Il roccolo di Sant'Alipio - 18

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sommità dei monti, e corre in lunghezza circa tre miglia. È il più bel
bosco del Cadore. Gli abeti grossissimi svelti e diritti si alzano
a straordinarie altezze e somministrano agli arsenali le più grandi
antenne per le navi.
Facendo questo presente alla repubblica, la Comunità scriveva al Doge
Cristoforo Moro: «Se guardiamo alla vostra celsitudine, il dono che il
popolo cadorino spontaneo vi offerisce, è piccolissimo: tuttavia osa
sperare che esso sarà in tutti i tempi avvenire un solenne testimonio
dell'affetto, della fede, e della divozione, che il donatore ha
verso la repubblica potentissima, che l'ha preso nella sua tutela.
Accettatelo, ve ne preghiamo, con lieto animo; il vostro gradimento
varrà a confermarci nella fede che vi giurammo, sì noi che i nostri
figli, e nepoti saremo in ogni tempo i più acerrimi difensori vostri.»
E i generosi cadorini tennero parola da padre in figlio, tenendo sempre
sacra la volontà dei loro antenati.
L'aspetto pittoresco di questo bosco arresta continuamente i passi del
viandante, e lo sforza a contemplare ed ammirare lungamente la stupenda
varietà, e il maestoso sviluppo de' suoi prospetti. L'ampia valle
s'allarga e si serra, si eleva e si sprofonda con diverse vicende, e
gli abeti salendo dalle malghe ove pascolano gli armenti si distendono
sulle alture che ricoprono di cupa verdura, e s'innalzano colle punte
accuminate fino alle nude roccie, strisciate di neve, e tagliate a
perpendicolo.
La strada tortuosa, ora attraversa il bosco passando fra gli alberi
giganti, ora serpeggia in mezzo a verdi pascoli, ove gli alberi fanno
corona alle falde dei monti, e seguendone le curve ricoprono i clivi
lontani come se chiudessero ogni uscita. Il profondo silenzio che regna
in quelle regioni solitarie non è rotto che dal frastuono delle acque
cadenti negli abissi, dal fischio degli uccelli di rapina, dal muggito
delle mandre, o dal rumore del vento fra i rami degli alberi. Qualche
pastore sdraiato sull'erba saluta il viandante che passa, mentre gli
animali alzano la testa per osservarlo.
Dopo lunghi raggiri fra montagne boscose si esce in un altipiano, ove
il lago di Mesurina riflette nelle sue onde tranquille gli abeti che lo
circondano, sormontati da nude roccie, abitate dai camosci.
Nel fondo si vede una capanna isolata sulle rive del lago. È l'osteria
delle Alpi, ove si vende vino, pane, e carne di cavallo affumicata.
Colà Tiziano ritrovò Giacomo Croda, che teneva ancora l'osteria, e
faceva da guida ai viaggiatori. Dopo d'aver servito la patria nella
difesa del Cadore e nell'assedio di Venezia egli aveva sposato la
Giovannina, una buona ragazza d'Auronzo, piccoletta come la capanna, ma
piena di vivacità e di buon senso, che sa far l'interesse del negozio,
senza mai disgustare i viandanti. Oramai è conosciuta da tutti gli
alpinisti che visitano quelle solitarie regioni, ai quali essa crede di
parlare in tutte le lingue d'Europa, perchè sopprimendo la grammatica
alla lingua italiana cerca d'imitare l'accento degli stranieri, e
si aiuta con una mimica ingegnosa e intesa da tutti. I _touristes_
siedono davanti il balcone d'una stanza che prospetta il lago. Allora
la Giovannina offre vino bianco o vino nero a loro scelta. Generalmente
si domanda il migliore. Essa porta subito il bianco che non è bevibile,
si prova anche il nero che è peggiore, e si pagano tutti due, col pane
per giunta, più duro dei macigni. Allora per avere una memoria di quel
sito pittoresco, si compera un corno di camoscio, e questo è quanto può
offrire di meglio la Giovannina, a merito di suo marito, che è il primo
cacciatore di camosci della contrada.
Tiziano s'intrattenne alquanto col suo antico compagno delle guerre
d'indipendenza, e seduti fuori della capanna rammentarono con piacere
le vicende del passato, e i corsi pericoli. Giacomo gli mostrò con
orgoglio le sue carabine, gli raccontò i suoi tiri portentosi, e i
casi strani di quelle caccie sui precipizii, e davvero era un bel tipo
alpino, coi suoi scarponi ferrati, colla penna di falco sul cappello
acuminato, la cintura di pelle, e la pipa corta, col bocchino che gli
usciva dalle tasche della giacchetta di fustagno verde.
Avvicinandosi la sera, Tiziano strinse fortemente la mano di Giacomo,
salutò cortesemente la Giovannina e continuò la sua strada.
Usciti dalla valle di Misurina il bosco si fa sempre più denso, e le
gole dei monti si restringono. Venuta la notte Tiziano affrettava
il passo, perchè quella tetra solitudine gli pesava sul cuore. Ma
la strada è assai lunga, e sempre boscosa, e gli alberi impediscono
di veder da lontano, per cui riesce ancora più noiosa, e sembra
interminabile.
Cammina cammina, in quel buio e fra quegli alberi, la monotonia pesa e
la notte fa scambiare in fantasmi quei tronchi infranti dagli uragani,
coi rami irti che alzano le braccia come disperati. Mille forme
fantastiche, attristanti, minacciose vi attendono immobili, e pare che
vi seguano quando siete passati, e si va avanti stanchi ed oppressi,
per mancanza d'uno spazio aperto, e privi della luce che abbellisce
ogni cosa.
Per cui è un bel momento, quando in quella solitudine profonda ed
uggiosa, si presenta improvvisamente a diritta del viandante un lungo
fabbriceto con tutti i balconi illuminati da splendida luce e si vede
nell'interno un mondo di gente che sta mangiando allegramente intorno
a tavole ben servite da ragazze che vanno e vengono sollecite ed
affrettate, e si ode il suono dei piatti e dei bicchieri, e si sentono
le esalazioni d'una cucina appetitosa.
Ancora pochi passi e Tiziano passava dallo squallore notturno d'una
foresta a tutti gli agi della vita sociale.
Eccolo giunto finalmente a Schluderbach davanti il Gasthaus, Monte
Cristallo, un grande _Chalet_ con vaste dipendenze, ed un'annessa
succursale dirimpetto, ove non è sempre facile trovar alloggio, tanta
n'è l'affluenza dei viaggiatori, specialmente tedeschi, che frequentano
quel sito alpino, collocato nel centro d'interessanti escursioni.
Primo rappresentante della civiltà si presentò davanti a Tiziano uno
storpio che domandava la elemosina sulla porta dell'albergo. Nell'atrio
stavano esposti in vendita dei bei lavoretti d'intaglio in legno che si
eseguiscono a Brunen, e che, ben distribuiti in vetrine e rischiarati
da lampade a petrolio, formano una mostra permanente delle industrie
locali.
La porta a diritta in fondo dell'atrio si apre sulla sala da pranzo
che era quasi completa. Tuttavia Tiziano trovò un posto vuoto, sedette,
guardò d'intorno, non vide il capitano, e chiestone conto alla padrona
seppe che non era ancora arrivato. — Verrà certo domani, pensò, e
intanto si fece portare da cena, e mangiò con grande appetito dopo
quella lunga e faticosa passeggiata, e poi andò a coricarsi.
Alla mattina assai per tempo era in piedi e visitava i dintorni.
Lo Schluderbach non ha altre case che l'albergo, il quale sorge sulla
strada d'Alemagna, ad un'ora da Toblac, nella valle di Landro, a 1440
metri sul livello del mare, e in prospetto del monte Cristallo.
Il sito fresco e romito vi attira in estate molta gente, ed al mattino
per tempo si vedono numerose famiglie, uomini donne e bambini che
escono dall'albergo, muniti dell'alpenstok, e si dirigono pei vari
sentieri montuosi che salgono in mezzo ai boschi, e vanno in traccia
d'aria ossigenata e di salute.
È un recesso tranquillo, piuttosto malinconico, molto opportuno al
riposo di chi è costretto di vivere tutto l'anno nel tumulto delle
città popolose, fra gli affari e le passioni d'una vita agitata. La
valle angusta, ma d'un bel verde perenne, mantenuto da irrigazioni, è
sparsa di mandre che vanno al pascolo facendo suonare i loro campanacci
appesi al collo, e mandando lunghi muggiti che echeggiano nel silenzio.
Il fondo è chiuso da alte montagne ricoperte da bruni coniferi colle
cime aguzze, e che finiscono con nude roccie nevose, dalle quali
scendono le valanghe, che, passate attraverso i boschi, vanno ad
accumulare nella valle gl'infranti macigni.
A piccola distanza del prato sparisce anche la vista dell'albergo, non
resta più nessun indizio dei luoghi abitati, nessun rumore della vita
sociale, nessun frastuono d'industria, nessuna traccia d'agricoltura,
non si odono che le voci gravi e solenni d'una natura selvaggia, nella
pace profonda d'una completa solitudine.
Tiziano si aggirava intorno ai sentieri di Waldruhe che dominano
la strada maestra quando il rumore d'una vettura accompagnato dai
sonagli dei cavalli e dalle schioccate della frusta attirarono la
sua attenzione. La vettura si arrestò davanti all'albergo, ed egli
vide uscire dallo sportello il capitano Kasper Kraus, il quale aiutò
a discendere una signora e due ragazzi, che accolti alla porta dai
padroni accorsi entrarono nel Gasthaus.
Tiziano discese subito all'albergo e si gettò nelle braccia del
suo liberatore, il quale alla sua volta lo strinse al seno, come un
vecchio amico, gli presentò sua moglie e i suoi figli, e tutti uniti
s'indirizzarono alla sala da pranzo per far colazione.
Caduta Venezia nel quarantanove, il capitano Kasper Kraus aveva
ottenuta la pensione ed aveva sposato la sua Maria, invocata non
invano quando giaceva ferito sotto la tettoia, al passo della morte.
La signora era una bionda pallidetta, dagli occhi cerulei, non troppo
grande, ma di forme ben tornite. Olga, la figlia maggiore, e Frantz, il
secondogenito, rassomigliavano perfettamente alla madre.
Tiziano, interrogato col più vivo interesse su tutto quello che
riguardava la salvatrice del capitano, parlò con affetto della sua
Maria e dei loro tre figli, e la signora tedesca mostrò vivo desiderio
di conoscerla e d'abbracciarla, riconoscendo d'esserle debitrice della
sua felicità.
Tiziano rinnovando al capitano l'invito di recarsi in Cadore lo
assicurò che lo aspettavano degli amici, tanto più cordiali quanto
erano stati nemici implacabili, ed aggiunse che la sua bella famiglia
accresceva interesse e simpatia a quella gita.
Accettò di buon animo la proposta, e trovata una vettura partirono
per Cortina d'Ampezzo, e di colà percorsero lentamente la strada che
fu scena delle prime lotte fra tedeschi ed italiani in Oltrechiusa.
Attraversarono i paesi pittoreschi che sorgono alle falde delle
montagne sulle rive del Boite, San Vito, Borea, Vodo, Vinigo, Venàs,
scendendo spesso di carrozza, e facendo a piedi dei lunghi tratti
di strada per veder meglio i siti più interessanti, ed osservare
attentamente le località rese famose dalla guerra. Il capitano
approvava i lavori eseguiti per la difesa, rendeva giustizia al
coraggio ed al patriottismo dei cadorini.
La signora si fermava estatica ad ammirare quelle vallate, così
tranquille e pastorali in tempo di pace, e si fermava davanti a quei
boschi di larici e d'abeti, cresciuti rigogliosi fra i crepacci, e
sotto quelle roccie smisurate che sovrapiombano sulla strada.
Tiziano le additava a diritta il Pelmo nevoso, a sinistra le faceva
osservare l'immenso Antelao, squallido, nudo, minaccioso, e le
raccontava dei paesi intieri sepolti sotto le sue frane, e l'amore
degli abitanti per quei siti pericolosi che li spinge costantemente a
rialzare le nuove capanne sulle rovine che hanno sotterrato le dimore
dei loro parenti. Questo spiega la natura tenace dell'alpigiano, e il
coraggio che dimostra nella difesa del suo territorio.
Olga, timidetta, si teneva stretta alla madre, e pareva che quella
natura selvaggia e gigantesca le mettesse paura. Invece Frantz saliva
sulle erte pendici, e andava erborizzando con grande attenzione fra i
dirupi. Sua madre disse a Tiziano che il fanciullo era appassionato
per lo studio della botanica, e sarebbe divenuto un solerte cultore
delle scienze naturali. Allora Tiziano cercava di assisterlo e di
secondarlo nelle ricerche, e mentre la signora e sua figlia siedevano
sopra un masso contemplando col cannocchiale il paesaggio, Tiziano,
il Capitano e Frantz penetravano nei boschi, esploravano il terreno, e
s'arrampicavano sulle cime.
E così raccolsero una bella messe di fiori fra i quali primeggiava il
pallido Edelweiss, quel bel fiore d'argento che in tedesco significa
bianco-nobile, e che i botanici vedendo non si sa come un piede
di leone in quelle forme graziose non si peritarono di chiamarlo
Leontopodio (_Gnaphalium leontopodium_).
Così viaggio facendo le reciproche relazioni si resero sempre più
intime, e Tiziano, che era buon padre ed amava i giovani, era lieto di
secondare i gusti del ragazzo, di scoprire delle piante rare pel suo
erbario e di offrire dei fiori alla fanciulla. E si mostrava dolente di
non conoscere la lingua tedesca, e pensava che anche questa ignoranza
era un effetto del rancore che divideva i due popoli, rendendo odioso
agli italiani il linguaggio dei loro dominatori, e pensò alla necessità
di far imparare il tedesco ai suoi figli.
Così divagando per diversi motivi passarono da Valle al tramonto del
sole, ed era già buio quando attraversarono Tai, dirigendosi alla volta
di Pieve, ove giunsero a notte inoltrata.


XX.

Le due Marie si baciarono in volto e divennero amiche, come se si
fossero conosciute da lungo tempo; e infatti le loro anime s'erano
già intese da lontano attraverso un filo arcano che congiungeva i loro
cuori col legame della gratitudine.
L'italiana rivide con piacere il tedesco la cui felicità domestica la
compensava del bene che gli aveva fatto, e del beneficio ricevuto colla
liberazione di Tiziano, il quale alla sua volta era debitore delle sue
gioie domestiche alla generosità del nemico.
Sior Antonio e sua moglie manifestarono alla famiglia del Capitano
la espansiva riconoscenza dei loro cuori onesti e soddisfatti, ed
esercitarono quell'ospitalità franca e spontanea, che senza cerimonie
nè affettazioni considera l'ospite come un membro della famiglia stessa
e lo ammette alla comune intimità.
I figli delle due famiglie non potevano parlarsi fra loro, perchè
non sapevano che la propria lingua, ma si guardavano con simpatia, si
sorridevano, si facevano dei segni, e passeggiavano insieme, tenendosi
per mano.
Tiziano e Maria apparecchiarono un lauto banchetto sotto gli alberi
del roccolo di Sant'Alipio, ove vollero fare gli onori di casa agli
ospiti, prima della loro partenza. Alloggiati in casa di Sior Antonio
non avevano ancora veduto quel romitaggio, e furono sorpresi del
suo aspetto strano, pittoresco, selvaggio, ed incantevole. Passarono
l'intiera giornata in quella solitudine, contemplando estatici quei
monti, quelle valli, quel torrente, quei boschi, ascoltando con
religioso raccoglimento le armonie della natura che rompono di tratto
in tratto quel solenne silenzio.
E udirono, parte da Maria, e parte da Tiziano, la storia di quel nido
delle Alpi, semplice storia d'una famiglia ignota e modesta, eppure
così varia per gli affetti, le speranze, le sorprese, i dolori, le
gioie; così piena di casi luttuosi e di giorni felici, di ansietà,
di amori, di congiure e d'eroismo, e finalmente di feste nuziali, di
serene e liete feste domestiche.
E mentre i genitori raccolti nel nido di Montericco si comunicavano
le loro impressioni, rammentavano i momenti terribili della guerra,
e le supreme felicità del ritorno e della pace, i figliuoli s'erano
recati tutti insieme in cima al castello, per vedere da quella sommità
lo spettacolo della valle del Piave. E incominciavano a intendersi
abbastanza bene. Isidoro guidava sui dirupi la bionda Olga, ammirando
quei morbidi capelli d'oro lucente, e penetrando collo sguardo in
quegli occhi cerulei e profondi come un lago. Frantz seguiva Adria
sui ruderi dei muraglioni caduti, e divagavano intorno alle rovine
in cerca di piante alpine. Il giovane tedesco le faceva osservare con
attenzione la struttura dei fiori, le indicava la vaghezza dei colori,
le grazie dei frastagli, la varietà delle forme e raccoltone un bel
mazzo ne faceva un presente alla sua compagna. Essa si mostrava assai
lieta del dono, distaccava il fiore più bello del mazzo e lo offriva
al giovane con uno sguardo soave e significante che diceva chiaramente
— conservate questo ricordo. — Egli tirava fuori tranquillamente
il portafogli, vi riponeva il fiore con ogni cura, e scriveva sul
foglietto la data di quel giorno, il luogo nel quale lo aveva ricevuto,
e il nome della donatrice. Poi faceva vedere alla fanciulla lo scritto,
ed essa approvava coi cenni del capo guardandolo fisso in modo da
farlo impallidire. Il piccolo Taddeo correva dietro alle farfalle,
completamente dimenticato dai fratelli e dai loro amici; malgrado le
raccomandazioni della mamma che li aveva ammoniti di tenerselo vicino,
perchè non cadesse in pericoli.
Il pranzo imbandito sotto gli alberi del roccolo fu lieto, ma non
loquace, perchè la vicina partenza aveva già steso un velo di mestizia
in tutti i convitati. Gli sguardi si incontravano malinconici, pareva
che gli occhi raccogliessero avidamente le immagini degli amici per
stamparli nei loro cuori con indelebile impronta.
In fine di tavola si fecero dei brindisi cordiali alla reciproca
felicità nella vita domestica, all'Italia, all'Austria, non più nemiche
ma sorelle.
Così la pace sottoscritta dai Sovrani venne sancita da due famiglie,
che rappresentavano le due nazioni.
E come ebbe fine quel banchetto potrebbe anche aver fine questo libro,
se a qualche benevolo lettore, che ci ha accompagnato fino a questo
punto, non restasse il desiderio di conoscere la fine dei nostri
personaggi pei quali ha voluto prendere un qualche interesse.
Nella supposizione di così cortese curiosità siamo costretti di andare
avanti ancora per qualche pagina.
Il capitano Kasper Kraus colla sua famiglia partì dal Cadore assai
soddisfatto dell'ospitalità ricevuta, convinto che le guerre di
conquista sono barbarie contro natura, che ogni popolo ha diritto di
vivere in libertà entro ai suoi confini naturali, che gli odii fra le
varie nazioni non sono altro che un effetto delle insanie degli uomini,
e della politica. Che l'interesse delle famiglie è l'interesse degli
Stati, che la casa è il vero perno della nazione, che ogni singolo
individuo deve cooperare col suo lavoro alla concordia ed alla felicità
del genere umano.
I figli del Capitano sono partiti col desiderio di imparare l'italiano,
e i figli di Tiziano dichiararono di voler imparare il tedesco.
Ciascheduno pensava ad un viaggio nella nazione vicina, colla speranza
di rivedere gli amici, ai quali sentiva il bisogno di manifestare
chiaramente i propri pensieri.
Tre anni dopo quel banchetto, Isidoro entrava nell'esercito per pagare
il suo tributo alla patria, e poco dopo entrava in Roma divenuta
capitale dei regno.
Ritornato nel Veneto ebbe la fortuna di assistere all'inaugurazione
della statua di Calvi a Noale, e a quella di Manin a Venezia, e di
vedere l'imperatore d'Austria che venne a far visita al re d'Italia.
Tutti avvenimenti memorabili, che consolidarono la fondazione del
regno, colla più viva soddisfazione di tutti gl'italiani.
Poi avendo ottenuto il suo congedo ritornò in patria, e prese parte
come semplice cittadino all'inaugurazione del ricordo eretto a Pieve
all'eroico condottiero del Cadore: — _A Pietro Fortunato Calvi e ai
prodi combattendo con lui per la patria indipendenza nel 1848._
Il piccolo monumento, concepito con opportuno disegno, ed eseguito con
egregio lavoro, rappresenta una piramide di pietre di Castellavazzo che
porta nel centro un medaglione in marmo di Carrara col busto di Calvi,
sovraposto ad un trofeo d'armi, di falci, di lancie, di scuri, eseguite
in bronzo, intrecciate di corone di quercia, di alloro, e d'olivo, col
motto: _Più che l'armi valsero concordia costanza fede._
Il tempo implacabile ha esatto la sua imposta umana. Hanno pagato il
tributo la Betta e la nonna di Venezia. Bortolo e la Gigia chiusero gli
occhi alle loro cure, e adesso invecchiano alla lor volta, continuando
a vivere discretamente colla fabbrica di paste dolci. La Gigia trova il
mondo meno bello di quando era giovane, dice che gli uomini sono meno
amabili, e brontola sovente sugl'inevitabili disinganni dell'esistenza.
Bortolo cerca di consolarla colla riflessione che non tutte le
ciambelle riescono col buco.
Michele, ritirato in Cadore, soddisfatto dell'ottenuta indipendenza
italiana, ha rinunziato ad ogni genere di conquiste, costretto a
camminare col bastone in conseguenza delle ferite riportate nelle varie
battaglie della sua vita, e si consola col vino di Conegliano delle
perdite sofferte e del vigore smarrito.
E a coloro che si sorprendono che non sia diventato generale, egli
risponde additando Tiziano che ebbe due volte rotta la testa per
l'indipendenza, e non è nemmeno cavaliere.
In compenso di qualche inevitabile dimenticanza governativa il
Consigliere imperiale è divenuto Commendatore, e mostra a tutti coloro
che gli fanno visita il ritratto del re d'Italia, che occupa il primo
posto nel suo studio fra i vari principi della famiglia reale. I
ritratti dell'imperator d'Austria, degli arciduchi e feld marescialli
li ha nuovamente rilegati in soffitta; ma non li ha distrutti, perchè
sono belle incisioni, e poi non si sa mai!... I repubblicani li riceve
in un gabinetto speciale ove si trova il ritratto di Garibaldi.
Il conte Ermolao Steno è divenuto Senatore del Regno, e per mostrarsi
sempre imparziale, e alieno da ogni partito, non va mai a Roma,
limitandosi alla modesta soddisfazione di mettere il titolo nei
viglietti di visita.
Isidoro ha sposato una bella ragazza cadorina, e i suoi genitori gli
hanno ceduto il roccolo di Sant'Alipio, tanto opportuno alla luna di
miele. Così il nido di Montericco ha ancora i suoi colombi che tubano
l'eterna canzone d'amore, davanti l'eterna bellezza della natura.
Tiziano e Maria cogli altri due figli sono andati ad abitare in casa
Lareze, ove la famiglia ha ripreso l'antico sistema.
Tiziano ha assunto la piena direzione degli affari, Maria ha preso il
posto di Maddalena, che vive tranquilla dopo d'aver ceduto alla nuora
l'azienda domestica.
Sior Antonio divenuto vecchio e sordo ha preso il posto del nonno
Taddeo sull'antico seggiolone, e l'inverno quando la neve cade a
larghe falde e la famiglia si raccoglie intorno al focolare, egli
racconta sempre le stesse storie del quarantotto ai suoi nipoti, che
si addormentano profondamente, come faceva il loro padre Tiziano quando
il nonno Taddeo gli raccontava i fasti della repubblica di San Marco. E
così passano gli anni, e si succedono le umane vicende in questo rapido
sogno della vita.

FINE.
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