Il roccolo di Sant'Alipio - 01

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IL ROCCOLO
DI
SANT'ALIPIO

RACCONTO
DI
ANTONIO CACCIANIGA

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1881.


PROPRIETÀ LETTERARIA.
Tip. Fratelli Treves.


AL SIGNOR CAVALIERE
DOTTOR LUIGI COLETTI.

_Egregio Signore ed Amico,_
La difesa del Cadore è uno dei più eroici episodi delle nostre
guerre d'indipendenza. Se io conosco nei più minuti particolari quei
fatti memorabili lo devo alla vostra somma benevolenza. Voi mi avete
confidato con amichevole cortesia quelle memorie personali, ove
raccoglieste quasi giornalmente tutti gli avvenimenti di quell'epoca,
nella quale foste l'inseparabile compagno del capitano Calvi, e mi
avete comunicato tutti i preziosi documenti che avete conservati come
membro del Comitato di difesa.
Ospite in casa vostra, a Pieve di Cadore, m'avete fatto partecipe
della vita cadorina, abbiamo visitato insieme i siti ove ebbero luogo
le azioni più rimarchevoli della difesa, m'avete fatto conoscere degli
uomini che vi presero parte; siamo saliti sui monti, abbiamo penetrato
nelle vecchie case, ci siamo seduti intorno ai focolari del popolo
facendo come un'inchiesta rigorosa sulle memorie domestiche, e sui
costumi locali.
Ci siamo riposati al _Roccolo di Sant'Alipio_, soffermandoci in
quel nido delizioso del Montericco, contemplando da quel pittoresco
romitaggio la stupenda valle del Piave, e i monti che le fanno corona.
A merito vostro conosco per nome tutte quelle cime, tutti quei boschi,
tutti quei paeselli, e tutte quelle persone gentili che soddisfecero
pienamente la mia insaziabile curiosità.
Questo libro che racconta le semplici vicende d'una famiglia, in
quei tempi burrascosi è uscito dalle vostre note, e dalle nostre
comuni inchieste; esso vi appartiene intieramente, e mettendo il
vostro riverito nome in testa di questo volume, io compio un dovere
di giustizia, nell'atto che vi offro una prova della mia perenne
riconoscenza.
Vogliate essermi indulgente per tutto quello che ho guastato nel
quadro, tanto nelle macchiette che nel fondo, e perdonate se non ho
saputo riferire con precisione le nostre impressioni, che tuttavia
conservo vivissime.
Mi rammento, come se fosse ieri, quel giorno che abbiamo incontrato
Sior Antonio dietro le vecchie case affumicate di Auronzo....
Ma non posso rifare il libro in questa lettera, e mi limito ad augurare
agli italiani di far conoscenza intima di questo angolo romito delle
nostre Alpi,... tanto dilette agli inglesi.
Stupendo paese!... ricco d'antiche virtù e d'onesti costumi, d'uomini
forti come le sue rupi, fedeli nell'amore della patria colla tenacità
degli abeti barbicati nelle roccie delle loro montagne, costanti negli
affetti domestici che consolano quelle modeste dimore con gioie soavi e
salutari come il profumo dei loro boschi.
Con animo grato per le vostre cortesie, vi presento questo libro che
porta un nome a tutti noto alla Pieve, pregandovi di raccomandarlo
all'egregia vostra famiglia, e ai vostri amici, come il ricordo di
un'ammiratore sincero del Cadore che non sa dipingere al vivo quello
che sente, ma che sa valutare quanto meritano quei semplici costumi in
mezzo di quella natura sublime.
E conservatemi la vostra benevolenza.
_Villa Saltore, 30 luglio 1880._
devotissimo amico
ANTONIO CACCIANIGA.


IL ROCCOLO DI SANT'ALIPIO


I.

La neve cadeva a larghe falde a Pieve di Cadore, e il vento che
soffiava dall'Antelao la portava sui ballatoi e sulle scale esterne
delle vecchie case di legno, sui poggiuoli e sulle cornici dei
balconi delle case nuove. Il nevischio penetrava in tutti gli angoli,
si accumulava sugli abbaini dei tetti, si distendeva sugli spigoli
sporgenti dai muri. Nella penombra della sera si vedevano i fuochi
accesi nelle cucine; e il fumo che usciva dalle porte dei casolari, e
dai camini delle case, spargeva d'intorno un odore di resina misto di
fritto e di arrosto, che invitava gli abitanti a rientrare in fretta al
loro domicilio.
E infatti tutti i viandanti imbaccucati nei loro tabarri o stretti nei
panni affrettavano il passo, e si dileguavano per le vie, mentre si
chiudevano tutte le imposte, e le strade si facevano deserte.
Era il giorno di Natale del 1847, e in casa Lareze ardeva sul focolare
una fiamma viva che faceva bollire varie pentole, bronzini, e marmitte,
e riscaldava tutta la famiglia seduta sulle panche intorno al camino.
Sior Antonio ascoltava i sibili esterni del vento, e udendo il vicino
gorgogliare delle pentole si fregava le mani, e fiutando quelle
esalazioni appetitose, e guardando una damigiana dall'ampio ventre che
era stata depositata sopra un tavolo, pareva ringraziasse il cielo
di non avergli fatta una parte troppo brutta nel mondo. Sua moglie
Maddalena sorvegliava ogni cosa, alzava i coperchi per vedere se le
vivande bollivano, assaggiava il brodo, accomodava la legna sul fuoco,
e le brace intorno ai vari recipienti, assistita da Bortolo il giovane
domestico, un generico di casa che faceva un po' di tutto, mentre la
Betta madre di lui, e vecchia serva della famiglia, apparecchiava la
tavola.
Tiziano l'unico figlio dei padroni si scottava le gambe davanti la
fiamma e attendeva silenzioso l'ora del desinare, mentre Fido il cane
da caccia russava a suoi piedi. Gli apparecchi promettevano una lieta
serata, tuttavia un'aria malinconica dominava quella famiglia, tutti se
ne stavano in silenzio, e ciascheduno aveva un pensiero che non osava
manifestare. L'anno antecedente, nello stesso giorno di Natale c'era
davanti a quel fuoco anche un buon vecchio, il quale essendo partito
per l'altro mondo lasciava un vuoto doloroso. Il povero nonno Taddeo
nel corso dell'estate era morto di vecchiaia, e appunto perchè aveva
vissuto lungamente nessuno credeva di perderlo. Piccolo possidente,
e agente principale d'una ricca famiglia che faceva il commercio del
legname a Venezia, Taddeo nella sua gioventù era stato alla dominante
a far visita ai padroni, aveva veduto l'antica e gloriosa repubblica
di San Marco, ed era rimasto colpito dal lusso dei palazzi, dalla
maestà delle chiese, dalla profusione dei marmi orientali, dall'oro
dei mosaici, dallo splendore delle pompe, dalla magnificenza delle
feste. E raccontava sovente i suoi tempi, compiacendosi di ritornare
colla memoria nell'età giovanile, rammentando specialmente con piacere
la piazza di San Marco colla fiera dell'Ascensione, ove si trovavano
esposti in bell'ordine tutti i prodotti del mondo, che egli non finiva
mai di descrivere, colla stessa prolissità che raccontava l'arrivo del
papa Pio VI.
Quest'ultimo avvenimento che accoppiava la maestà della religione alle
pompe del governo, aveva esaltato la sua immaginazione a tal segno, che
nella più tarda età conservava ancora vivaci le impressioni ricevute.
Egli descriveva una loggia tutta oro e damaschi in campo San Giovanni e
Paolo, nella quale apparve il sommo pontefice Pio VI, accompagnato dal
patriarca Federigo Maria Giovanelli e dal Doge Paolo Renier, seguiti
dai cardinali, dai Vescovi, e dal Senato. Il popolo affollato stava
silenzioso ed in ginocchio sulla piazza, e si accalcava alle finestre
e sui tetti delle case. Alzate le mani al cielo il papa benediva i
veneziani fra vortici d'incenso mandati dai turribuli, mentre l'organo
della chiesa faceva echeggiare i suoi concenti, tutte le campane della
città suonavano a gloria, e i cannoni tuonavano da lontano dalle navi e
dal porto.
Quelle feste solenni, grandiose, i monumenti della città singolare,
tutto quello che aveva udito narrare delle glorie di Venezia, delle
sue sterminate ricchezze, della sua potenza esterna ed interna, della
severità delle leggi, gli facevano considerare la repubblica di San
Marco come il tipo più perfetto di governo che si potesse desiderare, e
trovava pienamente giustificata la devozione figliale che ne mostravano
i cadorini. E invece quando gli parlavano del governo Austriaco alzava
gli occhi al cielo e crollava le spalle in segno di disprezzo.
Infatti dopo le guerre napoleoniche egli aveva veduto i tedeschi
entrare in Cadore laceri e pidocchiosi, e deplorava vivamente che
le vicissitudini delle armi avessero condannato il paese a subire
quel giogo umiliante ed assurdo. Ed ogni inverno nel suo cantuccio
prediletto del focolare egli raccontava per la centesima volta quelle
vecchie storie aggiungendovi delle riflessioni politiche e morali,
che suo figlio Antonio approvava, mentre Tiziano e Bortolo dormivano
profondamente, perchè la morale dopo il pranzo e intorno al camino è
sempre riuscita un potente narcotico per la gioventù d'ogni paese.
Però le massime dei nonni, anche poco ascoltate, s'infiltrano nel
sangue, e si trasmettono alle future generazioni, come un legittimo
retaggio di famiglia, e il vecchio Taddeo conchiudeva tutte le sue
narrazioni ripetendo le glorie di San Marco, e sostenendo che il
governo Austriaco era una vergogna grandissima e un danno perenne per
l'Italia. E con tali sentimenti visse ottantacinque anni e sette mesi,
e morì fedele al suo Dio ed alla sua patria, circondato dalla stima e
dalla venerazione di quanti lo conobbero.
Sior Antonio, degno figlio di lui, era un vero tipo cadorino del
vecchio stampo. Giubba di fustagno giallo a coda mozza, calzoni corti
della stessa qualità, scarpe grosse da montanaro, cappello a cilindro
a pelo lungo, un po' più largo alla sommità che alla base, senza
cravatta, col volto raso completamente, e un sorrisetto sul labbro
fra il bonario ed il furbo. Erede del modesto censo e delle massime
paterne, agente generale degli stessi padroni, probo ed onesto a tutta
prova, ma un po' taccagno coi vicini coi quali era in continue brighe
per dissensi interminabili di confini. In quei monti, dove la piccola
proprietà è frazionata all'infinito, la terra coltivata si limita in
spazii angusti, ogni palmo di terreno è prezioso, e suscita questioni
interminabili.
Col lavoro e col risparmio, Sior Antonio, secondato da sua moglie
Maddalena, sobria ed economa padrona di casa, ha potuto dare una
completa educazione all'unico figlio Tiziano, scopo onorato di tutti
i loro sforzi, di tutte le privazioni, di tutte le fatiche d'una
laboriosa esistenza.
Tiziano era dunque cresciuto con altri destini. Frequentò le scuole
locali, scorrazzando sui monti il resto della giornata, coi suoi
compagni, o con Bortolo il quale era nato in casa dal matrimonio
d'un vecchio e fedel servitore colla Betta, la quale rimasta vedova,
allevava il figlio colle massime dei genitori, perchè potesse servire
fedelmente i padroni di suo padre.
I due ragazzi passarono insieme l'infanzia, crebbero come fratelli,
e quando Tiziano venne mandato a studiare il latino nel seminario
Gregoriano di Belluno, Bortolo fu iniziato ai vari servizi di stalla e
cucina, con l'aggiunta di cento altri mestieri.
Gli studi classici, i libri letti alla macchia, la società di compagni
svegli ed intelligenti affinarono in Tiziano i sentimenti di devozione
all'Italia, coi quali era stato allevato in famiglia.
Michele Malacchini suo compatriotta, condiscepolo fino dalle scuole
elementari, e suo collega in seminario, divenne il più intimo dei
suoi amici, e l'indivisibile compagno della sua vita. Questo giovane
rimasto orfano nell'infanzia venne raccolto in casa da Sior Iseppo, un
vecchio zio bisbetico divenuto suo tutore, che considerava il nipote
come una tassa forzosa impostagli dalla natura. Il nipote considerava
lo zio come un tiranno, e soleva chiamarlo l'orso domestico, perchè
quando usciva dal covo della sua stanza, perseguitava il giovanetto
con continui grugniti, che volevano riuscire sermoni, ma che non
raggiungevano l'intento.
Nelle vacanze autunnali, Tiziano e Michele correvano i boschi e le
valli collo schioppo ad armacollo, accompagnati dai loro cani, ed
inseguivano le lepri, i francolini, i cedroni, i coturni, e più tardi i
daini ed i camosci sulle più erte rupi delle montagne.
Terminati gli studi del Seminario i due amici passarono insieme
all'Università di Padova, prendendo alloggio nella stessa casa in due
camere contigue. Tiziano studiava matematica per diventare ingegnere,
Michele diceva di studiar legge, ma andava a scuola di rado, col
pretesto che l'aria mefitica delle aule chiuse gli opprimeva il
respiro, e che egli aveva bisogno d'aria, di luce, di movimento, e
non potendo andare alla caccia dei selvatici per le strade di Padova,
si divertiva ad inseguire le sartine e le crestaie, e slanciava
dichiarazioni amorose a tutte le donne, dimenticandole il giorno dopo.
La vita universitaria aveva però completata la loro educazione
politica, e i giovani sempre più insofferenti del giogo austriaco,
procuravano di apparecchiarsi ad una riscossa che potesse liberare
il paese dal dominio straniero. E si raccoglievano in segreto fra
loro, comunicandosi le idee, leggendo avidamente gli scritti di
Mazzini, Balbo, Gioberti, D'Azeglio. Recitavano degli squarci delle
tragedie di Niccolini, imparavano a memoria i versi di Giusti e
Berchet, declamavano focosamente i più caldi capitoli dei romanzi di
Guerrazzi, e apparecchiavano congiure e piani di rivoluzione, tenendo
corrispondenze coi capi delle sêtte all'estero, e cogli affiliati delle
società segrete italiane.
All'autunno ritornando a Pieve di Cadore, animati da sentimenti
patriottici, si raccoglievano nel roccolo di Sant'Alipio, ove
comunicavano le speranze d'Italia a Isidoro Lorenzi che era il capo
dei liberali cadorini, e il più fervente promotore della liberazione
d'Italia sulle Alpi; il quale quantunque avesse oltrepassata
la quarantina, conservava tutto il vigore della gioventù, e in
quell'angolo romito delle montagne, che sfuggiva ad ogni sorveglianza,
apparecchiava alacremente gli animi dei suoi compatriotti alla ferma
volontà di emanciparsi dagli stranieri.
Il roccolo di Sant'Alipio è una piccola proprietà destinata
specialmente a prendere nelle reti gli uccelli che passano in quella
stretta gola del Piave. È collocata nel fianco del Montericco, sotto
i ruderi dell'antico castello di Pieve di Cadore, a pochi passi dal
paese, ma in un sito recondito, quasi a picco sul torrente, nascosta
a tutti gli sguardi in mezzo d'un bosco di larici, con un prospetto
meraviglioso dei monti e delle selve che chiudono la vallata.
È composta di una casetta di legno, e di un terreno coltivato con
pittoresco disordine che forma una specie di oasi capricciosa di fiori
e di frutta, d'erbe vagabonde e cereali che crescono confusamente
in mezzo alle piante orticole ed agli alberi. Una pergola di carpini
fiancheggia il precipizio e va a terminare in un gabinetto di verdura
nascosto in fondo al roccolo, incantevole ridotto, circondato da
panchine, e quasi sospeso sulle roccie a grandissima altezza, che
Tiziano aveva denominato il nido di Montericco, e che veduto da lontano
sembra effettivamente un nido d'aquila nascosto in una anfrattuosità
inacessibile della montagna.
Isidoro Lorenzi, il fortunato possessore di questo romitaggio, viveva
colà con l'unica sua figlia Maria, con una vecchia serva, e con Turco,
il suo cane da caccia. Vedovo da qualche anno aveva concentrato ogni
suo affetto nella figlia, una bella e robusta ragazza con grandi occhi
neri e capelli corvini, di soave fisonomia, che gli rammentava la cara
compagna della sua vita, troppo presto perduta. Passionato cacciatore
ed uccellatore, e grande ammiratore della natura, egli passava i
giorni in quella solitudine, occupato a tendere le reti sul roccolo,
a governare gli uccelli da richiamo, a coltivare ogni sorta di piante
in un caos inestricabile che formava la sua delizia, e che sembrava
un gigantesco canestro di piante coltivate collocato in mezzo di un
bosco. E quando era stanco di correre e lavorare intorno alle sue
colture, andava a sdraiarsi sull'erba, colla pipa in bocca, e Turco
ai suoi piedi, e contemplava lungamente lo stupendo spettacolo che gli
stava davanti, la pittoresca vallata del Piave fiancheggiata da monti
boscosi, sparsa di paeselli biancheggianti alle falde di verdi colline,
che finisce lontano lontano in una tinta azzurognola sfumata che si
confonde col cielo. E non usciva dal suo ritiro che per vedere qualche
amico, per parlare degli affari italiani, per comunicare delle notizie
importanti a delle persone che aspettavano i suoi cenni, e obbedivano
ai suoi ordini, o per battere i boschi e salire sui dirupi alle grandi
caccie del camoscio, nelle più alte montagne. E tirava sempre sulle
aquile, uccellaccio che aveva in odio a motivo di quella che portava
due teste, e che sperava un giorno di accalappiare, per mandarla
impagliata a qualche museo che doveva collocarla fra le bestie più
nocive.
Tiziano e Michele frequentavano il roccolo, entrandovi però sempre con
molte precauzioni, per non essere veduti e non eccitare sospetti alla
polizia, la quale doveva ignorare che in quella macchia di fiori e
frutta si nascondevano i suoi nemici più acerrimi.
Quando Isidoro era in casa, si mettevano in compagnia a fumare la
pipa ed a ciarlare di politica al piede d'un albero; quando era uscito
per recarsi alla caccia sulle montagne, andavano a far conversazione
con Maria che era stata la compagna dei loro giuochi infantili, e che
amavano fino dall'infanzia. Essa andava a lavorare d'ago nel gabinetto
di verdura in capo alla pergola, nel nido di Montericco, e i giovani
le facevano compagnia, e allora dimenticavano affatto la politica,
giuocavano come fanciulli, e Michele raccontava a Maria delle storie
impossibili, burlandosi poi della sua ingenua credulità, e facendola
arrossire di vergogna della sua buona fede. Per vendicarsi, essa lo
condannava a dipanare delle matasse intricate, ma egli allontanandosi
a poco a poco colla matassa fra le mani, il filo diventava lungo,
e quando si arrestava ad un intoppo la fanciulla era costretta di
alzarsi, e avvicinarsi al fuggitivo facendo il gomitolo per giungere
a distrigare il garbuglio; e ridevano di tutto. Talvolta Michele le
narrava le burle degli studenti alle pattuglie notturne dei croati; le
corde tese attraverso la via per farli incespicare, i mattoni appesi
ai ferri sotto ai portici oscuri, che dato un allarme per far correre
i soldati, sbattevano sui loro volti. Tiziano contemplava la natura,
osservava gli abeti che si alzavano ritti sul monte opposto e fra i
crepacci delle roccie scoscese, seguiva cogli occhi il volo delle
farfalle, le danze degli insetti in un raggio di sole, un'ape che
succhiava il nettare di un fiore sul margine di un precipizio. E se
Michele andava a saccheggiare le frutta sugli alberi, Tiziano restava
solo con Maria, le sedeva dirimpetto, la fissava lungamente, e taceva.
Maria lavorava in silenzio, e allora si udiva il canto degli uccelletti
di richiamo, lo stormire delle fronde, e il frastuono del sottoposto
torrente che si frangeva nei sassi.
E se talvolta rompevano quel silenzio era per ricordare la loro
infanzia; e rammentavano con piacere quel tempo nel quale andavano
a giuocare sul colle della Schipa insieme agli altri fanciulli.
Michele era stato sempre turbolento, ma Tiziano proteggeva Maria dalle
insidie dei furfantelli, e la difendeva arditamente dagl'insolenti,
l'accompagnava se aveva paura, la sosteneva se dovevano arrampicarsi
sull'erta, e dividevano insieme le merendine che le buone mamme avevano
deposte nei loro cestelli.
Nella stagione propizia Tiziano e Michele seguivano Isidoro sui
monti, egli li addestrava alla caccia del camoscio, e li guidava con
pratica sicurezza sulle cime più eccelse, giudicate inacessibili
dagl'inesperti. Collo schioppo ad armacollo, le munizioni nei
fiaschetti e la carniera del mestiere, muniti di punte alle scarpe, di
bastoni ferrati e di corde, partivano da Pieve, seguiti da Fido e da
Turco, che correvano su e giù per le rive, e accompagnati da Bartolo
che apportava i viveri ed altre provvisioni, e andavano nelle montagne
d'Auronzo, e attraversando il bosco di Sommadida rimontavano sino alle
sorgenti dell'Ansiei arrestandosi all'osteria delle Alpi sul lago di
Misurina ove mangiavano le trote eccellenti da Giacomo Croda, famoso
cacciatore di camosci, che si univa alla loro compagnia, e tutti
insieme salivano quei dirupi scoscesi, e non tornavano mai a casa senza
una buona preda.
Tiziano accanto al fuoco rammentava le vicende dell'ultima caccia, e
per indicare il momento che aspettava il camoscio si metteva in agguato
come avesse lo schioppo al viso, e simulava il colpo che aveva colpito
l'animale mentre saltava un precipizio.
Fido aveva capito benissimo che il padrone raccontava un'avventura
di caccia, e lo stava ascoltando attentamente, colle orecchie tese,
e dimenando la coda, mentre la mamma Maddalena serviva la minestra, e
tutti si mettevano a tavola.
Il desinare fu lieto. Tiziano seguitò per qualche tempo a raccontare le
sue caccie, fino a che sior Antonio incominciò a parlare delle seghe, e
dei _menadàs_[1], delle taglie e delle tavole, dei rulli dei zappoli e
delle chiavi[2]. Maddalena manifestava alla Betta le sue opinioni sulle
galline, e sulla produzione degli ovi. Bortolo faceva l'elogio della
Nina, la cavalla di casa, assicurando i padroni che essa conosceva le
ore senza bisogno d'orologio, e assai meglio dei ragazzi che vanno alla
scuola, perchè ogni mattina, alle nove in punto, batteva le zampe e
nitriva per domandare l'avena, mentre gli scolari dimenticando l'ora di
scuola stavano ancora a scivolare sul ghiaccio.
Finito il pranzo, e vuotata in gran parte la damigiana, sior Antonio
riprese il suo posto sulle panche intorno al camino, e accese la sua
pipa. Tiziano fece lo stesso. Bortolo aiutava sua madre a sparecchiare
la tavola, Maddalena rimetteva ogni cosa al suo posto, il gatto
divorava gli avanzi, e Fido tornava a russare regolarmente ai piedi
del padrone, mentre la legna resinosa d'abete ardeva sul focolare
crepitando, e mandava col fumo le sue esalazioni profumate.
Vennero presto le dieci, il fuoco incominciava a languire, la
conversazione era cessata, gli occhi semichiusi degli astanti
indicavano vicino il momento di andare a letto, quando un colpo forte
alla porta li scosse all'improvviso, li fece alzare la testa e mettersi
in ascolto. Fido balzò in piedi mandando acuti latrati. Intanto
bussarono alla porta un secondo colpo più forte del primo.
— Chi è? chiese sior Antonio, ordinando al cane di tacere.
— Aprite in nome della legge — risposero dal di fuori.
Il cane ricominciò ad abbajare, e tutti si guardavano in volto con
sorpresa.
— Aprite subito o gettiamo la porta, gridarono quei della strada.
Tiziano voleva metter mano allo schioppo, ma sior Antonio con un segno
imperativo gli ordinò di deporre l'arma, e andò ad aprire.
Entrò un commissario di polizia, seguito da due gendarmi, e si disse
incaricato dall'autorità superiore di praticare una perquisizione.
— Veramente, osservò sior Antonio, mi pare che questo non sia nè il
giorno nè l'ora di entrare in una casa di galantuomini, e di turbare la
pace d'una famiglia onesta.... ma se tali sono gli ordini di chi è più
forte di noi, è inutile di fare opposizione.
Allora incominciò quella minuziosa ed insolente manomissione che il
governo austriaco soleva praticare nelle case degli italiani sospettati
del grave delitto di amare la patria. Vennero esaminati tutti i mobili,
guardandovi dentro per di sopra e per di sotto, disfatti i letti,
smossi i pagliericci, tastati i materassi, i capezzali, i guanciali,
le coltrici, capovolti i canapé, indagati i sacconi, vuotati a fondo i
canterani, aperti i cassettoni e le scrivanie, scompigliate le vesti e
i pannilini, frugate le carte, i registri, le lettere, profanate tutte
le più sacre memorie domestiche.
Sior Antonio li seguiva stringendo i pugni, e mordendosi la lingua per
non parlare.
Tiziano prese in un angolo sua madre e potè dirle senza essere inteso:
— Manda subito ad avvertire Michele....
Maddalena desiderando che Bortolo eseguisse sull'istante la
commissione, gli andava facendo dei segnali che egli non intendeva,
pareva diventato scemo, e poi un gendarme lo teneva d'occhio e non
avrebbe lasciato uscire nessuno.
Trovarono degli scritti inconcludenti, delle lettere d'amici, delle
note, delle memorie, che posero sotto sigillo, e quando ebbero finito
di mettere la casa sottosopra senza costrutto, e si credeva che se
ne andassero, il commissario dichiarò che il signor Tiziano doveva
seguirlo.
— Io rispondo di mio figlio — disse sior Antonio — domani mattina
andremo insieme dal signor Commissario distrettuale che mi conosce da
un pezzo e....
— I miei ordini sono precisi — soggiunse il commissario di polizia — io
devo arrestare il signor Tiziano Larese, e condurlo in ufficio....
— Lo conducete in prigione!... — esclamò Maddalena disperata — mio
figlio è un galantuomo, e non ha fatto mai torto a nessuno.
Sior Antonio incominciava ad incrociare le ciglia, ed era cattivo
segno. Tiziano prevedendo una fiera burrasca volle evitarla, e disse
con calma:
— Non vi affannate, non vi date pensiero, nessuna ragione può valere
contro la forza. Il diritto, la giustizia non possono opporsi con
parole alla violenza, io seguirò il signor Commissario protestando
che cedo perchè sono il più debole, che il governo commette
un'ingiustizia.... e voi sapete quello che dovete fare.... — e così
dicendo fissò in volto sua madre e le fece un segno d'intelligenza.
Poi prese il cappello e il tabarro, e seguì i gendarmi e il loro
capo, ed usciti dalla porta ne trovò altri due che aspettavano davanti
l'uscio, ed altri due che giravano intorno la casa, e tutti uniti si
avviarono all'ufficio, camminando in silenzio sulla neve.
Erano poco lontani quando la povera Maddalena tutta in lagrime,
comunicò a suo marito il desiderio del figlio:
— Basta che non sia troppo tardi!... egli esclamò, ma in ogni caso
bisogna tentare.... e chiamato Bortolo lo ammonì come dovesse con
immense precauzioni avvicinarsi alla casa di sior Iseppo, procurando di
non essere veduto da nessuno, chiamare Michele, avvertirlo dell'arresto
di Tiziano, e metterlo in guardia sulla sua sorte.
Bortolo partì, prese una scorciatoja, osservò attentamente se qualcuno
si avvicinasse, e potè essere introdotto in casa senza essere veduto.
Il giovane, sorpreso, non perdette tempo; seguì il messo senza fraporre
alcun indugio, e si allontanarono chetamente dalla casa per un viottolo
nascosto fra stretti muri, e non erano ancora molto lontani, quando
la luce d'un fanale che si avanzava, riflesso ad intervalli dalle
baionette, li avvertì che una pattuglia si avviava verso la casa dalla
quale erano usciti in tempo. Si nascosero nel vano d'una porta, e
poterono osservare, senz'essere veduti, il commissario e i sei gendarmi
che picchiavano all'uscio.
— Oh i birboni! esclamò Bortolo, li riconosco, sono quelli stessi di
poco fa!...
Le pedate sulla neve avrebbero potuto tradire il loro nascondiglio,
dovettero dunque allontanarsi e raggiungere la strada principale,
ove la neve era già pesta, e dietro l'angolo d'una casa stettero ad
attendere il ritorno della spedizione. Ma la visita fu assai più lunga
della prima. Sospettando che Michele fosse nascosto rovistarono la casa
dalla cantina fino al tetto.
Intanto Michele s'informava da Bortolo di tutti i particolari
dell'arresto, e così venne a sapere che doveva la sua salvezza
all'amico, e in parte anche al caso fortunato che in quel momento non
si trovassero in Pieve che sei gendarmi, ciò che rendeva impossibile di
fare due arresti nello stesso tempo. Anzi non ce n'erano che quattro,
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