i popoli, e fino a che l'amore della patria non diventi la
religione universale dell'umanità.
Il popolo veneziano plaudente alla resistenza ad ogni costo — perchè
la morte è sempre preferibile al dominio straniero — spiegò un immenso
vessillo rosso sulla cima del campanile di San Marco, in segno di sfida
ai tedeschi, e questo simbolo di libertà indicava alla flotta nemica
ed all'esercito assediante, che avrebbero pagato a fiumi di sangue la
conquista d'una città decisa a difendersi fino all'estremo. E in segno
di adesione ogni veneziano portava un nastro rosso alla bottoniera, che
voleva significare — «approvo la resistenza ad ogni costo.»
Così Venezia entrava nella nuova fase della disperata difesa, il
ruggito del vecchio leone trasformava la sirena in amazzone, e la bella
voluttuosa si rialzava nel sentimento della sua dignità e dell'onore.
Regnava nella città assediata un'attività febbrile. Non potendo
vettovagliarsi a motivo del blocco, si contarono i viveri per limitare
la parte di ciascheduno; mancavano i mulini, se ne edificarono a
vapore, e si allestirono delle macine a mano per uso delle famiglie.
Venne fondata una fabbrica di polvere, e seicento cannoni cingevano
la città, senza contare quelli della marina, distribuiti sui vari
forti della laguna. Radetzky ordinò d'investire la fortezza di
Marghera. Il generale Guglielmo Pepe inviò a comandarla il colonnello
Girolamo Ulloa, che ridotto il forte all'ultima perfezione ne diresse
eroicamente la difesa fino all'ultimo momento. Ogni giorno piovevano le
palle come grandine; nel solo 4 maggio l'assediante tirò 7000 colpi,
e gli assediati circa 9000. I cannoni veneziani venivano smontati, i
parapetti e le palizzate fracassati, i ponti di comunicazione fra i
vari centri di difesa bersagliati ed infranti: ma tutto invano; altri
cannoni venivano sostituiti agli inservibili, altri soldati ai morti
ed ai feriti; di notte si lavorava alacremente per rialzare le opere
cadute, e Venezia resisteva eroicamente a quei formidabili attacchi.
Un giorno che Michele e Tiziano erano di guardia a Marghera, il
comandante Ulloa ordinò una sortita per molestare i lavori d'approccio
dell'inimico. Sull'imbrunire, i soldati guidati dai loro ufficiali
uscirono da Marghera, e avvicinandosi chetamente agli austriaci, con
vicini e spessi tiri, gettarono la confusione e la morte nei loro
ranghi. Ma quell'impresa riuscì micidiale per molti, e mentre Michele
guidava arditamente all'assalto il suo drappello, venne colpito da una
palla che lo gettò a terra fra i morti ed i feriti. E certo sarebbe
caduto in mano del nemico senza il pronto soccorso di Tiziano che
accorse subito in suo aiuto; e assistito da Bortolo, giunse in tempo a
raccoglierlo, e fra le palle che fischiavano da ogni parte, poterono
riportarlo a Marghera, in mezzo ai loro compagni che si ritiravano
ordinatamente, protetti dall'artiglieria del forte. Fasciata in fretta
la ferita, venne subito trasportato a Venezia.
I feriti, i malati di febbri miasmatiche che infierivano dalle paduli,
erano cresciuti a tal numero che gli ospitali furono insufficienti per
tutti accoglierli e curarli.
Il governo si rivolse alla carità cittadina, e in pochi giorni le
offerte di materassi e biancherie furono tante che più di quattromila
letti vennero allestiti in vari locali, destinati alle nuove ambulanze.
E tale era lo slancio di carità, che vi furono delle povere famiglie
che si spogliarono del necessario per concorrere alla fornitura degli
ospitali, dicendo che bisognava pensare ai difensori di Venezia prima
che a sè stessi. Le donne del popolo, che lavoravano nelle fabbriche
del governo, lasciarono spontaneamente il quarto della scarsa mercede
giornaliera, come loro offerta, e in ogni famiglia le donne preparavano
filacce e bende pei feriti, o raccoglievano denaro per la difesa, o
accorrevano negli ospitali in mezzo all'afa nauseante di quelle sale,
fra le grida dei mutilati, per soccorrere quegli infelici, curare
gl'infermi, e consolare tanti afflitti; vere suore di carità in veste
dimessa, perchè avevano donato alla patria tutti i loro ornamenti.
Michele fu ricoverato in una di quelle ambulanze, e quando Tiziano potè
recarsi a visitarlo, lo trovò in pessimo stato. Prostrazione completa
di forze per abbondante emorragia, minaccia d'infezione e cancrena.
Lo vide in grave pericolo, procurò di consolarlo, ed alla sera ne
dette il tristo annunzio alla Gigia ed alla nonna, che ne rimasero
afflittissime, e piansero amaramente sulla sorte dell'infelice e prode
soldato.
Così passò molti giorni fra la vita e la morte, poi cominciò a
manifestarsi qualche miglioramento, e i medici vedendo che la ferita
prendeva un corso normale, assicurarono i suoi amici, che se nessun
male insidioso sorgeva improvvisamente si poteva sperare nella
guarigione del ferito, il quale sarebbe in caso di ritornare alla
prova, e vendicarsi col nemico dell'offesa ricevuta. Le donne, dapprima
grandemente angustiate, si aquietarono alle buone notizie, e Bortolo
le fece anche ridere, forzandosi di sostenere che una ferita più lunga
a guarire sarebbe stata più vantaggiosa.... perchè i feriti stavano
meglio dei morti, ed erano più sicuri di vivere dei sani.... esposti
ogni giorno a mille pericoli.
Fra le dame che visitavano regolarmente l'ambulanza, Michele si sentì
trascinato ad un'estatica ammirazione per una gentildonna d'imponente
bellezza, che accostandosi ogni giorno al suo letto lo consolava con
angelico sorriso e modi gentili, mostrando d'interessarsi vivamente
alle varie alternative delle sue sofferenze. Ogni mattina egli
attendeva quella visita con grande ansietà, la presenza di quella
donna gli riusciva benefica, le sue parole gli risuonavano lungamente
all'orecchio, lo sguardo gli penetrava nel cuore, il profumo della
persona olezzava lungamente intorno al suo letto, anche dopo la sua
partenza, gli produceva l'effetto dell'aria imbalsamata dagli effluvi
di primavera; e gli penetrava nel cervello inebbriato, riempiendolo di
fantasmi e di sogni.
La leggiadria della persona, la soavità dello sguardo, l'armonia di
quella voce, il morbido crine biondo come le spighe mature, l'occhio
turchino come il cielo, profondo come la laguna, gli facevano credere
ad un apparizione divina, della quale conservava gelosamente il
segreto, se ne faceva un culto misterioso, adorando in silenzio
quell'immagine, della quale presentiva tutte le delizie del paradiso.
Questa bellissima gentildonna si chiamava Marina Steno, ed all'incesso
maestoso, all'antica nobiltà dei lineamenti, s'indovinava il sangue
ducale che scorreva nelle sue vene.
Quando essa consolava l'infermo colla dolcezza carezzante del suo
dialetto, egli sentiva nell'inflessione di quella voce un accento di
mestizia che lo affascinava, ma la sua ammirazione era così rispettosa
che mai non avrebbe osato interrogarla. Essa non gli parlava che
delle sofferenze che lo privavano della soddisfazione di combattere,
dell'evidente miglioramento che lo avvicinava sempre più alla
guarigione, della gloria che onora il soldato ferito, e gli rialzava
talmente lo spirito, che si sentiva beato del sangue sparso, e gli
pareva poco, anelando alla salute per slanciarsi nuovamente contro il
nemico, e meritare gli elogi di quella donna.
Nelle lunghe ore silenziose ed insonni egli pensava continuamente
a quel sembiante maestoso, e facendone il paragone colla vezzosa
semplicità della Gigia, trovava nella prima la dignitosa grandezza
dell'antica nobiltà, nella seconda la grazia ingenua del popolo e
pendeva incerto quale fosse più degna d'amore. Un giorno trovandosi più
espansivo, e meno geloso della sua divina suora di carità, si decise
di presentarle il suo amico Tiziano, che era venuto a fargli un po'
di compagnia. Essa s'intrattenne cortesemente con lui a parlare dei
monti del Cadore che conosceva ed amava, e dell'eroica difesa di quegli
abitanti, che le aveva eccitato il più vivo entusiasmo.
Prima di uscire dall'ambulanza invitò Tiziano a visitarla nel
suo palazzo, e lasciò i due giovani immersi nell'ammirazione.
Michele incoraggiò l'amico a non mancare la visita, e a ritornare a
raccontargli le meraviglie del palazzo incantato di quella fata. Ed
egli non tardò molto a presentarsi in casa Steno, e venne accolto
con somma cortesia dalla gentildonna, che lo presentò a suo marito,
il conte Ermolao, il quale era un tipo curioso di quell'epoca. Egli
apparteneva ad una minoranza che non esercitava nessuna influenza
sugli avvenimenti, e si componeva di pochi individui, che lasciavano
correre le cose come se fossero prescritte dal destino, e le subivano
senza opposizione, e come una necessità insormontabile. E infatti
se un'immensa maggioranza conveniva concorde nella ferma volontà di
respingere lo straniero ad ogni costo, non è da credersi che tutti
indistintamente intendessero il sacrifizio alla stessa maniera, nè che
ogni veneziano fosse un eroe.
Il conte Ermolao Steno era un rampollo di quei veneziani della
decadenza, che avvicinandosi il generale Buonaparte alla testa
dell'esercito francese, temevano che non si potesse più dormire
tranquilli nel proprio letto. La vita molle alla quale si era abituato
fino dalla prima gioventù lo rendeva affatto inetto alle azioni
eroiche. Bonario, senza albagia, egli aveva tutte le ingenuità delle
nature svigorite, e pensava che ciascheduno dovesse offrire alla patria
il superfluo, conservando il solo necessario. E per lui era necessario
di bere ogni giorno a tavola una bottiglia di vino eccellente, di
mangiare il suo bisogno, e di non occuparsi d'altro che di passeggiare
in piazza, fumare il sigaro, e far la partita. E il superfluo, che
sacrificava alla patria, si componeva di tutti i piaceri e gli agi
della vita, gli spettacoli, i teatri, la villeggiatura, le scarrozzate
in campagna, le gite ai bagni d'estate, e i viaggetti d'autunno. Tali
privazioni forzate egli le subiva con rassegnazione, e mostrava di
sopportarle con uno stoicismo degno dell'antichità. Ma il suo sangue
se lo teneva nelle vene con ogni cura, e non essendo avvezzo a nessuna
fatica, lasciava ai giovani ardenti ed agli uomini robusti l'onore
di difendere Venezia e di morire per la patria. Su tutti gli altri
argomenti di noia inerenti alle condizioni dell'assedio, non voleva
intender ragione, e fino dai primordi del blocco egli si bisticciava
col cuoco che non poteva più soddisfare i suoi naturali capricci.
— Come mai!.... egli esclamava con indignazione, vi è impossibile di
trovare delle quaglie?....
— Impossibile, eccellenza!... rispondeva il cuoco.
E quando incominciò a scarseggiare la carne ed a mancare affatto il
pane bianco gli parve d'aver raggiunto il massimo martirio che si possa
infliggere ad un uomo. Ma a poco a poco dovette sottomettersi alle più
amare privazioni, e sospendere la partita a tresette da Florian, ed a
sentirsi rotto il sonno dalle bombe che lo obbligarono ad alzarsi dal
letto prima delle undici antimeridiane, caso inaudito nella sua vita.
Tiziano ritornato all'ambulanza descrisse all'amico le meraviglie
del palazzo Steno addobbato con lusso orientale, in armonia colla
sua architettura. Il vestibolo, con arcate di stile moresco sorrette
da colonne di marmo greco con capitelli bizantini. I muri rivestiti
di marmi preziosi con scolture e statue collocate nelle nicchie. I
cancelli in ferro dorato sormontati dallo stemma degli Steno incoronato
dal corno ducale. La cisterna del cortile scolpita al modo bizantino.
Eleganti, maestose le scale, la sala immensa, le camere coperte di
arazzi antichi, o di quadri dei più famosi pennelli, i soffitti a
cassettoni dorati od a stucchi, i pavimenti a mosaico a disegni,
o coperti di preziosi tappeti. I mobili d'antica magnificenza con
leggiadri intagli. Immensi i camini di marmo con alari di bronzo. Poi
dalla casa passando agli abitanti si mostrò colpito d'ammirazione per
la stupenda bellezza della gentildonna, dotata d'una grazia veramente
incantevole ed attraente. E raccontando le bizzarrie del marito fece il
ritratto del conte Steno, e lo descrisse come un filosofo d'una tempra
singolare, che si teneva superiore alle umane miserie, indifferente
alle comuni preoccupazioni del giorno, abbastanza ingegnoso da saper
trovare dei conforti in mezzo alle privazioni dell'assedio, e dei
compensi ai sacrifici che gli venivano imposti dalle circostanze.
Michele lo ascoltò attentamente, invidiando la sorte dell'amico
che poteva penetrare in quel santuario, e quando rimase solo, pensò
lungamente alle cose udite, e gli parve che quella donna non dovesse
essere pienamente soddisfatta dell'indole del marito, il quale col suo
egoismo ingegnoso poteva servire d'esempio del come si possa anche in
mezzo alle più dolorose contingenze, trovare qualche consolazione a
spese degli altri. E cominciò a meditare nel profondo segreto del suo
animo, se un povero soldato ferito non avesse diritto anche lui di
ottenere qualche cosa in compenso delle privazioni del blocco, e delle
palle dell'assedio. E quando la gentildonna ricomparve davanti al suo
letto egli si mise a dardeggiarla di tali sguardi fulminei, che non
avevano riscontro che nelle batterie di Campalto colle quali il nemico
bersagliava Marghera.
Ma se ai poveri soldati feriti non restava altra risorsa che di
assediare le dame pietose delle ambulanze, cercando di penetrare nei
loro cuori colle paralelle del sentimento, e con un fuoco incrociato di
sguardi e sospiri, i soldati sani continuavano a tirare sui tedeschi
con delle palle di grosso calibro, e ad assalirli furiosamente nelle
trincee a colpi di fucile, ed anche colla baionetta nelle reni.
Le sortite di Mestre e del Cavallino che avevano respinto
vittoriosamente il nemico, coprendo di gloria i Cacciatori del Sile,
i Cacciatori del Reno, e i lombardi, risvegliavano una nobile invidia
nell'animo ardimentoso dei Cacciatori delle Alpi, che desideravano
essi pure ardentemente un occasione favorevole per venire alle mani col
nemico.
La penuria sempre crescente offerse questa occasione. La Commissione
annonaria aveva reggimentato i contrabbandieri di Venezia, che si
spingevano arditamente attraverso agli avamposti nemici e riuscivano
talvolta a deluderne la vigilanza introducendo a Venezia ogni sorta di
viveri. Ed anche questo era eroismo, perchè quando cadevano in mano dei
tedeschi erano immediatamente fucilati, per la legge che condannava a
morte ogni violatore del blocco.
Si dovevano alimentare duecentomila abitanti, e perciò ogni barca
carica di granaglie, di animali bovini e di vino che giungesse a
Venezia era festeggiata da tutti, e ricevuta come in trionfo.
Ma per ottenere dei risultati importanti era necessario di appoggiare
i contrabbandieri, respingendo il nemico, e tale era lo scopo delle
sortite nelle paludi dell'estuario.
Tiziano avendo ricevuto l'ordine di partire per Chioggia colla sua
compagnia corse all'ambulanza a stringere la mano dell'amico, e salì a
salutare le donne che lo videro allontanarsi trepidanti ed angustiate,
quantunque egli si mostrasse allegro e ben disposto.
Il generale Rizzardi, comandante il circondario di Chioggia, quantunque
quasi giornalmente dovesse combattere col nemico che avanzavasi sotto
al tiro dei suoi fucili, risolse di eseguire una ricognizione di
qualche importanza, e nello stesso tempo requisire tutti i viveri che
sarebbero caduti in sue mani. Prese seco 1200 uomini e li divise in
tre colonne, la prima delle quali, forte di circa 600, affidava al
colonnello Morandi con l'incarico d'inoltrarsi lungo il Bachiglione
sulla destra di Brondolo oltre il terreno di Cabianca, verso Corezzola;
la seconda colonna, di circa 400 uomini, comandata dal maggiore
Materazzo, doveva esplorare tutto il terreno del centro, cioè a destra
del canale di Valle, compreso fra l'Adige, Cavanella, ed il Gorzone;
la terza finalmente, comandata dal tenente colonnello Calvi, aveva
l'incarico di battere il terreno sulla sinistra fra Bussola, il mare e
l'Adige.
Tiziano fu lieto, che alfine anche i Cacciatori delle Alpi potessero
provare il loro valore in una sortita, raccomandò a Bortolo di
farsi onore, e intrattenendosi con Giacomo Croda che seguiva la
spedizione per raccogliere ed imbarcare le requisizioni, s'intesero
fra loro di tenersi d'occhio, e di aiutarsi scambievolmente in caso
di bisogno. Tiziano contava molto sulla destrezza e sul coraggio del
contrabbandiere cadorino, ed era lieto di vederlo far parte della
spedizione. Partirono da Chioggia per Brondolo, ove passarono il ponte
che a tale scopo era stato espressamente costruito sul Brenta, e le tre
colonne si misero in movimento, secondo gli ordini ricevuti.
Il terreno sul quale camminavano i Cacciatori delle Alpi guidati da
Calvi era molle e sabbioso, interrotto da pozzanghere e intersecato da
rivoli che ora si allargano in estesi avvallamenti, ora si restringono
in stretti canali, che si dividono e suddividono in varie guise e
possono considerarsi come le vere vie di quelle paludi, ove le barche
sono il solo veicolo possibile.
Quelle estesissime maremme sparse di stagni o laghetti salsi che si
chiamano valli non hanno altre abitazioni umane che qualche misera
capanna di pescatori. I Cacciatori delle Alpi avanzandosi cautamente
in quel deserto, giunsero ove il terreno più asciutto è ridotto a
coltura e sparso di case coloniche, e colà incontrarono il nemico,
che fu subito attaccato vigorosamente e obbligato di retrocedere.
Ma per snidare i tedeschi da tutte le case fu necessario distaccare
dal corpo principale alcuni drappelli di militi, i quali scortando
i contrabbandieri si sparsero in varie località, dovettero battersi
isolati contro soldati dispersi, ed operare le requisizioni, mentre il
corpo principale combatteva per respingere il nemico. Tutti i viveri
raccolti si facevano entrare nelle barche e partivano per Brondolo.
Tiziano entrato con alcuni suoi soldati in una casa ove si riparavano
degli austriaci, li pose in fuga, e mentre i suoi tiravano dalle
finestre sui fuggiaschi per obbligarli a sgombrare il terreno, egli
ordinava a Giacomo Croda, che lo seguiva, di condur fuori della stalla
i due buoi che vi si trovavano, e consegnava al colono il relativo
certificato di requisizione.
Mentre si eseguivano tali operazioni, gli austriaci che si erano
ritirati ritornarono alla carica, rinforzati da altri compagni, e
intanto che Giacomo fuggiva coi buoi, Tiziano e i suoi cacciatori
attaccarono nuovamente il nemico, lo obbligarono a ritirarsi,
lo inseguirono per un bel tratto di strada, e si tenevano sicuri
dell'esito dell'impresa, quando poco dopo s'avvidero dell'imprudenza
d'essersi troppo inoltrati, vedendo sbucare da ogni parte gli austriaci
che tendevano a circondarli. Per non cadere in mano del nemico non
restava altro espediente che ingannarlo sulla loro direzione, tirare
da una parte, e dileguarsi dalla parte opposta protetti dalle canne
palustri che si alzavano dal palude. Così fecero per ordine di Tiziano,
ed uno di qua l'altro di là se la svignarono con somma destrezza,
mentre i tedeschi, indispettiti di vederseli sfuggire di mano quando
credevano di averli presi, li cercavano da ogni parte, come cacciatori
che inseguono la selvaggina arrestandosi e tendendo le orecchie,
attenti ad ogni stormire di foglie per scoprire le traccie, frugando
colle baionette nelle canne palustri, indirizzandosi dove udivano
il minimo rumore; e talvolta quando credevano di aver scoperto un
avversario nascosto, vedevano un anitrella selvatica che si alzava
dalla macchia.
Le fucilate echeggiavano da ogni parte, il cannone risuonò nella
valle per tutto quel giorno, gli italiani si ritirarono ordinatamente
inseguiti dagli austriaci fino al punto ove giungevano le palle del
forte di Brondolo che proteggeva la ritirata.
L'esito di quella sortita fu assai proficuo, poichè furono requisiti
più di 300 animali bovini, oltre molti maiali, pecore, cavalli, e una
grande quantità di provvigioni in vino, ovi, pollame ed altri viveri.
Si fecero alcuni prigionieri al nemico, che ebbe molti morti e feriti,
ma anche gl'italiani subirono delle perdite; e quando giunsero a
Brondolo molti mancarono all'appello e si deplorava specialmente la
mancanza del prode ufficiale Tiziano Lareze.


XV.

Tiziano sfuggendo dalle mani del nemico aveva un solo intento, quello
di salvare il bottino che costituiva il trofeo della sua impresa.
Quando Giacomo Croda era uscito dalla stalla coi buoi, egli lo avviò
sul sentiero che conduce ad un bosco detto il pineto dei Nordi, col
pensiero che penetrando fra gli alberi cogli animali sfuggiva al
pericolo di essere veduto dal nemico.
Guidato da quest'idea prese la stessa direzione, e credendosi sicuro
dai tedeschi che più non vedeva proseguì il suo cammino. Aveva
smarrito i compagni, mancava d'ogni notizia sul suo corpo di truppa,
ma avviandosi verso Brondolo non poteva ingannarsi, e presto o tardi
sperava di giungere alla fortezza.
Ma appena penetrato nel bosco si accorse che era circondato dai
tedeschi, i quali trasportavano i loro morti e feriti, e raccoglievano
vari oggetti requisiti dagli italiani, poi abbandonati per qualche
ostacolo insormontabile nella fretta del ritorno, o al momento
d'imbarcarsi nei canali.
Trovandosi nell'impossibilità di proseguire la strada per raggiungere
il suo corpo, si raggirò lungamente nel bosco fino a notte inoltrata,
quando vide da lontano dei tedeschi armati di scuri che si dirigevano
alla sua volta.
Allora, protetto dal buio, e con somma attenzione di non far rumore,
si arrampicò sopra un albero, e salì più in alto che gli fu possibile,
fino ad un ramo nascosto dalle fronde sottostanti, e sul quale
mettendosi cavalcioni poteva riposarsi senza troppo disagio. I tedeschi
erano venuti a far legna pel loro rancio, e andavano e venivano con
infinite precauzioni, guardando sospettosamente d'intorno. Poco dopo
ne giunsero degli altri colle marmitte ripiene, e cominciarono ad
accendervi il fuoco d'intorno. Tiziano immobile sul ramo, stanco
dalle fatiche del giorno, ma rassegnato a passare la notte in quel
rifugio, si assettò alla meno peggio, assistendo dalla sua specola allo
spettacolo che gli offriva il nemico. Alcuni soldati soffiavano nel
fuoco, chi rompeva legna, chi giaceva sdraiato per terra, borbottando
in tedesco coi compagni, e fumando la pipa.
Lo spettatore sull'albero trovandosi al sicuro, godeva quella scena,
promettendosi al suo ritorno di raccontare agli amici, che era rimasto
fuori della fortezza per andare al teatro, dove da un posto riservato
aveva assistito ad una bella commedia intitolata: il rancio notturno
dei croati in un bosco.
Ma lo spettacolo incominciò a perdere qualche attrattiva, quando il
vento cambiando direzione spinse dei vortici di fumo intorno all'albero
del Cacciatore delle Alpi, entrandogli nel naso, negli occhi, nella
bocca, col pericolo di farlo tossire, ed anche di asfissiarlo. Per
buona sorte sviluppandosi prontamente la fiamma, cessò in gran parte
quel fumo, ma si presentò un nuovo pericolo. La luce si diffuse fra
gli alberi, e un certo tratto del bosco parve illuminato a giorno. I
tedeschi ammiravano il magnifico effetto prodotto dal fuoco in mezzo a
quelle piante, che presentavano un ampio spazio circolare rischiarato
vivamente, in mezzo alle tenebre profonde. I soldati alzavano la testa,
guardavano in alto e d'intorno, in quella rete complicata di rami,
ed alzavano le braccia nella direzione di Tiziano, indicando qualche
cosa in tedesco. Il povero Cacciatore delle Alpi passò un brutto
quarto d'ora. Ad ogni momento gli pareva d'essere scoperto, e gli
sembrava di vedere quei selvaggi afferrare i fucili per punzecchiarlo
colle baionette e farlo discendere fra le beffe della brigata. Ma
la stanchezza e la fame prevalsero alla passeggiera ammirazione, si
sdraiarono tutti sull'erba, tenendo in mano la gamella per la cena,
che finalmente era cotta. Allora scoperchiate le marmitte, un buon
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