Il roccolo di Sant'Alipio - 03

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un segretario del tribunale dovesse conoscere tutti i segreti necessari
per mettere in libertà un carcerato, fu soddisfattissimo della missiva
commendatizia, alla quale attribuiva la potenza d'infrangere i ceppi e
i chiavistelli di tutte le prigioni di stato della monarchia. Ringraziò
il Consigliere colle lagrime agli occhi, e gli promise la sua eterna
riconoscenza.
Di là passò al roccolo di Sant'Alipio, e chiese a Isidoro Lorenzi se
potesse giovarlo egli pure, raccomandandolo a qualche amico di Venezia.
— Ma senza dubbio, caro sior Antonio, figuratevi se non farò tutto
il possibile per aiutarvi a liberare dagli artigli dell'aquilotto il
povero nostro amico Tiziano. Sedetevi qui con Maria, e torno subito con
una lettera, che vi potrà essere utilissima.
Maria colmò di attenzioni sior Antonio, si mostrò profondamente
addolorata della sventura toccata al compagno della sua infanzia,
incaricò il povero padre di mille affettuose espressioni pel
prigioniero, che essa sperava di vedere fra breve nella loro casetta,
che, dopo la sua partenza e quella di Michele, le pareva muta e
deserta. Egli doveva dire a Tiziano che si parlava tutto il giorno di
lui, che il suo pensiero lo accompagnava di giorno e di notte, che il
suo ritorno sarebbe una bella festa per tutti gli abitanti del roccolo.
Isidoro ritornò colla lettera che portava il seguente indirizzo:
«All'egregio Signor avvocato Daniele Manin, a San Luca, Ponte San
Paternian, Venezia. S. P. M.»
— Voi avrete udito a parlare dell'avvocato Manin.... — gli disse
Isidoro, consegnandogli la lettera.
— È la prima volta che sento questo nome, — gli rispose sior Antonio.
— È un bravo avvocato, e un buon patriota, che potrà esservi
utilissimo. Mi sorprende che non abbiate udito a parlare di lui a
proposito della eterna questione della Strada Ferrata Ferdinandea,
nella quale si è mostrato valente difensore degli interessi e del
decoro del paese.
— Quando lo dite voi, basta. Sarà l'avvocato di mio figlio, e spero che
saprà difenderlo a dovere, in caso di bisogno.
Dopo cordiali ringraziamenti, salutando amichevolmente, uscì dal
roccolo, ma prima di rientrare in casa deliberò di fare una visita al
signor Arcidiacono, d'implorare anche la sua assistenza, e di udire i
suoi consigli.
L'Arcidiacono lo ricevette nel suo studio colla consueta benignità, se
lo fece sedere dirimpetto, gli fece portare un fiaschetto di vino di
Conegliano, lo interrogò con interesse sulla salute della Maddalena,
procurò di consolarlo della sua disgrazia, incoraggiandolo a sperare
nell'esito d'un processo, che non poteva rinnovare le passate condanne,
in un epoca nella quale il capo supremo della chiesa aveva dato un
magnanimo esempio di clemenza coll'amnistia, insegnando ai regnanti
a secondare la voce del popolo, che è voce di Dio, facendo sperare
all'Italia dei giorni migliori.
Sior Antonio apriva l'animo a tali speranze, si sentiva più tranquillo,
alzava gli occhi al cielo, e il bicchiere verso l'Arcidiacono, per
indicargli che beveva alla sua salute, e incoraggiato dalla benevola
accoglienza, si fece coraggio di chiedere anche a lui una qualche
raccomandazione per Venezia.
— Anzi, ben volentieri, caro sior Antonio, ben volentieri, ripeteva
l'Arcidiacono, fregandosi le mani per riscaldarle, e accompagnando le
sue parole con un propizio sorriso. E presa la penna si mise a scrivere
una lettera, mentre l'altro guardava i santi in litografia che ornavano
le pareti della camera, in compagnia di Pio IX e del Vescovo di Belluno
e Feltre, poi gettava un'occhiata sui libri ben legati e messi in
fila sulle scansie della libreria di noce a lustrofino, e in quelle
osservazioni dei quadri e dei libri il buon cadorino pareva compendiare
i pregi dell'Arcidiacono, santità ed eloquenza, e infatti era un buon
uomo, buon patriota, che faceva del bene ai poveri ed agli infelici,
predicava con ardore contro tutti i peccati, descriveva a meraviglia
il paradiso e l'inferno, e avrebbe mandato al diavolo i tedeschi, se lo
avesse potuto.
Il buon prete scriveva in silenzio, e si udiva la penna che
scricchiolava sulla carta, senza sosta, e con movimento accelerato.
Quando ebbe finito piegò la lettera, gli fece la soprascritta, e gliela
porse dicendo:
— Eccovi servito. — All'illustre signor Nicolò Tommaseo — Venezia, — e
non occorre altro indirizzo, perchè tutti lo conoscono. Ne avrete già
udito a parlare?
— Veramente no!... fuori del Cadore non conosco anima viva, ma è
probabile che lo conoscano i padroni....
— Senza alcun dubbio.... è uno dei più insigni letterati d'Italia, uno
scrittore purista, ed erudito, un uomo pio, amico del popolo, e dei
sacerdoti, giusto come l'oro, vi riceverà con carità cristiana, e potrà
giovarvi moltissimo colle raccomandazioni e coi consigli...
— Non ho parole per ringraziarla...
— Vi desidero buona fortuna, e vi sarò gratissimo se mi farete
conoscere l'esito delle vostre sollecitudini per il figlio...
— Anzi a questo proposito devo pregarla d'un altro favore. Io non posso
scrivere a mia moglie, la quale non sa leggere che lo stampato. Io
scriverò a lei, e favorirà di far avere le mie notizie a Maddalena, e
se avrà bisogno di consolazioni la raccomando alla sua bontà.
— Benissimo, caro sior Antonio, potete essere sicuro di tutta la
mia premura... ma vi raccomando siate prudente.... nell'interesse
comune.... non bisogna fidarsi della posta.... non dimenticatevi mai
questo consiglio.... però con quel buon senso che non vi manca, saprete
trovare il modo di farmi indovinare le cose che non potete scrivere.
Non mostrandovi mai avverso al governo, non vi riuscirà difficile di
farmi intendere come stanno le cose.
— Ho capito tutto.... non stia a dubitare che da parte mia non ci
saranno pericoli.... e saprò trattare le cose da uomo prudente.
Volle baciare la mano all'Arcidiacono, lo pregò di ricordarsi di lui
nelle sue preghiere, e non rifiniva di ringraziarlo di tanti favori.
L'Arcidiacono lo accompagnò fino alle scale, e incaricandolo di tanti
saluti per sua moglie, lo congedò cortesemente, gridandogli dietro,
mentre scendeva le scale:
— Buon viaggio.... buon viaggio.... che il Signore vi benedica!....
Il giorno seguente sior Antonio partiva di buon mattino da Pieve di
Cadore, nella sua timonella, tirato dalla Nina, che Bortolo aveva messa
in gambe con una buona profenda di biada, e dopo due giorni di viaggio
arrivava a Mestre, ove consegnato allo stallo della campana, la bestia
ed il veicolo, prendeva una gondola e partiva per Venezia.


III.

Una bella mattina i padroni di sior Antonio se lo videro capitare
in casa tutto fidente nelle lettere commendatizie del Consigliere
imperiale, d'Isidoro, e dell'Arcidiacono, e non poterono ritenere
una solenne risata nel dargli l'annunzio che mentre egli faceva il
viaggio la polizia metteva in prigione l'avvocato Manin, e il letterato
Tommaseo....
È più facile immaginare che descrivere l'espressione del viso di sior
Antonio a tale dolorosa sorpresa. Sbalordito, mutolo e quasi scemo,
non sapeva più che pensare, gli pareva che le cose di questo mondo
si fossero capovolte, tutti i galantuomini andavano in prigione ed
erano obbligati di fuggire, e gli usurpatori, ossia i ladri, facevano
da giudici, perchè gli stranieri gli parevano ladri in scala grande,
introdotti con violenza in casa altrui.
Gli restava la lettera pel segretario, la quale gli servì ad ottenere
il permesso di entrare in prigione per vedere suo figlio. Favore che lo
umiliava, perchè gli veniva concesso da coloro che egli giudicava come
i veri colpevoli, persecutori degli innocenti; come i veri turbatori
dell'ordine sociale, che non avevano altro diritto di comandare che
quello ottenuto dalla forza brutale; che li rendeva gli oppressori d'un
paese che era stato il loro maestro di civiltà!.... La sua coscienza
era la sola norma della sua ingenua politica, e gli pareva che il
semplice buon senso dovesse essere la sola base del diritto, e andare
al di sopra della ragione di Stato.
Quante lezioni di scaltra diplomazia gli dovettero inculcare i padroni
per salvarlo dal pericolo d'essere arrestato anche lui, e messo in
prigione insieme col figlio, perchè si ostinava a voler dire ai giudici
apertamente e schiettamente quanto egli credeva fosse davvero giusto
ed onesto; quando invece era tutto il contrario, perchè l'usurpazione
era un diritto, la forza un'autorità, l'amore di patria una colpa,
il desiderio di liberarla dall'oppressione un grave delitto di Stato!
L'ipocrisia diventava una necessità, l'umiliazione davanti la potenza
dei nemici una assoluta necessità, per salvare le vittime cadute
nelle loro mani. Sior Antonio sbuffava, incrociava le sopracciglia,
batteva i piedi, ma doveva piegarsi, se voleva vedere suo figlio, e non
nuocergli.
Finalmente potè essere condotto alle carceri criminali, accompagnato da
un impiegato che assistette all'intervista del detenuto con suo padre.
Ma quelle porte chiuse, quei catenacci, quelle chiavi, quell'aria
uggiosa e ammuffita del carcere gli misero nelle ossa un ribrezzo che
gli faceva tremare i ginocchi. Quale triste domicilio per un giovane
avvezzo all'aria aperta e profumata delle montagne!
Il povero Tiziano era pallido, smunto, cogli occhi pesti, come un
uomo sepolto vivo. Il padre ne fu desolato, lo abbracciò teneramente,
gli teneva serrate le mani, aveva gli occhi gonfi di lagrime, e gli
mancavano le parole.
Tiziano gli fece animo, gli chiese notizie di sua madre, di Maria,
degli amici, del paese, di tutti di casa, compreso Fido, e con
dei giri di parole procurò di sapere se Michele fosse salvo. Sior
Antonio dapprima non capiva niente, ma poco a poco incominciò a
famigliarizzarsi col linguaggio arcano degli schiavi, vide come si
doveva esprimere il pensiero velato, mascherato, allusivo, senza
compromettere nessuno; e strizzando l'occhio a Tiziano gli disse:
— A proposito devo dirti che l'uccellino che cantava così bene
nell'orto di sior Iseppo, e che volevano accalappiare per metterlo
in gabbia, non si è lasciato prendere ed ha spiccato il volo sulle
montagne....
L'allusione era troppo poco velata perchè l'impiegato che assisteva al
dialogo non dovesse comprenderla, ma finse di non aver inteso e lasciò
andare la cosa senza osservazioni.
Tiziano avendo capito che l'amico era in salvo si rasserenò alquanto, e
procurò d'infondere coraggio a suo padre, si mostrò sempre dignitoso, e
ritornò alla sua prigione rasserenato ad aspettare il processo che gli
facevano i tedeschi, perchè egli italiano, amava l'Italia.
Sior Antonio aveva saputo che i personaggi più cospicui, e le famiglie
più stimabili di Venezia si erano rese invano garanti perchè l'avvocato
Manin venisse processato a piede libero, e vedendo che non c'era nulla
a sperare da un governo spietato e sospettoso, e convinto che bisognava
forse aspettare lungamente l'esito del processo, voleva ritornarsene in
Cadore dove lo chiamavano il dovere e le necessità degli affari, ma i
suoi buoni padroni lo forzarono a rimanere con loro, procurando così al
padre ed al figlio l'unica consolazione alla quale potevano aspirare,
quella di vedersi qualche volta, e di essere vicini.
Allora il bravo cadorino per togliere la moglie dall'ansiosa
aspettativa, decise di mandare sue notizie all'arcidiacono non
dimenticando i prudenti consigli di lui, e quelli dei padroni, che
gli raccomandavano tanto d'essere guardingo e di misurare le parole,
e fatto anche un po' esperto per l'esercizio dei dialoghi che teneva
con suo figlio nel parlatorio del carcere, si accinse a scrivere con
somma precauzione, quanto desiderava di far noto ai parenti ed agli
amici. Ma fra il bisogno di render conto d'ogni cosa, e il timore di
compromettere qualcuno con imprudenti espressioni, egli si trovò nel
più grave imbarazzo, e costretto di pesare ogni pensiero, e di misurare
ogni parola, rimaneva lungamente colla penna in mano, prima di scrivere
una linea. Ogni pagina gli costava sudori, tuttavia scrisse a varie
riprese le seguenti lettere, che dobbiamo pubblicare come documenti
indispensabili che servono a far conoscere il successivo sviluppo degli
avvenimenti che interessano il presente racconto.

«Reverendissimo Signor Arcidiacono
Vengo con questa mia a renderle conto del mio viaggio, che è stato
faticoso per la Nina, e per l'umile sottoscritto, però siamo giunti
entrambi in buona salute. Ho lasciato la Nina sotto la campana di
Mestre, e sono arrivato a Venezia coll'ajuto di Dio. Le persone che
io doveva vedere sono in villeggiatura, e quindi non possono giovarmi
come io sperava. Mi sono assai sorpreso del loro gusto di ritirarsi
in campagna nel cuore dell'inverno, ma Ella sa benissimo, Signor
Arcidiacono che a questo mondo si fa sempre quello che si può, e non
sempre quello che si desidera. Ho veduto mio figlio che sta bene di
salute, quantunque starebbe meglio a casa, ma questo per ora non è
possibile, perchè Sua Maestà imperiale reale ed apostolica, colla
sua eccelsa volontà, si degna di tenerlo in prigione, del che siamo
rispettosamente dolenti. Intanto rimango a Venezia per vedere se sarà
liberato dalla giustizia di Sua Maestà, con tutto rispetto parlando.
Vado ogni giorno in chiesa a San Marco e mi raccomando caldamente alla
Madonna della Consolazione, che si trova sotto un arco a sinistra del
coro, — la Madonna non la consolazione — la quale mi manca del tutto,
per i supremi voleri dell'altefatta Sua Maestà.
Null'altro per ora avendo da aggiungere, la prego, reverendissimo
Signor Arcidiacono, di compatirmi sempre, salutandomi la Maddalena, a
nome anche di Tiziano che le raccomanda il cane, e li saluta tutti,
lei compreso, ed anzi per il primo, colle quali cose, malgrado le
amarezze che mi rendono stupido, la prego di tenermi pel primo della
parrocchia nell'ossequioso rispetto col quale me le dichiaro, e sono
suo obbligatissimo e affettuoso
Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Signor Arcidiacono
Siamo tutti peccatori, e bisogna far penitenza, e per questo nessuno
fuma più tabacco. È la più grande penitenza che abbia fatto in mia
vita, dopo quella di cavarmi il cappello davanti i birbanti, ma per
non cadere in tentazione ho rotto la pipa. L'altro giorno della gente
senza creanza che fumava per le strade, è tornata a casa colle coste
rotte. I facinorosi dichiarano che erano cagnotti della polizia, cioè
rispettabili impiegati di Sua Maestà. Un'altra penitenza è quella di
fuggire la musica. Quando si presenta la banda militare, la piazza
diventa un deserto, invece si va a passeggio da un'altra parte in onore
di Pio IX, e là si trova una folla del diavolo, dove io non manco mai,
per divozione del papa. Adesso si porta il cappello colla fibbia del
nastro sul davanti, ed anche io vado all'ultima moda; ma siccome io
portava la fibbia dalla parte opposta, così il mio cappello vecchio
pel lungo uso aveva la falda bassa davanti e alta di dietro, e adesso
è tutto il contrario, ciò che mi permette di vedere il sole. Dicono che
questa moda sia fatta per contare gli italiani, e così si fa l'anagrafi
per la strada, e si vede che siamo nel numero dei più, senza esser
morti. I poveri militari della Sacra Maestà dell'Imperatore vivono
isolati, i facinorosi li guardano di cattivo occhio, e la gente li
schiva come se avessero la peste. Colla quale prendo congedo da vostra
signoria, afflittissimo che i popoli ribelli non abbiano il dovuto
rispetto ai croati di Sua Maestà; e salutandolo con la Maddalena, mi
dichiaro, colla fibbia davanti
Suo obbligatissimo servitore
Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Signor Arcidiacono
Devo prevenirlo per sua regola e norma, e per avviso ai Cadorini,
che S. M. I. R. A., con venerato decreto sovrano, si è graziosamente
degnata di proibire tre colori che non gli vanno a sangue, e sono il
bianco il rosso ed il verde. Ogni sovrano ha pieno diritto di bandire
i colori che gli riescono antipatici, ma temo pur troppo che le nostre
povere montagne dovranno andare in prigione come ribelli, perchè in
primavera non potranno nascondere la neve, l'erba e le fragole. Qui le
donne sono sorde, e portano fiori e nastri coi tre colori proibiti, e
faranno benissimo di metterle tutte dentro, e se come si vede, anche
gli uomini seguiranno l'esempio, Sua Maestà sarà costretto di far
chiudere le porte delle città, e di considerare i suoi sudditi come
tanti prigionieri di Stato. In tale previsione vorrei prendere il
largo, ma i miei padroni persistono a non lasciarmi partire. Mi hanno
detto che jeri sera vi fu un gran baccano al Teatro della Fenice,
e venne freneticamente applaudito un coro nel quale si cantava: «la
patria tradita.» L'altra sera ad un ballo nominato la _Siciliana_, i
facinorosi e male intenzionati hanno gridato Viva Napoli, perchè quel
re ha dato la costituzione.
Io non frequento il Teatro, ma assisto ogni domenica alla messa a San
Giacomo all'Orio, dove si trova sempre il console del papa, e la gente
è tanto fitta che un grano di miglio gettato dall'organo non potrebbe
cadere sul pavimento. Credo che se Pio IX venisse a Venezia non avrei
da invidiare le feste vedute dal mio povero padre per la venuta di Pio
VI, delle quali non si è mai dimenticato in tutta la vita. Ma credo
che il nostro imperiale e regio governo non sarebbe troppo contento di
questa visita, per cui io non domando altro che di riverirla unitamente
a tutti di casa, e mi dichiaro in buona salute, anche per notizia di
Maddalena, colla quale le presento la assicurazione d'ogni rispetto del
suo devotissimo,
Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Signor Arcidiacono
I venerati decreti di S. M. I. R. A. proibiscono «i discorsi
antipolitici» e le riunioni di più persone. E infatti «i facinorosi
e male intenzionati» furono causa di nuovi ribaltoni. Il governo fece
chiudere varie botteghe e mise in prigione i negozianti che vendevano
oggetti coi tre colori ribelli. Guai se un trattore mette nella
stessa vetrina delle uova, dei cavoli, e della carne di manzo, questa
mostra ostile al governo lo farebbe dichiarare «facinoroso e male
intenzionato» e lo condurrebbe direttamente in prigione.
I fedeli poliziotti sono trasformati in imbianchini, e percorrono
le vie con un mastello di calce ed un pennello per cancellare le
iscrizioni di «Viva Pio IX, viva l'Italia, morte ai tedeschi,» e devono
anche lacerare tutte le cartoline collate sui muri, che dicono cose
da far drizzare i capelli ai buoni sudditi. Si dice che anche nelle
provincie le popolazioni manchino di rispetto ai croati, mandati da
qualche giorno in gran numero, per consolare la gente dabbene. A Padova
venne chiusa l'Università, dove quei matti di studenti, mostravano
la strana pretesa che gl'italiani dovessero essere i soli padroni
d'Italia. Non avrei mai creduto di udire simili enormità, che sono
severamente punite dalle leggi. Temo che il mondo vada a gambe levate,
colle quali ho paura che voglia colpire le parti deretane di certa
gente senza giudizio. In questi giorni abbiamo avuto molta pioggia,
senza contare quella delle dimostrazioni antipolitiche, ma siccome
il lunario annunzia giorni sereni pel secondo quarto della luna, così
mi rassegno al fango colla speranza d'un migliore avvenire, il quale
le auguro felice, e in piena salute, come Ella mi intende, mentre mi
inchino colla solita venerazione; e mille cose alla Maddalena.
Suo obbligatissimo ed affezionatissimo servitore
Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Sig. Arcidiacono
Quello che adesso è arrivato me lo aspettava da un pezzo. Sua Maestà
il nostro amatissimo sovrano nella sua paterna sollecitudine pei
sudditi si è graziosamente degnato di ordinare «il giudizio statario»
per tutto il Regno Lombardo-Veneto, ciò che vuol dire che chi non avrà
giudizio dovrà subirlo per forza, e il più statario che sarà possibile.
Questa veneratissima sovrana patente, abbassata da Vienna, promette
d'innalzare alla forca chiunque non pensasse come viene prescritto
dall'eccelso supremo governo aulico, il quale ordina i processi
sommari, e la immediata esecuzione delle sentenze di morte, senza
altri diritti di ricorsi o grazie, imperiali, e in caso d'un equivoco
si provvederà un'altra volta, non si ammettono nè giustificazioni nè
difese, e chi credesse di aver ragione avrà torto, e sarà impiccato.
S. M. I. R. A. nella sua sovrana clemenza si riserva di far cessare
tali misure, quando non saranno più necessarie le impiccagioni per la
salute e la felicità de' suoi sudditi. Altro non posso aggiungere per
ora, e tenendo la testa stretta alle spalle per non lasciar passare
la corda del boja di Sua Maestà, non intendo con questo di mancare ai
riguardi dovuti all'altissimo funzionario che strangola i cristiani per
dovere d'ufficio. E mi auguro di rivedere la Maddalena senza giudizio,
il quale quantunque abbia il pregio di essere statario, desidero che
sia in ritardo, per quanto è lecito di sperare senza offendere la
maestà della legge. Mando a Maddalena i miei saluti, e quattro paja di
calze che hanno bisogno d'essere rammendate con giudizio statario, per
rimandarmele alla prima occasione unitamente a due camicie, e a dei
fazzoletti da naso. E le domando scusa sig. Arcidiacono se le manco
di rispetto con questi discorsi anticivili, ma se gli uomini devono
vivere senza patria per ordine di Sua Maestà e in obbedienza alle
leggi austriache non possono stare senza calze, senza violare le leggi
della buona creanza, e con questa le bacio rispettosamente la mano e mi
dichiaro
Suo obb. ed oss. servitore
Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Sig. Arcidiacono
Evviva la libertà, evviva l'Italia, evviva Pio IX!... Siamo tutti
liberi e salvi!... Viva, Viva San Marco! gli austriaci sono partiti, le
prigioni sono aperte, Tiziano è in mezzo dei nostri buoni padroni che
lo colmano di attenzioni e finezze. Finalmente posso scrivere schietto
e netto tutto quello che vedo e che penso, senza tanti raggiri. Il
giudizio statario, il boja e la forca hanno colmato la misura e tutto
è andato sossopra. I Veneziani indignati di tante sopraffazioni si
sono rivoltati in massa, i tedeschi hanno ceduto senza spargimento di
sangue, e tutto è finito per sempre. Il popolo ha rotto i cancelli
delle prigioni, l'avvocato Manin e il letterato Tommaseo sono stati
portati in piazza in trionfo fra gli applausi e gli evviva a San Marco,
gridati da ogni parte da una folla immensa. Tiziano si è gettato fra
le mie braccia, io lo sentiva, lo stringeva senza vederlo, perchè le
lagrime mi offuscavano la vista. La bandiera italiana sventola sulle
antenne della piazza, tutti hanno la coccarda tricolore al cappello
ed alla bottoniera. — Viva l'Italia — Viva San Marco — questo è
il grido che si sente dovunque. Se mio padre fosse ancora al mondo
vorrei vederlo a Venezia!... Signor Arcidiacono corra da mia moglie,
e la consoli, nostro figlio è libero; e dica a tutti i nostri cari
compatriotti che l'Italia è finalmente libera e indipendente, e che
gridino tutti in coro — Viva l'Italia — Viva San Marco — Viva Pio IX.
Non so precisamente quando saremo di ritorno ma spero assai presto, e
intanto, coi nostri saluti, Tiziano ed io le baciamo le mani con tutto
il rispetto. Mille cose a Maddalena, e sono sempre
Suo obb. ed oss. servitore
Antonio Larese del fu Taddeo.»


IV.

Il grido di Viva San Marco della prima rivoluzione di Venezia è
stato criticato come inopportuno e municipale; ma esso sorgeva
spontaneo dalla tradizione storica, dalle memorie domestiche, dalla
fede religiosa del popolo veneziano, rinvigorito dall'aspetto dei
monumenti, dalla insigne basilica, dalle colonne e dal leone della
piazzetta, che ricordavano la repubblica che vantava quattordici
secoli d'indipendenza. Dopo la sua caduta, Venezia non aveva veduto
che la demagogia e la invasione straniera, il popolo non conosceva
altri governi possibili; insorgendo contro l'Austria, Venezia ignorava
la rivoluzione di Milano che si compieva nello stesso giorno, non
sapeva che cosa avrebbero fatto gli altri paesi, le era impossibile di
rappresentarsi istantaneamente il grande concetto della unità italiana.
Al colosso che cadeva essa non poteva sostituire un'incognita, un
mito futuro; ma vi sostituiva un nome immortale, il governo de' suoi
antenati, la cui bandiera aveva dominato i mari, ed era stata onorata
non solo dall'Europa, ma dai popoli più lontani.
Non era una sollevazione premeditata che la spingeva alla rivoluzione
con piani studiati e preconcetti, era l'indignazione unanime, spontanea
d'un popolo mite e civile angariato da odiose vessazioni, umiliato
nei sentimenti più delicati della sua dignità, offeso nelle sue più
sante memorie, risvegliato dall'esempio di Roma risorta, incoraggiato
dalle rivoluzioni di Parigi e di Vienna; era un entusiasmo passionato,
un'ebbrezza accompagnata da tutti i lirismi della poesia, da tutte le
imprudenze dell'ignoranza. Tutti quei popolani avevano avuto un padre
devoto a San Marco come sior Antonio, un nonno come Taddeo, che accanto
al focolare domestico, aveva le cento volte rammentato ai nipoti le
pompe de' suoi tempi, le feste religiose e civili del governo caduto.
E tutti avevano detestato le sevizie dell'Austria, e ritenevano come un
insulto gli arresti dei più degni cittadini, l'invasione dei croati, e
la bandiera gialla e nera che sventolava sulle antenne che rammentavano
le glorie veneziane, di Cipro, Candia, e Morea.
In quei giorni febbrili del primo risorgimento pareva che il leone di
bronzo agitasse le ali sulla colonna di granito della piazzetta, e il
sole che dardeggiava i suoi raggi in quegli occhi lucenti li faceva
brillare d'un fuoco scintillante, che pareva precedere un tremendo
ruggito. Al solo guardarlo, il popolo si sentiva trascinato al grido
d'entusiasmo di Viva San Marco!...
Manin, liberato improvvisamente dal carcere, non ebbe il tempo di
rivestirsi completamente cogli abiti che gli recarono gli amici, e
venne trasportato in trionfo sulle spalle del popolo, calzato con uno
stivale in un piede ed una pantofola nell'altro. Tommaseo uscito a capo
scoperto dovette accettare il berretto d'un popolano. La liberazione di
Manin è ricordata da una medaglia che rappresenta questa scena, colla
iscrizione: — _Liberato dal popolo il 17 marzo liberatore del popolo il
22 marzo 1848._
Dopo la presa dell'arsenale, e la capitolazione degli austriaci, i
nostri due cadorini, lieti della libertà e desiderosi di rivedere le
loro montagne, partirono da Venezia.
Usciti dalle vie tumultuose, ove il popolo faceva gazzarra fra gli
evviva alla patria indipendenza entrarono in gondola, e solcarono
la calma e silenziosa laguna, che sotto un cielo sereno, e davanti a
quegli azzurri orizzonti non pareva destinata alle orribili scene di
fuoco e di sangue che dovevano consacrare la sua libertà. A Mestre
rividero la Nina la quale appena riconosciuti i padroni li salutò con
allegri nitriti, ben felice di lasciare la stalla chiusa per ritornare
ai freschi pascoli delle Alpi. Trovarono Treviso nell'esultanza,
costituito in governo provvisorio coi suoi bravi ministri, delle
finanze, delle pubbliche costruzioni, dell'istruzione e del culto, e
perfino col dicastero della guerra e diplomazia, al quale non mancavano
altro che gli ambasciatori e i soldati. Rividero con gioja l'ampio
letto del Piave, che dietro la corrente delle sue limpide acque portava
l'aria fresca del Cadore. Si arrestarono per riposarsi alquanto a
Conegliano, ove Tiziano contemplava estatico il ridente panorama dei
colli sormontati dai ruderi delle torri medioevali, in fianco al tempio
greco di casa Gera, stupendo prospetto che si sostituiva davanti i
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