Il roccolo di Sant'Alipio - 15

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fossero stati ad una manovra inoffensiva. Il Corpo Bandiera e Moro,
composto tutto di giovani veneti d'ogni classe, ricchi e poveri,
studenti, impiegati, letterati, mostrò un eroismo degno di vecchi
soldati. L'artiglieria di terra e di mare li eguagliava in fermezza ed
in valore; tutti gli altri corpi li secondavano. Noncuranti della vita,
dimenticavano la stanchezza e la fame, e non chiedevano mai riposo
davanti al fuoco incessante del nemico.
Rotti e smontati tutti i cannoni, Marghera divenne un mucchio informe
di rovine, ed il governo veneto ordinava di abbandonarla, e fu evacuata
con indescrivibile dolore dei soldati.
In questo memorabile assedio gli Austriaci lanciarono entro Marghera
70,000 proiettili, fra palle, bombe e granate, oltre un numero
sterminato di razzi, con gravissime perdite da ogni parte.
A Venezia il pane cominciava a scarseggiare e si componeva di varie
farine, frumento, segala, granoturco, avena, fagiuoli, ceci, e Bortolo
assicurava che vi si metteva dentro un po' di tutto, e nulla di buono.
Era una pasta bruna, ingrata al palato, e di difficile digestione.
La farina di granoturco veniva distribuita a razioni ed era in
parte avariata. Mancavano le carni ed il pesce, i pescatori venivano
bersagliati dalla flotta austriaca, e calati a fondo. La poca carne
di cavallo si vendeva tre lire la libbra, un ovo venti soldi; il vino
era tutto consumato, meno il così detto vino di Cipro, fabbricato dai
Giacomuzzi, che si vendeva assai caro. I soli ospitali avevano del
pane bianco, e della carne pel brodo, ma mancava affatto il ghiaccio
indispensabile ai feriti, e la china necessaria ai febbricitanti. I
soldati inzuppavano il pan nero nell'acquavite, per poterlo inghiottire
con meno nausea.
Quel diavolo di Bortolo l'aveva indovinata mettendosi a fare il garzone
dilettante dal pasticciere suo amico, il quale si era immaginato di
fabbricare una specie di pane di lusso, assai peggiore del pane comune
dei tempi ordinari, ma meno orribile di quello del giorno. Era una
specie di _zaleto_ misto, che però non conteneva le segature di legname
introdotte in certi altri pani.
Bortolo otteneva sempre qualche zaleto in compenso delle sue
prestazioni, ed egli se ne privava e correva a portarlo in dono
alle vicine dei suoi padroni, le quali pativano realmente la fame,
e si mostravano assai commosse e riconoscenti della bontà del
giovane cadorino, il solo dei tre che era rimasto fedele alla loro
conversazione. Dopo la ferita di Michele erano state quasi abbandonate
anche da Tiziano, il quale impiegava le ore disponibili andando a far
compagnia all'amico infermo, ma anche queste ore erano poche, perchè
i bisogni del servizio militare diventavano sempre più pressanti, a
motivo dei morti e dei feriti messi fuori di combattimento. Bortolo
però otteneva dei permessi dall'autorità dei suoi capi perchè serviva
gli ufficiali, e si rendeva utile ai malati colla sua assistenza, e
con molte prestazioni. Egli era dunque il solo che visitava sovente le
donne, con somma loro consolazione, perchè oltre dei doni preziosi, le
informava delle notizie dell'assedio, e le aiutava con mille piccoli
servigi, in mezzo alle angustie d'ogni fatta di quei giorni tremendi.
La Gigia che quando riceveva le visite degli ufficiali lo trattava da
subalterno, trovandosi abbandonata da loro, ed assistita cordialmente
da lui lo trattò da eguale, e con delicati riguardi, la nonna poi era
innamorata addirittura di quel bravo giovane, così serviziato, gli
manifestava apertamente la sua affezione, e gli raccontava tutte le sue
disgrazie. I viveri tanto cattivi erano saliti a prezzi esorbitanti, e
mancando il lavoro mancava anche il denaro necessario.
Bortolo ne parlò al suo padrone, si raccomandò a Michele, e fra l'uno e
l'altro coll'intervento della gentildonna Steno, informata dei bisogni
urgenti delle povere donne, trovarono dei lavori, e vennero ordinate
delle camicie pegli ospitali. Bortolo, lieto di giovarle, apportava
le commissioni e accompagnava le donne quando andavano a riportare i
lavori ed a riscuotere i denari.
Così la nonna non mancava delle cose più necessarie, la Gigia era
contenta, e Bortolo esercitava sopra di loro una sorveglianza attiva,
ed una specie di tutela benefica, le consigliava in tutti i loro
affari, provvedeva ai loro bisogni, ed insegnava alla ragazza a
cavar partito di tutto, ad essere previdente ed economa, virtù che
scarseggiavano in quelle donne che avevano vissuto fino allora senza
tanti pensieri, per l'abbondanza d'ogni derrata a buon mercato,
ordinaria a Venezia nei tempi normali.
Allora poi che pareva ogni cosa volgesse al precipizio, le prestazioni
e le assistenze del buon cadorino erano un vero beneficio per due
povere donne, esposte a tutti i pericoli. E veramente Venezia aveva
raggiunto il colmo delle sventure e dell'eroismo. Al blocco ed alla
conseguente miseria si era aggiunto il bombardamento, ed il colera. La
pioggia di fuoco era incessante, e i proiettili cadevano sulla città
senza risparmiare nè gli ospitali, nè i monumenti, nè le opere d'arte
insigni; e nemmeno le più sacre memorie erano rispettate dall'esercito
assediante. Le bombe, le palle, gli obici colpivano i vecchi, le
donne, i neonati in seno alle madri, i supplicanti inginocchiati ai
piedi degli altari nel tempio, che imploravano la divina misericordia
su tante disgrazie che affliggevano la patria. Il caldo eccessivo,
i miasmi palustri, la fame, i cibi corrotti, i disagi d'ogni genere
avevano diffuso il morbo in misura spaventosa, tanto che mancarono
perfino le braccia per seppellire i morti.
Lo squallore regnava dovunque, gli abitanti scarni, scolorati,
silenziosi, dovevano abbandonare le loro case esposte alle bombe, ed
emigravano da un punto all'altro della città, trascinandosi dietro i
bambini ed i vecchi, portando gl'infermi, mentre tuonava il cannone e
le bombe cadevano sulla via, poco lontano dalla piazza di San Marco.
Taluno esclamò: — Ci trarranno dalle nostre case, ma non ci metteranno
spavento. — Un cittadino, disfattogli da una palla il letto dove
dormiva, se lo fece rifare e ci si ricoricò. Una fanciulla, raccolta la
palla cadutale accanto, ne racconterò, disse, quando sarò vecchia. Una
madre, al figliuolo che la invitava a sloggiare dalla casa in pericolo,
rispose tacciandolo di viltà; ed aggiunse: qui sono nata, qui voglio
morire.
Vi furono atti memorabili, abnegazioni generose, virtù ignote nella
storia di quel terribile assedio; e in mezzo a tante agitazioni e a
tanti scompigli, quell'eroica popolazione si conservò pura da ogni
delitto fino alla fine, ma certo non mancarono quelle tristi figure
che vengono a galla nella schiuma di tutte le rivoluzioni, per pescare
nel torbido e suscitare disordini. Vissuti oziosi durante l'assedio, a
mormorare sulle panche delle bettole e dei caffè, quando ogni ulteriore
resistenza era diventata impossibile, essi censuravano acremente la
fiacchezza del governo, e colle solite declamazioni eccitavano le
passioni popolari, volevano la resistenza prolungata fino alla totale
distruzione della città, e mandavano le turbe, esaltate dai loro
discorsi, ed interessate al disordine, a urlare sotto i balconi del
governo per opporsi ad ogni capitolazione.
Ma quando Manin compariva al verone del palazzo ed affidava alla
guardia civica l'onore e la sicurezza di Venezia, i sovvertitori
trovandosi in minoranza dovevano mettere le pive nel sacco e ritirarsi.
Il dittatore eccitava i Veneziani a non mai disperare della patria
anche se dovesse soccombere pel momento, osservando riguardo
all'Austria: «che male si edifica sull'abisso, e che per le nazioni il
martirio è anche la redenzione.»
Il conte Ermolao era tanto convinto di queste massime che sopportò
sempre con rassegnazione il suo martirio, ed era tale la sua fiducia
nel capo del governo, nella milizia, e nella guardia civica, che
non trovò mai necessario di accettare nessuna carica, e si astenne
sempre con eroica risoluzione dall'afferrare un fucile sia per la
difesa contro il nemico, sia per conservare l'ordine interno, il
quale egli trovava tanto bene affidato alla guardia civica che trovava
affatto superfluo di farne parte, lasciandole anche con piena fiducia
l'incarico di custodire le sue proprietà, e tutta la sua fortuna.
Anche per evitare il pericolo del coléra egli assicurò che bastava
starsene in casa per fuggire il contagio, e la sua perspicace prudenza
avendogli consigliato di rispettare un vecchio deposito di bottiglie,
dimenticate in un armadio ignoto a tutti i suoi famigliari, e perfino
a sua moglie, che avrebbe potuto abusarne per la sua mania delle
ambulanze, egli ne faceva uso, moderato, ma giornaliero, inzuppandovi
qualche biscottino inglese conservato in scattole di latta, messe
da parte nei primi tempi del blocco; e rompeva l'aria infetta
dall'epidemia fumando dei buoni sigari d'avana, acquistati per amore di
patria, quando non si dovevano fumare i sigari dell'appalto austriaco,
e poi tenuti di riserva in un cassettone della sua camera, per offrirne
agli amici... se le condizioni di Venezia non lo avessero privato anche
di questo piacere.
Ma i veneziani che non avevano saputo imitare la previdenza del conte
Ermolao, avevano tutto consumato; ridotti senza munizioni e senza
pane, uccisi dalle palle, dalle febbri, dal coléra, vedendo che le
case bruciavano, e che sarebbero morti tutti di fame si risolsero
a malincuore a capitolare, dopo 14 mesi d'assedio e 24 giorni
d'incessante bombardamento.
Quegli ultimi giorni furono pieni di ansietà, di dolorosi congedi,
e di lagrime. Michele, zoppicante, sostenuto da Tiziano, uscì
dall'ambulanza, e ritornò al suo alloggio per disporsi alla partenza.
Egli era deciso di recarsi in Piemonte, per riprendere le armi, appena
ristabilito in salute. I due amici si recarono a dare il loro addio
alle buone vicine e abbracciarono cordialmente la nonna, la quale dopo
tante privazioni deplorava che Venezia fosse costretta di cedere, ed
avrebbe acconsentito di buon animo a soffrire ancora per lungo tempo,
piuttosto di dover rivedere nuovamente quei brutti ceffi croati. Anche
la Gigia si mostrava afflittissima che tutto fosse finito, e assicurava
i suoi vicini che quella vita agitata e piena di pericoli non le
dispiaceva punto, e la preferiva al silenzio della tomba che avrebbe
invaso Venezia al ritorno degli austriaci.
Bortolo colle sue economie s'era finalmente deciso di comperare gli
orecchini per sua madre, e li ottenne in ribasso da un contrabbandiere
che li aveva salvati dalla fusione prescritta dal governo. Poi era
andato a salutare l'amico offelliere il quale gli propose di rimanere
a Venezia al suo stabilimento, assicurandolo che stava per tornare
il tempo dei buoni affari pel suo commercio, perchè gli austriaci
sono gran consumatori di ciambelle e cialdoni, e gli promise un buon
salario, colla giunta di un benefizio negli utili. Ma Bortolo non volle
accettare quelle vantaggiose proposte, sembrandogli che il lavorare di
ciambelle pei tedeschi fosse quasi un delitto contro la patria e contro
il senso comune. Ma per non offendere l'amico giustificò il suo rifiuto
dicendogli di dover seguire il padrone, che gli era stato affidato dai
parenti, perchè dovesse stargli sempre vicino, ed al quale era legato
d'affetto quasi fraterno. Era nato in casa Lareze, ove suo padre era
morto, ove sua madre serviva ancora, e non avrebbe potuto decidersi di
abbandonare quella famiglia, che considerava come la sua.
L'offelliere insistette, dicendogli che ciascheduno aveva diritto di
migliorare la propria condizione, e si forzava di convincerlo della
convenienza di rimanere, tanto gli piaceva quell'uomo, semplice,
laborioso ed onesto, e lo vedeva partire con vera afflizione. Ma
Bortolo si mostrava irremovibile, allora l'offelliere gli disse:
— Pensa che qui ti si presenta un bell'avvenire; io divento vecchio,
certe fatiche non posso più sopportarle, sento gran bisogno di riposo,
e se posso rifarmi delle perdite che ho subite in questi ultimi tempi,
desidero di andar a morire al mio paese, nelle nostre montagne....
allora ti cederò il negozio a buoni patti.
Alla fine per liberarsi da quella insistenza, Bortolo conchiuse col
dirgli che ci avrebbe pensato in seguito, che si sarebbe consigliato
col padrone, e con sua madre, ma che al momento non voleva vedere i
tedeschi a Venezia, dopo d'aver rischiato la vita per farli partire,
che aveva bisogno di rivedere il Cadore, e la famiglia che lo
aspettava, e gli promise che gli avrebbe scritto fra qualche tempo, per
dargli una risposta definitiva.
E quando fu decisa la partenza andò a prender congedo da quelle
buone donne alle quali aveva tanto giovato durante le strettezze
dell'assedio, e salì quelle scale col cuore lacerato dall'amaro
pensiero dell'ultimo addio.
Esse lo accolsero come un vecchio e carissimo amico, al quale dovevano
la più viva riconoscenza; si mostrarono inconsolabili della sua vicina
partenza, e la nonna cogli occhi rossi gli disse:
— Quasi quasi mi dispiace d'avervi gratitudine; vi volevo proprio bene
come ad un figlio, lo sento adesso che ci dovete lasciare... private
della vostra compagnia proveremo un gran vuoto... e mi dispiace d'esser
vecchia perchè non potrò più rivedervi....
— O perchè?... gli rispondeva Bortolo, sapete che le montagne stanno
ferme e che gli uomini camminano.... Io mi sono abituato a poco a poco
a Venezia, mi ci trovo bene... mi dispiace tanto di lasciarla... e
desidero ritornarci.
— Bravo! così mi piace, soggiungeva la nonna, mantenete la vostra
parola, tornate presto... e intanto non mancate di scriverci, per farci
sapere le vostre notizie.
La Gigia cogli occhi intenti al suo lavoro non fiatava. Egli la
osservava attentamente, e la gli sembrava cambiata.
Rimase con loro un bel paio d'ore, che gli passarono come un lampo.
Non poteva decidersi d'andarsene. Gli pareva di aver sempre qualche
altra cosa da dire, e ci pensava sopra in silenzio, senza trovarla.
Finalmente si alzò da sedere, andò a dare un bacio alla nonna che
se lo strinse al seno, bagnandolo di lagrime, e forzandosi invano
di parlare, perchè la parola gli si strozzava in gola. Poi quando fu
davanti alla Gigia, i suoi occhi si scontrarono in uno sguardo strano,
in uno sguardo nuovo per lui, così lungo, così profondo ed espressivo,
che lo colpì, e gli fece sentire una sensazione nuova, ignota, dolce e
dolorosa ad un tempo.
Quando egli le stese la mano, essa si alzò, depose il lavoro, e mostrò
di volerlo accompagnare alla porta. Salutò nuovamente la nonna che
piangendo gli mandò l'ultimo saluto con un cenno del capo, e seguì la
ragazza che aveva aperto l'uscio e lo attendeva sul pianerottolo. Le
prese la mano, e sentì che tremava, volle dirle qualche cosa e non gli
fu possibile di raccapezzare un'idea. S'avvide che essa aveva gli occhi
velati di lagrime, e dopo un breve silenzio le disse addio; essa non
gli rispose che con un cenno della mano.
Scese le scale come cieco, si rivolse un'ultima volta a salutarla, e
quando non la vide più udì un singhiozzo mal represso che gli penetrò
nel profondo dell'anima, volle ritornare sui suoi passi, ma udì il
rumore della porta che si richiudeva, e rimase immobile a quel posto,
appoggiato alla ringhiera.
Dopo qualche istante continuò a scendere le scale, senza sapere dove
poggiava i piedi, sbalordito, confuso; attraversò le solite vie, senza
vederle, e giunto in piazza si perdette fra una folla di gente che
gridava:
— «Non vogliamo cedere, vogliamo sortire in massa» ed anche lui si mise
a gridare come un disperato: — «bisogna resistere e difendersi, non si
deve deporre le armi.»
Ma la capitolazione era firmata, e il dittatore aveva già rassegnati i
suoi poteri al Municipio. Il sacrifizio era consumato.
La libertà di Venezia cadeva quando Roma era occupata da sei settimane,
la restaurazione del duca di Firenze effettuata da due mesi, la pace
fra il Piemonte e l'Austria stipulata da diciotto giorni, l'Ungheria
ritornata al servaggio.
Manin s'era imbarcato colla sua famiglia sul piroscafo francese _Il
Plutone_ e usciva da Venezia alle tre pomeridiane del 23 agosto 1849.
Otto altri navigli imbarcavano i quaranta proscritti dall'Austria,
seguiti da numerosi esuli volontari, che non volevano vedere i
tedeschi.
All'ora nefasta dell'entrata delle truppe austriache il conte Ermolao
s'era affacciato ad un balcone del suo palazzo per veder passare
gl'invasori. Nessuno li guardava in faccia, il popolo fu dignitoso,
altero, glaciale, e i croati gettavano delle occhiate sospettose,
temendo ad ogni istante di saltare in aria.
La contessa Marina Steno s'era vestita in lutto, e desiderava di
lasciare Venezia, un vapore inglese attendeva ancora gli ultimi
emigranti, ma il conte Ermolao resisteva, desideroso di non alterare le
sue abitudini, e di non abbandonare gli agi aviti del suo palazzo. Ma
quando vide passare il nuovo padrone di Venezia, il tenente-maresciallo
Gorzkowsky, generale di cavalleria, con quel piccolo cheppì che gli
lasciava scoperta la nuca, e coprendogli la fronte gli si appoggiava
alla sommità del naso, piccolo cheppì bizzarro, sormontato da un
pennacchio di penne verdi, che lo facevano rassomigliare ad un vasetto
di maggiorana sulla testa d'un cosacco, provò un tal senso di ribrezzo
insormontabile, che non si sa bene se sia provenuto da indignazione
patrizia, o da paura; il fatto sta che chiamata in fretta la moglie,
si dichiarò pronto a seguirla, e fino che i domestici approntarono le
valigie, la fece entrare in una gondola che li condusse a bordo del
vapore.
Appena saliti sul ponte videro il colonnello dei Cacciatori delle Alpi
che guardava mestamente Venezia, conversava con un suo ufficiale che si
reggeva ad una stampella.
Calvi e Michele, salutavano la città perduta dal ponte della nave
straniera che doveva condurli in esiglio, e giuravano che un giorno
l'avrebbero vendicata.
Udito il fruscìo d'una serica veste, Michele sempre sensibile a quel
suono, rivolse la testa, vide la gentildonna vestita a bruno; le si
inchinò profondamente, e rivolto a Calvi, gli disse:
— L'anima di Venezia parte con noi!... noi abbandoniamo ai Tedeschi
un cadavere, le mura infrante d'una città devastata dalla loro
barbarie.... lo spirito, il cuore, il prestigio di Venezia escono
dalla laguna cogli esuli e coi proscritti.... per fare appello agli
Italiani.... e spingerli a riconquistare questo prezioso gioiello della
patria!...


XVII.

Pochi giorni dopo la caduta di Venezia, sior Antonio veniva avvertito
da una lettera del figlio del giorno preciso del suo ritorno, e
attaccata la Nina al solito veicolo, andava ad incontrarlo fino a
Longarone, come gli era stato chiesto.
Tiziano rivedendo i suoi monti si sentiva aprir l'animo a nuova vita.
Uscendo da Venezia bersagliata dal ferro e dal fuoco, prostrata dal
coléra e dalla fame, aspirava avidamente l'aria balsamica della
campagna, si sentiva rinascere al contatto della vigorosa natura
alpina, e anelava di rivedere le persone dilette che lo attendevano
ansiosamente. Bortolo invece era triste, preoccupato, malcontento;
gli pareva che i monti gli opprimessero il petto e gli togliessero il
respiro. Si lamentava che gli mancasse l'orizzonte infinito del mare,
e quell'ampio specchio azzurro della laguna, dalla quale sorgevano
tante cose meravigliose. E si burlava delle catapecchie di montagna,
affumicate, nere, cadenti, e delle rustiche chiesuole dei villaggi, che
messe a raffronto dei palazzi di marmo e delle basiliche di Venezia gli
facevano pietà.
L'incontro con sior Antonio fu dei più espansivi, e l'entrata nel
vecchio cortile di casa riuscì commovente per tutti. Due madri
attendevano i loro figli, tanto lungamente desiderati, una sposa
rivedeva alfine il fidanzato reduce da tanti pericoli, e Fido
riconosciuti i suoi vecchi amici prendeva viva parte a quelle gioie
domestiche. Ma siccome è assai raro che nella vita ci sieno contentezze
complete, così un grave malanno amareggiava quel ritorno; l'Austria
aveva vinto da ogni parte, e l'abborrito governo straniero stringeva
ancora l'Italia nella sua mano rapace.
— L'ho sempre detto, ripeteva il Consigliere imperiale, l'ho sempre
detto che l'Austria non vorrà mai abbandonare il suo dominio in questa
Italia, che del resto non sarebbe capace di governarsi da sè!....
Dopo la caduta di Venezia egli riteneva che tutto fosse finito per
sempre. Salì in soffitta, spolverò i ritratti dell'imperatore, degli
arciduchi, e dei marescialli, e li rimise al loro posto, d'accordo
con tutte le Potenze europee che la pensavano come il Consigliere, e
ritenevano l'Austria invulnerabile, e l'Italia spacciata.
Maria era ritornata ad abitare il roccolo di Sant'Alipio con la sua
vecchia fantesca, e riceveva ogni giorno il suo fidanzato, che aveva
tante cose da raccontarle dopo così lunga assenza. Il nome del capitano
Kasper Kraus tornava sovente nei loro discorsi, e le avventure del
passo della morte e di Brondolo li faceva pensare ai passati pericoli,
agli arcani della provvidenza, alla dura sorte riservata al loro paese,
dopo tante vittime, e tanti sacrifizi.
Al frastuono dei cannoni, al fumo della polvere, ai pericoli ed alle
desolazioni della guerra era succeduta una pace profonda, un silenzio
solenne, un tenero amore che domandava alfine d'essere soddisfatto
colle dolcezze della vita comune.
Il matrimonio fra i due giovani venne dunque fissato per la fine
d'autunno; e fu pattuito in famiglia che fondendo insieme gli averi dei
due sposi, essi avrebbero abitato il roccolo di Sant'Alipio per vivere
tranquilli in quell'angolo romito delle Alpi.
E venne finalmente anche quel giorno tanto desiderato. L'arcidiacono
celebrò solennemente il matrimonio, Michele fu il compare,
rappresentato da Bortolo che aveva ricevuta la procura dall'esule,
unitamente ai doni per gli sposi.
Sior Antonio dichiarò agli amici che quello era il più bel giorno della
sua vita, Maddalena pianse di letizia, come aveva pianto di dolore, le
lagrime sono per molte donne l'espressione dei punti salienti della
vita, e la manifestazione spontanea di sensazioni contrarie. Bortolo
si mise in guanti per la prima volta in sua vita, offrendo così un
intermedio fra l'abito nero di Tiziano, e le brache corte di sior
Antonio, stonature dei costumi di montagna che rappresentano alla metà
d'un secolo gli avanzi del passato e i gusti dell'avvenire, in una
famiglia che passa dalla originaria semplicità, alle esigenze d'una
classe superiore modificata dall'educazione.
Tutto il paese applaudì a quelle nozze, ed alla sera gli sposi si
ritirarono al roccolo, ove un raggio di luna rischiarava la modesta
casetta di legno e gli effluvi delle piante imbalsamavano la camera
nuziale, nella quale non penetrava altro rumore che l'a solo d'un
usignuolo, pieno di soavi melodie, fra un coro di grilli, accompagnati
da lontano dal cupo rumore della Piave che s'infrange fra i sassi in
fondo della valle.
E così la vita riprendeva il suo corso normale, in completa bonaccia,
come il mare dopo una fiera burrasca.
Tiziano assisteva il padre nell'amministrazione degli affari dei suoi
padroni di Venezia, e si occupava del taglio dei boschi, delle seghe,
della spedizione dei legnami, e quando rientrava al roccolo incontrava
lo sguardo sereno e soddisfatto di Maria che gli correva incontro per
avere un bacio.
E nelle ore perdute, Tiziano continuando le abitudini di Isidoro,
coltivava il terreno circostante, colla stessa anarchia d'una volta,
volendo ricavare da quella poca terra tutto ciò che essa può produrre
in quel clima, dei fiori e delle frutta, del frumento, del granoturco,
delle patate, dei fagiuoli, del grano saraceno e delle fragole,
tutto misto e confuso cogli alberi e le erbe aventizie, in pittoresco
disordine, percorso dalle farfalle.
Alla sera colla pipa in bocca e l'anaffiatoio in mano egli bagnava le
sue piante, mentre Maria riparata da un cappellino di paglia coglieva
le frutta per la cena.
Pareva che la loro vita dovesse scorrere come un fiume di latte e
miele nella modesta semplicità di quell'idillio, ma l'esistenza non si
uniforma mai alla parte esterna delle cose, ma si compone a seconda dei
pensieri e dei caratteri. La felicità o la sventura stanno dentro di
noi stessi, ci accompagnano dovunque, e si manifestano costantemente
nelle più svariate circostanze. Così anche in mezzo ai sorrisi di
natura, in quella pace irradiata d'amore, un'ombra cupa, tenebrosa, si
alzava sull'orizzonte, e ne offuscava il sereno.
Michele scriveva dal Piemonte che era entrato nei bersaglieri, che
tutto non era finito, che bisognava apparecchiarsi a nuove guerre, per
compiere l'emancipazione d'Italia. Maria leggeva quelle lettere, che le
piantavano una spina nel cuore, e interrogava il marito:
— Che cosa faresti se ritornasse la guerra?...
— Il mio dovere... le rispondeva il marito.
Ora era evidente per Maria che il primo dovere d'ogni galantuomo
è sempre e dovunque quello di difendere la patria, e fino a che i
tedeschi la scialavano da padroni in Italia, l'onore degli italiani
era offeso e la patria disonorata. Era certo per tutti, che alla
prima occasione favorevole gl'italiani avrebbero riprese le armi,
per continuare le guerre d'indipendenza, fino alla fine; e con questa
spada sempre sospesa sul capo, la completa felicità della famiglia era
affatto impossibile.
Maria comunicava sovente a sior Antonio le sue impressioni ed egli le
rispondeva:
— Il Consigliere mi assicura che tutto è finito... io dico di no.... ma
intanto passano gli anni, e quando si diventa vecchi non si è più buoni
da niente!...
E gli anni passavano davvero, ed anche se Michele scriveva di quando in
quando che la guerra era vicina, che bisognava star pronti, tuttavia le
cose fruste si andavano sempre rappezzando, e si tirava avanti.
Un anno e mezzo circa, dopo il matrimonio, Maria con supremo contento,
sentì il palpito d'una nuova vita che le si agitava nel seno.
Trepidante di gioia annunziò al marito che lo avrebbe reso padre, ed
essa si apparecchiava a ricevere il bimbo da buona madre, allestendo
con operosa sollecitudine tutti gli arredi necessari, quando le lettere
di Michele si fecero più pressanti, eccitando l'amico ad apparecchiarsi
a nuove lotte. Ecco la gioia avvelenata da mille apprensioni. Il
primo frutto del loro amore stava per venire al mondo, e già si
apparecchiavano nuovi pericoli, e si prevedevano nuovi sconvolgimenti,
e quindi nuovi lutti. L'esperienza del passato ammoniva Maria di tutte
le difficoltà alle quali si andava incontro lottando col potente
nemico. Per apparecchiare la lotta in segreto si arrischiava la
prigione, e qui sorgevano i fantasmi dell'arresto, della partenza, dei
lunghi processi, le sofferenze del carcere, l'abbandono della casa, e
per quelli che restavano fuori, il terribile isolamento, il continuo
timore, le smaniose incertezze, e la separazione di due anime legate
dall'affetto, destinate a vivere insieme per allevare i figliuoli nella
pace domestica, per farne degli uomini onesti utili alla patria.... La
patria!... questa santa parola rammentava l'onta del dominio straniero,
il dovere di lavarla nel sangue.... il sangue!.... bisognava dunque
spargerne ancora, dopo tanto che se n'era invano prodigato, e si
richiedevano nuove vittime per ottenere la libertà!...
— Oh maledetti gl'invasori!... maledetto colui che calpesta la
terra bagnata del sudore dei nostri padri!... Che ciascheduno viva
e comandi in casa propria, questa è legge di natura, questo è il
più sacro diritto di tutte le nazioni del mondo!... Dopo il pericolo
della prigione si presentava quello dell'esiglio. Se la congiura non
riesce a buon effetto, se l'Austria cerca i congiurati per seppellirli
vivi nelle sue carceri della Moravia bisognerà cercare la salvezza
in un paese sconosciuto, abbandonare la casa paterna e le dilette
montagne, vivere isolati lontani dai parenti, dagli amici, dalle dolci
abitudini, dalle consuete occupazioni, e forse anche chi sa! mancare
del necessario, vedere i figli nella miseria, e non poter provvedere nè
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