Il roccolo di Sant'Alipio - 16

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alla loro educazione nè al loro benessere!...
E se la congiura riusciva alla rivolta, bisognava apparecchiarsi
nuovamente a combattere, e allora si presentavano tutti gli orrori
della guerra. Vi saranno dunque nuovi massacri, nuove carneficine,
verranno a prenderci i mariti, i padri dei nostri figli, per mandarli
contro i fucili e le baionette tedesche!.... —
A tali dolorosi pensieri Maria piangeva nella sua solitudine, e Tiziano
rientrando in casa la trovava cogli occhi rossi, e sofferente, mentre
aveva bisogno di buona salute per due. Ed egli pure era infelice in
quella lotta dell'odio e dell'amore. E quanto più gli erano cari i
suoi diletti, la moglie e il futuro figliuolo, tanto più detestava
l'umiliazione della dipendenza dagli stranieri, e il loro dominio
gli pesava sul cuore come un'offesa alla sua dignità di cittadino,
di marito, di padre. Vivere sotto l'incubo di leggi imposte dagli
stranieri, chiedere a loro il permesso di esercitare ogni diritto,
di muoversi, di pensare!... allevare i propri figliuoli per la loro
coscrizione, destinata a fare degli schiavi, allo scopo di conservare
la schiavitù d'altre nazioni, è tale vita ignominiosa che non può
immaginarla chi non l'abbia subita, e non è tollerabile per chi sente e
per chi pensa alla umana dignità.
Tiziano sentiva una gioia suprema all'idea di divenir padre, sior
Antonio aspettava ansiosamente un nipotino, Maddalena provava il
bisogno di ringiovanirsi colle cure di un bimbo figlio di suo figlio,
ma tutti vivevano malcontenti ed inquieti, tormentati da mille timori,
prevedendo nell'avvenire le amarezze che sarebbero sorte da quella
letizia, i dolori che sarebbero derivati da quella gioia. Tale è il
destino della famiglia sotto la dominazione straniera!... E tutti
osservavano con dispetto il sorrisetto di scherno del Consigliere
davanti i buoni patriotti, che egli chiamava gli esaltati, e che sior
Iseppo riteneva tutti matti, come suo nipote.
Le lagrime nascoste, i sospiri repressi, ma invano dissimulati
dalla donna diletta, quelle apprensioni della famiglia, affliggevano
sommamente Tiziano, e per tranquillare la moglie dovette prometterle
che non l'avrebbe mai abbandonata, limitandosi al semplice dovere
di cooperare alla liberazione del territorio cadorino, caso mai una
insurrezione od una guerra rendessero possibile la lotta.
Questa assicurazione egli l'aveva fatta col convincimento di una
prossima sollevazione del Cadore, promossa dallo stesso comandante
della difesa.
Calvi rifugiato a Torino teneva viva corrispondenza coi suoi vecchi
comilitoni, colla speranza di poter penetrare nei monti, di liberarli
dai Tedeschi e di annodare l'insurrezione del Cadore ad un nuovo
sollevamento d'Italia.
A tale scopo si erano costituiti dei comitati a Venezia ed a Pieve,
i quali cercavano di riorganizzare gli avanzi dispersi dei Cacciatori
delle Alpi, per gettarli sui monti bellunesi e cadorini, dove l'audace
condottiero li avrebbe raggiunti.
Ma davanti la formidabile potenza dell'Austria, non si trovò prudente
di secondare per il momento tale impresa, e si decise di attendere un
tempo più opportuno.
Intanto durante questa calma apparente, Maria mise alla luce il suo
primo bambino, al quale venne imposto il nome di Isidoro, per ricordare
il povero nonno, morto in difesa della patria. E i fiori e le erbe
vagabonde del roccolo di Sant'Alipio, agitate dalla brezza del mattino
parevano in festa, quando echeggiarono fra le altre armonie della
natura, anche i primi vagiti del neonato.
La vita allora si fece più lieta, quel bimbo fu la gioia di due
famiglie, la delizia di due case, e pareva che il Consigliere imperiale
avesse ragione e che tutto fosse finito.
La forza materiale pesava sul diritto come un macigno caduto dall'erta
sopra il ramo staccato di un albero. La rassegnazione nata dalla
necessità faceva che tutti i giorni si rassomigliassero, e che gli anni
scorressero monotoni non lasciando altre traccie sul sentiero della
vita, che di modesti avvenimenti domestici, di gioie e di dolori delle
diverse famiglie.
Non si parlava d'altro che del taglio dei boschi e del commercio dei
legnami; e la cronaca quotidiana raccontata nei circoli dell'intimità
non ripeteva che i casi della vita privata, i morti, i matrimoni, i
neonati, o lo scandalo di qualche frutto proibito rosicato in silenzio
dai discendenti non ancora degeneri di Adamo ed Eva.
Fra i vari casi di quel tempo, sior Iseppo offrì argomento di
malinconiche riflessioni sugli uomini avari, essendo restato colpito
d'apoplessia, e rimasto paralitico e scemo, proprio nel momento che
suo nipote Michele divenuto capitano in Piemonte, non gli domandava
più denaro, e lo rendeva lieto di rilevanti risparmi che il vecchio zio
andava accumulando con sommo piacere, non si capisce a quale intento,
nell'avanzata sua età.
Pochi giorni dopo il fatale accidente, sior Iseppo morì senza
avvedersene, e Michele rimase l'erede naturale, per diritto di
successione, come il più prossimo parente del defunto, ed entrò in
legittimo possesso di tutte quelle sostanze le cui economie gli
costarono tanti sacrifizii, e tante privazioni, per non privare
lo zio della soddisfazione di accumulare il denaro in una cassetta
dell'armadio.
Michele elesse a suo procuratore sior Antonio, il quale appena raccolta
la eredità, mandò i conti all'erede, che ordinò una bella lapide da
collocarsi sul muro del cimitero, ove era stato sepolto sior Iseppo, e
vi fece incidere una delle solite iscrizioni, colle consuete menzogne,
prodigate dai nipoti sulle tombe degli zii avari, che hanno fatto colla
morte onorevole ammenda dei loro torti.
Se sior Iseppo avrà contemplato dall'altro mondo quello spreco di
denaro, lo avrà anche cordialmente disapprovato, e non senza ragione,
perchè in effetto quella spesa non fu rimborsata dall'eredità, che
riuscì passiva all'erede.
E infatti mentre Michele sperava di migliorare le sue condizioni
nell'esiglio, colle rendite della sua sostanza, ne rimase dolorosamente
deluso. L'Austria non si contentava d'invadere l'Italia e di
soggiogarla, e di mettere in prigione i buoni patriotti, essa spingeva
la perfidia fino a perseguitarli nei paesi indipendenti dal suo
dominio, e colpendo di sequestro i beni degli emigrati, mostrava al
mondo tutta la raffinatezza della sua tirannide. Michele vedendo che i
vari Stati d'Europa lasciavano correre senza opposizione simili eccessi
di violenza, si rassegnò come gli altri ad attendere dalla suprema
giustizia dei popoli indignati, la riforma dei Governi, affrettando con
ogni forza l'avvenimento della libertà, per emancipare il genere umano
dal giogo del dispotismo.
Intanto gli anni passavano, e Maria metteva alla luce una bambina
alla quale venne posto il nome di Adria, in memoria e in venerazione
di Venezia, e venti mesi dopo le nasceva il terzo bambino che veniva
nominato Taddeo per ricordare il bisnonno di venerata memoria.
Il Cadore era in apparenza tranquillo, ma un fermento sotterraneo
minava il dominio straniero, e mandava qualche lampo foriero
dell'uragano.
In quel torno il Consigliere imperiale fece un viaggio misterioso a
Venezia, e a Pieve si bisbigliava che fosse stato chiamato dal Governo
per avere degli schiarimenti intorno a certe macchinazioni sulle
quali correvano dei sospetti, e che si volevano reprimere con qualche
esemplare espiazione.
Un costante pericolo pendeva in tal modo sul roccolo di Sant'Alipio,
mentre quella famiglia viveva in pace. I bimbi crescevano sani e
robusti, e i vagiti dell'ultimo neonato aggiunti agli strilli de' suoi
fratellini riempivano l'aria di quei segnali di vita ripullulante che
potrebbe chiamarsi la primavera della famiglia.
Maria appena uscita dal puerperio portava il nuovo bimbo all'aria
aperta, seguita dalla piccola Adria, e da Isidoro che aveva quattro
anni, e Tiziano guardava con compiacenza la sua bella famigliuola che
veniva su con tutto il rigoglio di quelle vigorose popolazioni delle
Alpi.
Ma ecco nuove apprensioni che ritornano ad intorbidare quella serena
esistenza.
Calvi era partito da Torino dirigendosi verso il Cadore colla sua idea
fissa di suscitare l'insurrezione delle montagne, e colla fiducia
d'essere secondato da tutta Italia. Tiziano che faceva parte del
Comitato nazionale segreto ne ricevette l'annunzio coll'ordine di
apparecchiare l'insurrezione.
Michele gli scrisse in pari tempo, disapprovando il movimento
intempestivo, e così gettò l'incertezza nell'animo di colui che aveva
bisogno di tutta la sua energia per secondarlo. E quantunque Tiziano
volesse conservare il più rigoroso segreto sugli avvenimenti che si
apparecchiavano, pure le insolite assenze, l'espressione stessa del
volto che tradiva l'ansietà di serie preoccupazioni, non sfuggirono
allo sguardo perspicace di Maria, avvezza a leggere i più reconditi
pensieri sulla fisonomia del marito.
Una sera mentre i bimbi dormivano, essa si precipitò piangendo nelle
braccia di lui, mostrandogli il più vivo rammarico pei misteriosi
raggiri che egli cercava di nasconderle, e supplicandolo in nome
di quelle care creature a volerle svelare la verità; lo assicurava
che sarebbe più forte a sopportare qualunque pericolo piuttosto di
vedersi tormentata con sospettose paure che la rendevano infelice, le
toglievano il sonno, ed alteravano il latte col quale doveva nutrire il
suo bimbo.
Procurò d'acquietarla con ogni possibile persuasione, resistette lungo
tempo alle sue affettuose sollecitazioni, ma non le fu possibile di
perseverare nelle negative davanti le lagrime, i singhiozzi di quella
desolata, che avrebbe fatto pietà ai cuori più duri; e facendole
giurare il silenzio sulla vita stessa dei figli, le confidò il segreto,
annunziandole che Calvi era già in viaggio per entrare in Cadore,
ch'egli sarebbe partito il giorno seguente per andare ad incontrarlo
con Giacomo Croda, che le armi e gli uomini erano pronti per la
sollevazione generale.
Quale notte dovette passare quella povera donna, condannata a rimaner
sola coi suoi tre bambini, mentre il marito esponeva nuovamente la vita
per la libertà!...
E quale doloroso distacco al mattino della partenza!...
Giacomo Croda era giunto al roccolo di tutta notte, e prima del levare
del sole si misero in viaggio.
Passarono due giorni pieni di tristezza e d'ansietà, ed al mattino del
terzo giorno giunse a Pieve un giornale che annunziava la cattura di
Calvi coi suoi complici.
A tale notizia la povera donna perdette i sensi, e cadde sul pavimento
come morta. Il medico chiamato in fretta ebbe molta difficoltà a
richiamarla in vita. Sior Antonio, invaso egli pure dallo spavento,
non era in caso di consolarla; Maddalena col bambino in braccio correva
per la casa come demente, e non aveva più lagrime: tutta la casa era in
subbuglio.
Si capiva a prima vista che sarebbero tutti mandati al patibolo; e si
attendevano notizie coll'ansia della febbre. Il giornale del giorno
seguente, annunziava che gli arrestati messi in ferri, e sotto buona
scorta, erano stati condotti a Trento e poi tradotti al Castello di
Mantova.
Maria cadde gravemente malata, perdette il latte, e fu necessario
di trovare una balia pel piccolo Taddeo. Sior Antonio pareva pazzo
furioso, e invece di cercare dei conforti per la moglie e la nuora,
come aveva sempre fatto in tutte le altre occasioni, aggravava i loro
affanni, e cresceva il loro spavento accennando a tutte le torture alle
quali la crudeltà austriaca assoggettava i prigionieri di stato.
La Betta non abbandonava mai il letto di Maria, Maddalena curava i
bambini, sior Antonio girava tutto il giorno in cerca di notizie,
passava la sera al roccolo, e non rientrava in casa che assai tardi.
Una notte, mentre stava spogliandosi per coricarsi udì picchiare
fortemente all'uscio di casa. Bortolo che era andato a letto da qualche
tempo russava come un mantice. Le percosse alla porta si rinnovarono
con tenace insistenza. Sior Antonio aperse la finestra, e messa fuori
la testa domandò:
— Chi è che batte alla porta?... che cosa volete a quest'ora?...
— Zitto.... aprimi... sono io... — gli rispose Tiziano.
Invece di correre ad aprire sior Antonio sentì mancarsi le gambe, gli
prese un capogiro, e credette di essere colpito d'apoplessia. Credeva
suo figlio nel carcere di Mantova, e udiva la sua voce alla porta di
casa!... la sorpresa improvvisa gli paralizzava le forze. La gioia è
più pericolosa del dolore. Tiziano al colmo dell'impazienza batteva i
piedi, alzava le mani, ma suo padre non compariva mai ad aprirgli la
porta, non potendo riaversi da quello smarrimento nervoso. Finalmente,
quando a Dio piacque, giunse a trascinarsi giù dalle scale, aperse
l'uscio con mano tremante, e gettandosi nelle braccia del figlio gli
disse:
— Portami dentro perchè non posso reggermi in piedi.
Tiziano lo sostenne, chiuse l'uscio, e trascinandolo davanti una panca
lo aiutò a sedere, gli fece animo, e gli chiese notizie di Maria,
dei suoi bambini, di sua madre e lo consigliò a calmarsi da quella
pericolosa agitazione.
— Siamo tutti ammalati! — gli rispose sior Antonio.... — meno i bambini
che non capiscono i nostri terrori.... ma tu parla.... dimmi, come
sei qui.... come hai fatto a fuggire da quel maledetto castello di
Mantova?...
— Fuggire?... non ho avuto bisogno di fuggire.... io non sono stato
arrestato....
— Come?... non ti hanno arrestato con Calvi?...
— Ma no!... Calvi non lo abbiamo nemmeno veduto.... ci mancavano ancora
poche ore per giungere al sito fissato pel nostro incontro, quando
essendo entrati in un osteria per rifocillarci abbiamo udito raccontare
il suo arresto. Abbiamo fatto come se l'affare non ci riguardasse nè
punto nè poco, e dopo esserci riposati alquanto fingendo di continuare
la via, abbiamo fatto una giravolta, ricalcando i nostri passi, e
siamo tornati indietro tranquillamente, e grazie al cielo senza cattivi
incontri.
— E perchè non avete mandato subito le vostre notizie?...
— Oh bella!... come si fa in cima i monti a trovare il modo di mandar
notizie?... Rientrati in Cadore ci siamo divisi. Giacomo Croda ha
preso la strada d'Auronzo, io sono qui, per non spaventare Maria con
un'apparizione notturna.
Allora sior Antonio rimesso in gambe apparecchiò da cena al figliuolo,
lo lasciò mangiare in quiete, poi a poco a poco gli annunziò la
malattia di sua moglie, prodotta certamente dallo spavento.
Tiziano voleva correre subito al roccolo, ma il padre lo trattenne,
mostrandogli i gravi pericoli di quell'imprudenza, e lo persuase a non
lasciarsi vedere se prima egli non avesse apparecchiato Maria al suo
ritorno, la sua comparsa improvvisa potendo riuscire fatale.
Andarono dunque a letto, e alla mattina per tempo sior Antonio si recò
al roccolo, dicendo che aveva ricevuto buonissime notizie da Tiziano,
che stava benissimo, non era mai stato arrestato, e sarebbe di ritorno
in giornata, dimostrò chiaramente che i loro timori erano stati
precipitosi e mal fondati, e d'accordo con sua moglie predisposero con
tanta avvedutezza la povera malata, che il ritorno del marito invece
di riuscirle funesto, fu il farmaco più propizio a migliorare il suo
stato, e le rese più facile il ristabilimento in salute.
Quando Tiziano entrò nella stanza e corse al letto della moglie, essa
se lo strinse al seno inondandolo di lagrime, e volle che la suocera
andasse a prendere tutti i bambini e li conducesse al babbo, che non
rifiniva di dar baci e di riceverne, prendendosi in braccio il piccolo
Taddeo che gli veniva portato dalla balia, sostenendo sui ginocchi
Adria che succhiava un zuccherino, e tenendo per mano Isidoro che gli
stava davanti in piedi sorridente, mentre la nonna gli accarezzava la
testa; sior Antonio confuso dalla contentezza, adombrato da sospetti,
sbalordito dalla sorpresa, aveva il volto talmente scomposto da tante
impressioni successive ed opposte che pareva un morto uscito dalla
sepoltura.
Venuto il medico a fare la sua visita trovò Maria in uno stato
d'eccitazione violenta che era necessario di far cessare. Consigliò
tutti a ritirarsi, a lasciarla tranquilla, ordinò dei calmanti, e
promise che tolta la causa prima del male, non avrebbero tardato a
scomparire anche gli effetti, ma ci voleva prudenza, tranquillità
assoluta di spirito, e completo riposo.
Intanto si andavano facendo degli arresti in vari siti del Cadore,
e bisognava tenere la notizia scrupolosamente nascosta a Maria, che
agitata da nuovi timori e da nuove ansietà, sarebbe ricaduta gravemente
ammalata. Ma Tiziano e sior Antonio non vivevano senza apprensioni, e
discutevano nascostamente che cosa fosse da farsi. Il padre propendeva
per la fuga, promettendogli che avrebbe persuaso Maria a questa
prudente precauzione, ben preferibile ad una lunga prigionia, e a
quegli eterni processi di stato, che finivano sempre con spietate
condanne. Accomodandosi le faccende, egli sarebbe ritornato, o dovendo
prolungare l'esiglio, sua moglie e i bambini lo avrebbero raggiunto.
Ma Tiziano amava troppo il Cadore, e quei monti ove era nato, aveva
passata l'infanzia, aveva fatto il suo nido, l'idea dell'esiglio
lo attristava profondamente, e non poteva decidersi a questo passo
senza un'evidente minaccia di pericolo. Egli sperava nell'ignoranza
della polizia austriaca che non riusciva mai a colpire i capi delle
congiure, che quando le cadevano nelle mani per imprudenza. Sperava
nell'isolamento del suo romitaggio che lo nascondeva agli occhi delle
autorità sospettose, e contava sulla prudenza che guidava le sue
azioni, essendo sicuro che nessun nome, nessuna carta compromettente
erano usciti dalle sue mani, che tutti ignoravano la sua partenza ed il
suo ritorno, e quindi si decise di attendere, dimostrando a suo padre
che una fuga lo avrebbe compromesso assai più d'una cauta aspettativa,
e promise di stare in guardia, e di ritirarsi in tempo se il pericolo
si facesse imminente.
E infatti in quei momenti l'Austria non poteva contare nemmeno sui
segreti d'ufficio, quell'aborrito governo non poteva conservare fedeli
gli impiegati subalterni che servivano per necessità, non avendo altri
mezzi di sussistenza, ma che si sentivano italiani, e cercavano di
giovare ai loro fratelli, avvertendoli in tempo d'ogni pericolo. Così
fu deciso di attendere con oculatezza, apparecchiando tutti i mezzi più
sicuri per la fuga, senza precipitarla.
Intanto Maria cominciò ad alzarsi dal letto, e a scendere all'aperto,
e il vigore della gioventù, l'aria elastica, e specialmente il cuore
contento la guarirono in breve da ogni sofferenza.
Il roccolo di Sant'Alipio riprese le sue pacifiche abitudini, ma le
notizie che giungevano dal processo di Mantova facevano l'effetto d'una
nuvola nera che sorgesse all'orizzonte, e quella pace domestica non
era che superficiale, intorbidata nel fondo dalle crudeltà di quegli
stranieri che facevano da padroni, processando le virtù, e condannando
l'amore di patria come un delitto.
A quel sorriso di natura che si presenta dal roccolo di Sant'Alipio
faceva prospetto lontano lontano, come un fantasma minaccioso, il
tetro castello di Mantova dove si svolgeva il lugubre dramma del capo
militare del Cadore.
Il colonnello Calvi, sepolto vivo in quei torrioni, pensava alla
libertà delle montagne, e l'afa del carcere gli riusciva più pesante.
Il suo tentativo non era stato che un sogno. Sincero, franco,
inflessibile, egli non dissimulava ai suoi giudici i suoi intenti,
e non taceva che i nomi dei congiurati. Egli esponeva con dignità il
sacro dovere di difendere la patria da ogni insulto, come nostra madre,
e di liberarla dall'oppressione. Negli orrori della cella segreta,
nella lontananza da tutti i suoi cari, nella certezza che la sua lealtà
lo avrebbe condotto alla morte, esso non smentì mai il forte carattere,
non cedette mai nè alle lusinghe nè alle minaccie, sereno ed impavido
fino alla fine.
Il 1 luglio 1855, davanti la corte speciale istituita dagli stranieri,
Calvi fu condannato alla morte. Richiesto se voleva ricorrere per la
grazia sovrana, rifiutò. L'eroico condottiero dei difensori delle Alpi
morì a 38 anni sul patibolo!... e venne sepolto accanto agli altri
martiri di Belfiore.
La truce notizia giunta in Cadore sollevò l'universale indignazione.
Le sole nazioni libere accordano l'asilo agli emigrati politici, ma
tutti i popoli del mondo pongono fra gli eroi i soldati che difendono
la patria, e muoiono per la sua indipendenza.
L'odio verso gli stranieri crebbe in tutti i cuori italiani, davanti
le crudeli esecuzioni di Mantova, e la libertà avanzò d'un passo sicuro
davanti il sacrificio di quelle vittime.
Tiziano, inorridito di tanta crudeltà, rinnovò il giuramento di dare
la sua vita e quella de' suoi figli per la liberazione della patria;
e istillava nel loro animo infantile l'amore della libertà, e il sacro
dovere di difenderla in ogni occasione.
Qualche tempo dopo quel lugubre processo il Consigliere imperiale
ricevette da Vienna un decreto dell'imperatore d'Austria che lo
nominava cavaliere di terza classe dell'ordine della corona di ferro.
I Cadorini dicevano che era una ricompensa per aver fatto la spia,
ma sior Antonio lo difendeva dicendo in un orecchio agli amici, che
colla valida protezione di lui, suo figlio era sfuggito all'arresto
minacciatogli nel processo di Mantova. Ma i Cadorini crollavano le
spalle e rispondevano:
— Esso ha ingannato tutti... il governo ed il popolo... gli oppressori
e gli oppressi.


XVIII.

Bortolo non poteva dimenticare Venezia. Quella città era diventata il
punto saliente di tutte le sue aspirazioni, ma continui ostacoli si
frapponevano a' suoi piani, e gl'impedivano di rivederla. Egli aveva
fissato di accettare le proposte dell'offelliere, ma fu trattenuto
in Cadore, prima dal matrimonio di Tiziano, poi dalle preghiere della
madre, e finalmente fu indotto a ritardare la partenza dal desiderio
di sior Antonio che aveva bisogno di lui per gli affari del legname.
Tiziano poi lo consigliava di attendere la liberazione d'Italia che
non doveva tardare. Intanto passavano gli anni, ma il più bel sogno
della sua vita non si dileguava, e pareva anzi che ingigantisse
col tempo; ed era mantenuto da una corrispondenza affettuosa colla
Gigia, alla quale comunicava i suoi progetti, e le cagioni che ne
ritardavano l'esecuzione. Ed essa gli rispondeva esattamente con inviti
incoraggianti, ed intime confidenze cordiali, nelle quali parlava del
passato con espressioni di rimpianto, e dell'avvenire come un mistero
che il suo cuore non osava indagare, e che non dipendeva da lei.
Le robuste ragazze del Cadore, di forme ben tarchiate e gagliarde, non
avevano nessuna attrattiva per Bortolo, il quale s'era fatto un ideale
del tipo snello, mingherlino e sentimentale della Gigia. E quando
andava alla fontana, guardava con profondo disprezzo le servotte del
paese, che si burlavano di lui, e lo chiamavano il frate.
Quando seppe che Calvi s'era posto in viaggio per sollevare il Cadore,
sperò negli eventi d'una ripresa d'armi, travide attraverso lo spazio
la delizia d'un nuovo assedio di Venezia, ma l'arresto del condottiero
e la successiva catastrofe lo persuasero che era vano aspettare
dalla politica e dalla guerra una sorte felice, e si convinse che per
raggiungere il suo scopo ci voleva una ferma volontà ed una energica
risoluzione, e si decise a metter termine ad ogni esitanza scrivendo
all'offelliere che se lo voleva ancora egli sarebbe a sua disposizione,
e non aspettava che un ordine per partire. Ed avendo ricevuto una
risposta favorevole, annunziò la presa decisione a sua madre ed ai
padroni, i quali vedendo che non c'era modo di farlo cambiare d'idea,
dovettero sostituirlo, e lasciarlo andare liberamente al suo destino.
Egli prese congedo da tutti, abbracciò teneramente sua madre, e partì.
E ciascheduno aveva riprese le proprie abitudini, col convincimento
che bisognava rassegnarsi alle circostanze, sempre però coll'opinione
che non si trattava che d'una sosta, e perciò l'attenzione generale era
rivolta al Piemonte da dove si attendeva con fiducia il segnale della
nuova riscossa.
Infatti nel 1859 scoppiò nuovamente la guerra nella quale gli italiani
non domandavano che di essere alfine padroni in casa propria, ed
arbitri dei loro destini, mentre l'Austria vantava dei diritti
ereditari sul nostro paese, mercanteggiato da genti estranee, al tempo
che si vendevano i popoli come le pecore.
Ma il re di Sardegna si annunziava come il primo soldato
dell'indipendenza, e la Francia si univa all'esercito piemontese,
composto oramai di italiani di tutte le provincie, per far finalmente
cessare il dominio austriaco «dalle Alpi all'Adriatico».
Molti cadorini accorsero ad arruolarsi volontari in Piemonte, ove sotto
il comando di Garibaldi, si organizzarono nuovamente i Cacciatori delle
Alpi coi Cacciatori degli Appennini, della Stura, della Magra, a misura
che i giovani giungevano da ogni parte.
Tiziano si limitò a predisporre segretamente il Cadore in modo tale
che giunto il momento opportuno tutto fosse pronto a dare un bel colpo
di mano ai liberatori; da ogni casupola alpina sarebbero usciti degli
uomini armati, e nessun rinforzo austriaco avrebbe potuto penetrare in
quei monti.
E qui nuovi timori di Maria, e nuove ambascie, combattute dal suo amore
di patria, e dal vivo desiderio di finirla una volta per sempre, ma
eccitate ad ogni momento dall'affezione profonda di moglie e di madre.
E quando Tiziano partiva per le sue spedizioni segrete, essa non viveva
più fino al suo ritorno, e dormiva raramente di notte, sempre agitata
dal timore di qualche brutta sorpresa.
Si attendevano ansiosamente le notizie, e fu un bel giorno quello
nel quale si venne a sapere che il re di Piemonte e l'imperatore dei
francesi erano entrati trionfalmente a Milano dopo la battaglia di
Magenta.
La battaglia di Solferino ove s'impiegarono tutti i terribili congegni
dell'arte guerresca moderna, colle nuove armi di precisione, e le
palle coniche scoppianti, fu anche seguita da un violento temporale,
e riuscì una vera carneficina.... Michele la descrisse a Tiziano in
una lunga lettera nella quale gli annunziava che era uscito incolume
per miracolo, ed essendo stato destinato a comandare una scorta delle
ambulanze, aveva potuto vedere il campo appena cessata la terribile
strage.
Vi furono feriti o uccisi tre marescialli, nove generali, 1566
ufficiali, di cui 650 austriaci, e da quarantamila soldati e bassi
ufficiali, di cui 13 mila austriaci. I cadaveri e i feriti giacevano a
mucchi fra i cassoni rotti e i cavalli uccisi. I morti periti sul colpo
avevano la faccia calma, ma i lacerati morti lentamente fra gli spasimi
e le convulsioni di lunga agonia, avevano le membra livide, i capelli e
i baffi irti, le mani aggrappate al terreno, gli occhi spalancati, e i
denti serrati dallo sgrigno convulso.
Gemiti, urli, convulsioni di feriti mettevano orrore, alcuni erano
impazziti dallo spasimo, altri colle membra stritolate dal passaggio
dei carri e dei cannoni invocavano d'essere uccisi. Un ufficiale
austriaco di forse vent'anni era divenuto canuto.
Ed a questo spaventoso massacro seguiva l'armistizio e la pace di
Villafranca, che lasciava ancora il Veneto in mano dell'Austria
trincierata nel quadrilatero.
Tale notizia giunta in Cadore sparse lo sgomento dovunque, e la più
cupa desolazione. Tutti si accingevano a sostenere risolutamente
l'ultima lotta, a compiere l'ultimo sacrificio per la sospirata
indipendenza... e invece bisognava deporre le armi, e nasconderle.
Cosicchè alle vergogne e ai danni della schiavitù si aggiungevano
continuamente le amarezze d'una esistenza intorbidata d'ansie perenni,
da congiure senza fine accompagnate da pericoli sempre sospesi sul
capo delle famiglie. Ma dopo lo strappo doloroso della speranza, dopo
lo spasimo del disinganno, ottenuta l'emancipazione della Lombardia,
gli animi degli italiani da un punto all'altro della penisola si
ridestarono al voto ed alla fede dell'unità, e si accinsero ad
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