Il roccolo di Sant'Alipio - 02

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gli altri due erano giunti da Ceneda la sera stessa, insieme al
commissario mandato apposta da Venezia per arrestare i due giovani.
Quando la triste falange uscì dalla casa colle mani vuote, assai
malcontenta della impresa fallita, si fermò alquanto sulla via a
consigliarsi, poi uno dei gendarmi allontanandosi dai compagni andò
ad appiattarsi dietro un angolo del muro mentre gli altri ritornavano
mogi mogi al loro quartiere. Era evidente che colui che stava nascosto
aspettava il ritorno di Michele, nella supposizione che non fosse
ancora rientrato in casa, per arrestarlo sulla porta prima che fosse
avvertito dai parenti di mettersi in sicuro.
Era necessario di prendere una decisione, e di procurarsi i mezzi di
salvezza, ma ciò non riusciva tanto facile in un piccolo paese, e in
una notte d'inverno e colla neve.
Dopo varie considerazioni Michele non seppe trovare migliore espediente
che di ritirarsi con Bortolo in casa dell'amico, come in luogo oramai
sicuro, per prendere gli opportuni concerti con sior Antonio, su ciò
che fosse da farsi; e camminando con infinite precauzioni per non
essere scoperti si raggirarono per vie remote, penetrarono in un orto
confinante colla casa Larese, ove entrando per le adiacenze, senza
far rumore, comparvero improvvisamente in mezzo alla famiglia, immersa
nella desolazione per la recente sventura.
Furono tutti sorpresi di veder Michele, e trovarono imprudente la sua
venuta, ma egli non tardò ad assicurarli che non si correva nessun
pericolo, e che i gendarmi non sarebbero venuti due volte in una notte.
Allora incominciarono le spiegazioni fra lui e sior Antonio; il quale
gli chiese con vivo interesse:
— Che cosa avete fatto per essere arrestati?
— Niente.... niente di male. Qualche scherzo ai croati....
— Via, parlate schietto.... nell'interesse di Tiziano.... per
apparecchiare la sua difesa bisogna sapere di che cosa può essere
incolpato....
— Frivolezze.... declamazioni.... brindisi.... che so io!...
— Ma che brindisi avete fatti?
— Dopo la laurea abbiamo invitato a pranzo gli amici.... siamo
stati allegri come potete immaginare.... abbiamo bevuto alla salute
d'Italia.... abbiamo gridato Viva Pio IX!... Viva Gioberti!... Viva
Guerrazzi!... Viva Mazzini!...
— Ah disgraziati che cosa avete mai fatto!... ne avete per vent'anni
di Spielberg!... quel povero Silvio Pellico ne ha fatto assai meno di
voi!...
— I tempi sono cambiati. Pio IX ha aperta l'era della libertà...
noi tutti vogliamo l'indipendenza... vostro padre, il povero nonno
Taddeo, ci diceva sempre che il dominio straniero è una vergogna per
l'Italia.... e voi avete sempre pensato egualmente....
— È vero.... ma bisogna agire con prudenza.... ci vogliono fatti
e non ciarle, mio caro, per liberare l'Italia.... voi siete stati
imprudenti.... avete congiurato....
— Potete essere sicuro che non abbiamo carte compromettenti, che non
si troveranno argomenti per fondare un processo.... la nostra congiura
sta dentro di noi, nell'unanimità dei nostri voti, nella fermezza del
nostro volere.... nella coscienza del nostro diritto.... nel nostro
onore!... Noi non siamo più una setta, nè una legione.... ma siamo un
popolo di fratelli.... vogliamo essere padroni in casa nostra.... non
vogliamo più stranieri in Italia.... non abbiamo più paura nè delle
prigioni, nè dei patiboli, nè delle baionette.... moriremo tutti.... o
saremo liberi!...
Sior Antonio dimenava la testa, stringeva le labbra, mormorava delle
parole incomprensibili, una lotta interna lo agitava, egli si era
sempre mostrato ottimo patriotta, ma davanti all'arresto di suo
figlio le sue idee si confondevano, il dolore soperchiava ogni altro
sentimento; suo figlio in mano dell'Austria, gli faceva rammentare
i processi di stato, le vittime sagrificate, e fremeva di sdegno,
di diffidenza, di paura. Maddalena non intendeva ragioni, essa
pensava a suo figlio, e si disperava di vederlo caduto in mano dei
barbari, la Betta piangeva, Bortolo aveva il viso sconvolto dalle
varie e successive emozioni di quella notte, e dava ragione a tutti
contraddicendosi senza avvedersene: quando Michele annunziava la
volontà degli italiani, egli alzava i pugni minacciosi, quando sior
Antonio accusava i giovani di imprudenza egli assentiva coi segni del
capo; piangeva e minacciava, ora sembrava spaventato dalla sorte del
suo padroncino, ora mostrava di non temere tutte le forze dell'Austria,
e pareva che le dichiarasse una guerra d'esterminio.
Dopo una lunga discussione, senza poter concordarsi sopra un piano da
seguire, sior Antonio pensando che la sorte di Michele non era ancora
decisa, gli chiese:
— E voi che cosa pensate di fare?
— Bisogna che me ne vada.... egli rispose, meglio uccello di bosco
che uccello di gabbia.... ma sono qui senza vesti, senza denaro, e
nell'impossibilità di rientrare.... perchè un sacripante mi aspetta
per prendermi al collo.... mi aspetterà un bel pezzo quel minchione!...
se volesse prendere in cambio mio zio!... sono gli orsi che si devono
mettere in gabbia!...
Sior Antonio non lo ascoltava che distrattamente, stette alquanto
pensieroso, poi ordinò a Bortolo di dar l'avena alla Nina, e di tenerla
pronta a partire, e condusse Michele nello scrittoio, ove tenne con
lui una conferenza assennata e senza testimoni, per fissare il modo di
sottrarre dagli artigli tedeschi colui che poteva ancora sperare di
mettersi in salvo; e sulle misure da prendersi per giovare a Tiziano
che colto per sorpresa non aveva potuto provvedere alla sua libertà.
Michele ricevette da sior Antonio del denaro, del quale gli rilasciò
ricevuta, e Maddalena lo fornì di biancheria e d'altri oggetti
indispensabili, che vennero collocati in un piccolo sacco da viaggio,
e dopo di aver ringraziati con parole cordiali quei buoni amici,
augurò loro che non avessero a soffrire lungamente per la detenzione
di Tiziano, pel quale li assicurava che non ci potevano essere motivi
fondati per procedere; e prima dell'alba, uscito da quella casa con
ogni precauzione, entrava in un sentiero nascosto fra i boschi, e
andava a riuscire sulla strada maestra, a qualche distanza dal paese,
ove Bortolo doveva subito raggiungerlo colla timonella tirata dalla
Nina.
Sior Antonio rientrato in cucina procurò di calmare sua moglie che
continuava a piangere dirottamente, e le disse:
— Bisogna aver coraggio, e non abbandonarsi ad una sterile
disperazione. Le lagrime non possono servirci a nulla. Adesso invece
dobbiamo occuparci seriamente del nostro Tiziano. Appena giorno io
andrò dal commissario per vedere che cosa pensa di fare, poi ho
l'intenzione di far una visita al consigliere, per aver qualche
consiglio utile, da un uomo esperto in queste faccende. E tu non
lasciarti vedere troppo accorata dalla gente; e questo per due
motivi: prima di tutto si farebbe torto a Tiziano, lasciandolo credere
colpevole, poi sembrerebbe che la nostra famiglia conosciuta pei suoi
antichi sentimenti di patriottismo, fosse disperata alla prima prova,
e scoraggiata alla prima sventura. Animo dunque, chiudiamo l'amarezza
nell'anima, e mostriamoci forti nella sventura.
E preso il cappello se ne andò prima di tutto da Sior Iseppo per
avvertirlo dei provvedimenti presi riguardo a suo nipote, e sulle
misure fissate d'accordo con lui per facilitargli la fuga.
Trovò il vecchio ancora indignato contro i tedeschi che si erano
permessi di rompergli il sonno, come se non avessero potuto arrestare
suo nipote senza disturbarlo.
Sior Antonio gli rese conto di quanto aveva fatto per Michele,
facendogli sperare di poter fra breve ricevere sue notizie da un luogo
sicuro. Sior Iseppo alzando la destra, fece un rapido movimento che
pareva volesse significare: — che il diavolo se lo porti in malora! —
e continuò a lamentarsi che gli avevano sconvolta la casa per cercarlo
e che in fine dei conti un po' di prigione non gli avrebbe fatto male
per insegnargli l'economia, la disciplina e la quiete. — Uhm! uhum!
mormorava sior Iseppo, teste calde!... gioventù senza giudizio!... —
Tuttavia volle regolare i conti e restituire a sior Antonio il denaro
sborsato, ma lamentandosi continuamente dei disturbi, delle spese, dei
sacrifizi ai quali si trovava esposto per le scapataggini di quel matto
di suo nipote.


II.

Intanto che Michele prendeva la strada di Auronzo per cercare un
rifugio in casa d'un amico, Tiziano partiva per Venezia accompagnato
dal commissario che era venuto ad arrestarlo e scortato da due gendarmi
a cavallo, che trottavano in fianco della vettura; e quando sior
Antonio si recò alla mattina dal commissario distrettuale per aver
notizie dell'arrestato, questi era già partito da un pezzo.
Il povero padre sorpreso a tale annunzio protestava vivamente, voleva
seguire subito suo figlio, ma il commissario lo consigliò a starsene
in casa tranquillo, assicurandolo che se non era colpevole sarebbe
rimandato in famiglia fra pochi giorni, e lo esortava a confidare
intieramente nella clemenza del paterno regime di Sua Maestà Imperiale
Reale ed Apostolica, la quale non voleva altro che la felicità de'
suoi sudditi. Il padre desolato non rispondeva per non aggravare
la condizione del figlio, ma frenava a stento la sua indignazione e
i suoi sospetti, avendo udito a narrare tante volte i processi del
vent'uno, le condanne a morte ed all'ergastolo, le lunghe prigionie
dello Spielberg ove degli uomini onesti che non volevano altro che
l'indipendenza della patria, erano stati trattati peggio dei ladri e
degli assassini, e fremeva pensando a suo figlio caduto in quelle mani
spietate. Però dovette fingersi fidente e rassegnato e ritornarsene a
casa a riferire il risultato della sua visita.
Intanto la notizia dell'arresto s'era diffusa nel paese, tutti ne
parlavano con sdegnosa sorpresa, in piazza si formavano dei capannelli
di persone ove taluno raccontava il fatto alla sua maniera agli uditori
indignati. I quattro gendarmi che erano rimasti a Pieve andavano in
giro a due a due, sospettosi e guardinghi, vedendo che la gente li
guardava con disprezzo, e quasi in aria di sfida.
Un amico di Tiziano corse a dar relazione del fatto al roccolo di
Sant'Alipio, fece piangere Maria e dovette consolarla colle solite
speranze, mentre suo padre Isidoro, maledicendo l'odiato aquilotto
bicipite salì nella sua camera e si mise in tutta fretta a bruciare
varie carte.
Sior Antonio rientrato in casa trovò sua moglie malata, assalita da
convulsioni, impaziente di aver notizie del figlio, amareggiata di
non riceverne, e vari amici di famiglia che lo assalirono di pressanti
domande; chi voleva sapere se la tal carta era stata sequestrata, se
la tal lettera era stata distrutta in tempo, e chi voleva conoscere i
particolari della perquisizione, e chi la fuga di Michele. Dopo di aver
soddisfatto alla meno peggio ai desideri di ciascheduno, sior Antonio
si ritirò nello scrittoio, e scrisse una lunga lettera ai suoi padroni
raccomandando il figlio e chiedendo consigli.
Più tardi gli venne in mente di fare una visita ad un I. R. consigliere
di Tribunale posto in quiescenza col titolo di consigliere imperiale,
che viveva in Pieve in grand'auge presso tutte le autorità governative,
come uomo influente pei suoi rapporti nelle alte sfere, e di
raccomandarsi alla sua protezione, pregandolo di volerlo indirizzare
sulla condotta da tenersi per far risaltare l'innocenza dell'arrestato.
Il consigliere imperiale era un personaggio grave e compassato che nel
lungo servizio austriaco aveva acquistata quella rigidezza tedesca,
che rende gli uomini duri, e tutti d'un pezzo. Egli aveva una fede
illimitata nella potenza assoluta della monarchia austriaca, non
ignorando però che era detestata dai cadorini, amici della libertà, e
insofferenti del giogo tedesco.
Sior Antonio venne fatto entrare dalla governante nello studio, ove gli
si affacciò subito allo sguardo un grande ritratto di S. M. I. R. A.
Ferdinando I per la grazia di Dio Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria,
di Boemia, di Lombardia e Venezia, con dieci o dodici righe di titoli
che finivano col gran Voivoda del voivodato di Serbia, e i soliti
ecc., ecc. Sulle altre pareti della stanza pendevano gli arciduchi e
marescialli, come in corteggio del sovrano, sotto al quale siedeva
in poltrona il consigliere imperiale, davanti lo scrittoio, come
un magistrato in funzione, col volto raso, e cravatta bianca. Egli
accolse l'introdotto, col solito sussiego, accompagnato da un sorriso
d'indulgente benevolenza, e se lo fece sedere dirimpetto.
Sior Antonio gli raccontò in poche parole la sua disgrazia, con quei
commenti, che la sua naturale ingenuità gli faceva trovare opportuni,
e lo pregò di volerlo proteggere e consigliare, in questa grave e
dolorosa contingenza.
Il consigliere imperiale ascoltò impassibile ogni cosa, senza che un
minimo movimento del volto annunziasse le sue impressioni, e quando
l'altro ebbe finito egli incominciò col deplorare la insania di
coloro che senza armi nè aiuti si mettevano in testa di voler obbligar
l'Austria a cedere i suoi dominii italiani, che erano considerati come
frontiera indispensabile alla sicurezza della Germania. E fabbricando
un edifizio di argomenti perentorii su questa base, veniva alla
conclusione finale che l'Italia deve rassegnarsi in eterno ad essere
governata dai tedeschi, e che era una vera pazzia lo scaldarsi la
testa con idee sovversive che non potevano condurre che alla galera
ed alla forca. È facile immaginare come riuscissero confortanti
all'animo afflitto del povero padre, quegli argomenti così lampanti
delle idee del magistrato, che dimostravano con tanta evidenza la
protezione che si poteva sperare da lui, tuttavia l'affetto paterno
è così grande che mentre l'istinto naturale lo spingeva a prenderlo
per il collo e a gettarlo dalla finestra, il desiderio di giovare a
suo figlio lo tenne inchiodato sulla seggiola e lo forzò a mostrarsi
pacifico e rassegnato, giustificando come meglio poteva quella strana
monomania di certi giovani esaltati, che si permettevano di pensare che
l'Italia potesse avere il diritto di comandare in casa propria, e di
non volere stranieri!.... Idee stravaganti ed assurde, certamente, ma
che bisognava condonare alla gioventù senza esperienza, esaltata dagli
atti inconsulti del nuovo pontefice Pio IX, il quale aveva commesse le
imprudenze di benedire l'Italia, di richiamare in patria gli esuli e di
liberare i condannati al carcere che il suo predecessore aveva trovati
colpevoli di amare la loro madre.... la patria.... l'Italia!
Il consigliere imperiale alzava le spalle in segno di pietà ed
osservava che la vera patria dei veneti e dei lombardi non era
evidentemente che l'impero d'Austria, riconosciuto da tutte le potenze
che riconoscevano parimenti il Napoletano, le Romagne, la Toscana, il
Piemonte, ma nessuno conosceva l'Italia; un nome antico, che aveva un
valore storico, ma che in politica non contava che come uno zero!...
Tali osservazioni punsero acutamente la probità naturale del buon
cadorino, nato e cresciuto col senso retto del giusto e del vero
indipendente dalle assurdità dei trattati, e non potè a meno di
soggiungere:
— Mi pare che sia il paese e non il governo che fa la patria....
il Cadore è in Italia, e noi siamo italiani, malgrado il governo
austriaco, i piemontesi, i toscani, i romagnoli, e i napoletani, sono
tutti italiani al pari di noi!... nessuno può distruggere quello che ha
fatto la natura!...
— Queste sono le idee sovversive, coltivate dalla vostra famiglia,
e per le quali vostro figlio è in prigione. Ecco il frutto delle
aspirazioni illegali, che espongono gl'incauti ai giusti rigori del
governo, obbligato di tutelare i propri diritti e l'ordine pubblico.
Il governo austriaco non vorrà mai cedere davanti le idee rivoltose di
pochi agitatori....
— Veramente il fermento generale dimostrerebbe che gli agitatori non
sono pochi, rispose sior Antonio, il paese è assai malcontento....
il governo non deve spingere l'irritazione agli eccessi con atti di
rigore.... si ricordi signor consigliere che in Cadore c'è della gente
risoluta, che non ha paura di nessuno, e non è prudente turbare la pace
delle famiglie con violenze inesplicabili....
Il consigliere imperiale sapeva benissimo che i Cadorini erano tutti
liberali e nemici del governo, s'avvide d'essere un po' trascorso coi
discorsi, temette di compromettersi col paese, e come impiegato in
quiescenza non voleva incorrere in pericoli e in disgrazie da nessuna
parte. «Non si sa mai!» egli pensava fra sè, anche una passeggiera
rivolta potrebbe costar cara ai troppo zelanti difensori dell'Austria
la quale sarebbe sicura di reprimere ogni insurrezione, ma non potrebbe
salvare le prime vittime del furore popolare. Era dunque miglior
partito non scoprirsi intieramente, e cambiar tuono per vivere in pace,
e senza pensieri, e modificando a poco a poco le sue espressioni, egli
procurò di persuadere sior Antonio che parlava per vero interesse
del paese, perchè giudicava che le imprudenze erano sempre dannose.
Ciascheduno poteva pensare a suo modo senza esporsi a pagare per tutti.
Del resto egli era animato dalle migliori intenzioni, sempre disposto
a giovare al suo paese, e ai suoi cari compatriotti, e finì la sua
seconda cicalata, in contraddizione colla prima, offrendo i suoi buoni
uffici presso qualche persona autorevole per vedere se fosse possibile
di mitigare la sorte del prigioniero, e per giovargli davanti le
autorità superiori.
Dopo d'aver discusso sul modo di agire, venne deciso di aspettare una
risposta alla lettera scritta a Venezia, per appigliarsi ad un partito:
— E intanto siate prudenti!... raccomandava il consigliere dal quale
sior Antonio prendeva congedo, siate prudenti, che il paese stia
tranquillo!... che ognuno attenda ai fatti suoi!... questo lo dico nel
vostro interesse.... ve lo raccomando per l'interesse di vostro figlio!
Costretto di aspettare i consigli dei padroni, sior Antonio riprese
tristamente le sue occupazioni, ma quando si recò alla sega per
visitare i lavori e dare degli ordini, trovò i segatini, i menadàs e i
zatteri fortemente indignati per il caso avvenuto, come se il governo
avesse colpito un loro figliuolo, e volevano ad ogni costo recarsi a
Pieve per reclamare il prigioniero. I zatteri alzavano le loro scuri in
atto minaccioso, i menadàs agitavano le stanghe armate dall'_anghier_
a due punte, i segatini mostravano il coltello, e tutti gridavano:
vendetta.
Ci volle molta prudenza ed abilità per persuaderli che avrebbero
aggravata la condizione di Tiziano con una dimostrazione tumultuosa
che non poteva avere altro risultato che di fare nuove vittime, che
conveniva aspettare un momento più opportuno per ottenere giustizia,
e che per ora era necessario di astenersi da ogni atto imprudente ed
intempestivo.
Frattanto Bortolo era ritornato colla Nina portando le prime notizie
del fuggitivo, che era giunto felicemente in Auronzo. Per via non
avevano incontrate persone sospette. Stavano sempre attenti guardando
da ogni parte se vedessero spuntare l'elmetto dei gendarmi o se
qualcuno li seguiva, o veniva ad incontrarli.
Prima di giungere in Auronzo si separarono, Michele volle entrare nel
paese a piedi pei sentieri e i viottoli nascosti dietro le case mentre
il suo compagno di viaggio riprendeva la strada di Pieve. Bortolo
non sapeva altro, e tutto contento della sua impresa felicemente
riuscita, fregava la Nina con due manate di paglia, e vedendola
sfinita inzaccherata fino al ventre, e bagnata di sudore, procurava di
consolarla con delle buone parole:
— Povera Nina, le diceva, ti darò una buona porzione di avena e crusca,
e sarai contenta, e potrai riposarti al caldo.... e quella brutta gente
non avrà il gusto di chiapparlo il nostro amico.... noi lo abbiamo
salvato. Avessimo potuto salvare anche il nostro padrone!... mah!
povero Tiziano.... Povero Tiziano!...
Fido accovacciato in un angolo della stalla stava ascoltando i discorsi
del giovane, e avendo udito il nome del suo padrone assente, alzava gli
occhi malinconici, e mandava un guaito doloroso.
Michele aveva un amico in Auronzo, nella cui casa poteva starsene al
sicuro, apparecchiando la sua fuga in modo da farla riuscire, mentre
la polizia lo cercava da ogni parte, e ne mandava i contrassegni al
confine.
Da colà egli faceva avvertire segretamente Giacomo Croda del suo
arrivo, e d'accordo con lui e con l'amico venne stabilito di cacciarsi
nelle montagne del Tirolo e di attraversarle per recarsi nella
Svizzera. Nel cuore dell'inverno l'impresa era assai faticosa, ma non
impossibile per due intrepidi cacciatori di camosci, e specialmente
colla guida di Giacomo il quale dall'osteria delle Alpi sul lago
di Misurina conduceva i viaggiatori pedestri, tedeschi ed inglesi,
sulle più eccelse cime dei monti, nei mesi estivi, e faceva anche il
contrabbandiere in tutto il tempo dell'anno con inarrivabile destrezza.
Quando il tempo si mise al sereno passarono l'Ansiei, e ben muniti di
provvisioni s'inoltrarono per un sentiero appena praticabile dalle
capre. Varcarono montagne che parevano inaccessibili, costeggiando
i precipizii alle falde di eccelse rupi che alzavano a perpendicolo
le creste nude, frastagliate ed aguzze, come gigantesche muraglie
diroccate, veri baluardi naturali dei confini d'Italia.
Attraversarono vallate boscose e profonde solitudini, ove non si
udiva altro suono che il fragore dei torrenti, il sibilo del vento,
e gli acuti stridi degli uccelli di rapina. Non traccia d'uomo in
quei selvaggi deserti, ma una natura sublime che elevava lo spirito
al di sopra della terra, e delle umane miserie. Rupi sopra rupi,
accatastate, rotte dalle frane, frastagliate di boschi, cime nevose
d'ardua salita, ove appena raggiunta la sommità si vedevano nuovi massi
spaventosi che si dovevano superare quasi a perpendicolo, aggrappandosi
colle mani ai magri virgulti che sporgevano dai crepacci. Ma quando
avevano guadagnata la più eccelsa vetta della più alta montagna, e il
loro sguardo dominava le cime sottoposte e l'immensa pianura che si
stendeva fino ad una linea azzurra che indicava l'Adriatico, allora si
credevano i padroni dell'universo, e non avevano più nulla a temere
dalle tirannidi dei governi e dalle insidie degli uomini. Michele
saliva sopra una roccia, faceva dei segni cabalistici in aria, e quando
Giacomo Croda gli chiedeva delle spiegazioni, egli rispondeva:
— Maledico i tiranni, scaglio anatemi a tutti coloro che pretendono
dominare in casa degli altri contro il diritto di natura. Verrà un
giorno nel quale saranno sepolti dalla giustizia popolare, come quelle
pietre che credevano di stare al sole per lungo corso di secoli, e che
ora sono sepolte dalle valanghe e stanno ai nostri piedi.
Alla notte i due viandanti si riposavano nelle _baite_, capanne
abbandonate dai pastori che all'inverno si ritirano nei villaggi
o scendono alla pianura. Accendevano il fuoco con rami di abeti e
di ginepri, cenavano tranquillamente intorno alla fiamma. Michele
trovava eccellente ogni pasto, dichiarando che il pane nero delle
carceri non avrebbe mai avuto l'onore di entrare nel suo stomaco. Poi
accendevano le pipe, e ciarlavano fino alla comparsa del sonno. Allora
si coricavano al suolo avvolti nelle loro coperte o sepolti sotto le
foglie secche, se avevano la fortuna di trovarne in quei tugurî, e
russavano fino al mattino.
Talvolta però il freddo era così acuto che tagliava il viso, toglieva
il respiro, gelava le estremità, diventava pericoloso. Ma il pensiero
della libertà rianimava il coraggio di Michele, il quale piuttosto di
vivere nell'aria cupa e mefitica d'una prigione, preferiva di morire
intirizzito sulle Alpi.
Talvolta potevano anche scendere in qualche villaggio, ed entrare in
qualche capanna conosciuta da Giacomo, ove i contrabbandieri si davano
la posta, e trovavano un rifugio sicuro. E colà poterono refocillarsi,
dormire sopra un letto, e rinnovare le provvisioni. Vicino ai confini
raddoppiarono le precauzioni e la vigilanza; e sovente nascosti
dietro una roccia videro passare da lontano le guardie doganali che
perlustravano i luoghi sospetti; ma uscirono sempre felicemente da
ogni pericolo, e dopo molti giorni di marcie faticose attraverso le
Alpi tirolesi, entrarono finalmente nel Cantone Ticino. Appena varcato
il confine, Michele salutò con entusiasmo la Svizzera, e messosi in
ginocchio volle baciare la terra della libertà.
Dopo d'essersi riposati qualche giorno si divisero. Michele consegnò
a Giacomo alcune lettere per lo zio, per Sior Antonio e per l'amico
d'Auronzo, e partì pel Piemonte. L'altro, fatte le sue provviste di
tabacco e sigari, si unì a dei colleghi che avevano gli stessi motivi
di lui per evitare le strade maestre, e ritornò in Cadore, dove
consegnò le lettere ricevute.
Sior Antonio fu contento di sapere che Michele era giunto felicemente
in paese libero, ma sentì doppiamente il dolore della prigionia di suo
figlio, ed era grandemente meravigliato di non aver ancora ricevuto
nessuna risposta da Venezia.
Finalmente dopo lunga aspettativa giunse un messo mandato a posta
dai padroni il quale giustificò il motivo del loro silenzio. Avevano
ricevuto la sua lettera, ma era sfuggita per miracolo alla sorveglianza
della sospettosa polizia, e non era prudente di mandare per la posta
delle comunicazioni segrete, perchè tutte le corrispondenze sospette
venivano aperte, e potevano compromettere molte persone.
Sior Antonio corrugava la fronte e incrociava i sopracigli, poi
coll'indice della destra toccandosi una dopo l'altra le dita della mano
sinistra, aperta come un ventaglio, diceva:
— Violato il domicilio domestico; violato il segreto delle lettere;
punito l'amore di patria come un delitto; arrestati i galantuomini;
obbligati a fuggire dal paese quelli che non vogliono andare in
prigione. — E qui cambiando mano, e coll'indice della sinistra,
toccando successivamente le dita della destra, continuava: — la
coscrizione manda gli italiani in Ungheria, gli ungheresi in Boemia,
i boemi in Austria, gli austriaci in Croazia, i croati in Italia!
ogni popolo è mandato dall'imperatore a ribadire le catene dei suoi
vicini, e tutti si lasciano condurre come tante bestie a compiere i
voleri di un uomo a proprio danno. Il denaro dei contribuenti parte
per Vienna ad impinguare le case tedesche; tutti i capi d'ufficio sono
mandati dall'Austria; è proibito a chi soffre di lamentarsi, sotto pena
della galera; vietate le armi per difendersi.... ed avendo esaurite
le dieci dita nell'enumerazione delle piaghe principali della patria,
sior Antonio alzava ambe le mani in aria, e battendo i piedi in terra,
gridava: — Calpestati e vilipesi in casa nostra!.... disprezzati dagli
stranieri! questa è la nostra condizione.... e gli italiani hanno la
viltà di tollerarla!...
Il messo correva a chiudere la finestra, e gli faceva cenno di tacere,
di non commettere nuove imprudenze, ma quando sior Antonio aveva
incrociati i sopracigli, non era facile calmarlo.
Alfine dovette starsi zitto, e lasciare che anche l'altro parlasse.
Costui gli disse che pur troppo i padroni non potevano nulla per
suo figlio, che essi pure erano sospetti al governo, che andasse
egli stesso a Venezia, e procurasse di farsi raccomandare da qualche
autorità locale, che non c'era tempo da perdere, che lo aspettavano
senza ritardo, e che giunto in casa loro sarebbe consigliato e diretto
nell'interesse di Tiziano. Si decise subito per questo partito, e
mentre che Maddalena gli apparecchiava la valigia, egli corse di nuovo
dal Consigliere imperiale, il quale non potè esimersi di raccomandarlo
ad un segretario di Tribunale, con una di quelle lettere insignificanti
ed ambigue, che vogliono dire, a chi sa leggere fra le linee:
«vi raccomando il portatore della presente, perchè non posso fare
altrimenti. Tiratevi d'impiccio come potete, che ve ne sarò gratissimo,
come d'un favore personale. E comandatemi liberamente, che io sarò
sempre disposto di fare altrettanto per voi.»
Sior Antonio, che non sapeva leggere fra le linee, e che credeva che
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