Il roccolo di Sant'Alipio - 07

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canali che formano un inestricabile labirinto. Da quei canali entrando
nella laguna penetravano a Venezia durante l'assedio, apportando
viveri e corrispondenze all'eroica città, che con questo solo filo
impercettibile all'occhio acuto del nemico, si teneva ancora legata al
resto del mondo.
I corpi franchi chiamati dal rullo del tamburo vennero spediti senza
indugio a Perarolo, essendo pervenuta al Comitato la brutta notizia
che i tedeschi si avvicinavano a Longarone. Il teatro della difesa
veniva spostato, e invece di temere un attacco dalla parte del Tirolo,
l'invasore essendo già entrato nel Veneto, minacciava dall'interno, ove
non si era mai pensato di doversi guardare. Fu necessario raccogliere
i soldati di Pieve, richiamare in tutta fretta i corpi franchi dal
confine d'Ampezzo, e dalla valle del Boite, e mandarli a marcia forzata
nella valle del Piave, fra Ricurvo e Termine, e apparecchiarsi alla
difesa.
Calvi alla testa dei Corpi che si trovavano a Pieve accorse subito,
facendosi seguire dall'unico cannone col relativo cannoniere che
formavano tutto il treno dell'artiglieria mobile di quell'esercito
in miniatura, che andava ad incontrare un esercito regolare e bene
agguerrito. Il capitano venne subito seguito dalle Civiche di Pieve,
Calalzo, Domegge, Valle e d'altri paesi vicini, e nella notte seguente
giungevano anche i corpi di Lozzo, Lorenzago, Vigo ed Auronzo, e gente
d'ogni villaggio che si metteva a disposizione del condottiero e del
Comitato. Si potevano calcolare 300 uomini circa di Corpi Franchi,
e 1800 delle guardie civiche di tutto il Cadore, meno il Comelico
che non poteva abbandonare il passo importante di Montecroce. Ma di
questi 2100 uomini appena 400 erano armati di carabine e fucili, gli
altri portavano le solite armi, forche, manaie, falci, spiedi, picche,
bastoni, e molti erano anche accorsi colle sole braccia. Questi vennero
impiegati di tutta notte ad apparecchiare delle mine nelle roccie che
sovrastano la strada, dalla cascata d'acqua della Tovanella al ponte
detto del Tedesco, e furono postate le vedette in vari punti dai quali
vedevano da lontano.
Il mattino del 7 maggio Calvi comparve sul luogo, montato sopra un
cavallo bianco. Egli era raggiante di sicurezza e d'ardire, e secondato
dagli altri capi dispose gli uomini armati di fucile sul pendio boscoso
che sovrasta alla Tovanella, il resto intorno al cannone collocato in
una sporgenza che dominava un bel tratto di strada. Gli uomini delle
mine furono muniti di miccie.
Era convenuto di lasciar marciare il nemico nella stretta gola sotto
le roccie che soprapiombavano sulla strada. Al momento opportuno Calvi
avrebbe fatto tirare il cannone e questo sarebbe stato il segnale per
scaricare i fucili e far saltare le mine. Tutti attendevano il nemico
con l'ansia della trepidazione che precede i grandi avvenimenti, quando
si videro spuntare da lontano i croati che venivano da Termine e furono
subito conosciuti alle vesti oscure, alle nere tracolle, ai calzoni
stretti del loro uniforme. La prima colonna apparve in cima alla
riva che scende al ponte del Tedesco, e avanzava a suono di tamburo
preceduta dagli ufficiali, e seguita da carri. Cominciavano già ad
entrare sotto le roccie, e mancavano pochi momenti che il corpo fosse
giunto al posto fissato per farlo saltare in aria quando fatalmente
un fuciliere, per impeto o per impazienza o forse per involontario
movimento, fece partire il colpo del suo fucile, che fu creduto da
tutti come il segnale pattuito. Dato fuoco alle mine scoppiarono con
terribile rimbombo che echeggiò spaventosamente intorno la valle tutta
offuscata dal fumo.
Le roccie saltate in aria ricaddero con fracasso sul suolo, ma non
colpirono che la testa della prima colonna, mancando per troppa fretta
l'intento.
I nemici a quello strepito inaspettato, a quella grandine micidiale
di pietre terra e frantumi, si diedero a fuga precipitosa, e molti per
essere più sicuri si misero a passare il Piave in catena, ma i cadorini
bersagliandoli col cannone e col fucile ruppero la catena, e videro
i morti e i feriti affondarsi nel fiume. Ciò accrebbe lo spavento dei
fuggitivi che corsero precipitosamente verso Termine.
I cadorini baldanzosi del successo si mettono ad inseguire il nemico;
Calvi cerca invano di arrestare gl'imprudenti; ogni suo sforzo torna
inutile.
Tiziano pensando forse al prestigio col quale l'eroismo del capitano
aveva colpito l'immaginazione di Maria, spinto dalla emulazione, dalla
gelosia, dall'ebbrezza della lotta, si slancia fra i primi, Calvi suo
malgrado è trascinato dalla corrente, tutti avanzano arditamente alla
rinfusa, e attizza il loro impeto il poter fare alcuni prigionieri,
e il raccogliere per via armi e munizioni, e due carri di attrezzi da
campo abbandonati dai nemico.
I croati giunti a Termine si rifugiano nelle case, corrono alle
finestre donde tirano fucilate sulla strada, e mostrano di volersi
difendere.
Davanti a quel pericolo Calvi perviene ad arrestare la foga imprudente
degli assalitori, punta il cannone verso il paese e procura di
raccogliere i suoi soldati. Ma Tiziano insensibile al suono del
tamburo, che batteva la ritirata, e indifferente agli ordini del
capitano, si avanza sempre fra le palle eccitando colla spada alzata
i fucilieri che lo seguivano, entra audacemente nel paese con alcuni
compagni, e scomparisce alla vista degli amici che lo chiamavano
invitandolo a retrocedere con loro.
Calvi faceva tirare il cannone contro il paese, ove le palle
producevano delle breccie, ma era tanto bizzarramente montato, che ad
ogni colpo retrocedeva di alcuni passi, e riusciva più pericoloso agli
assedianti che agli assediati.
In un colpo più forte degli altri andò a colpire con tanta violenza nel
muro della strada, che si spezzò il timone del carro.
I croati trincerati nelle case apersero un vivissimo fuoco contro
il drappello che difendeva il cannone e molti uomini caddero morti o
feriti.
Intanto il tamburo tedesco sonava a raccolta, e Calvi avvedendosi che
si apparecchiavano all'assalto fece retrocedere le munizioni, e fu
appena in tempo di richiamare i dispersi, spingendoli a riprendere le
posizioni del mattino, costretto di abbandonare il cannone a motivo
del timone infranto. Giunti alla Tovanella si accorsero di tutti gli
errori commessi in quella giornata, che costò cara ad ambe le parti. I
tedeschi ebbero molti uccisi ed annegati, i cadorini ebbero a deplorare
nove morti, alcuni feriti e vari scomparsi, fra i quali Tiziano di
cui s'ignorava la sorte. E pur troppo si venne a sapere che i croati
inferociti avevano trucidati alcuni prigionieri, che si erano lasciati
prendere nell'ardore della mischia.
A Pieve attendevano ansiosamente le notizie del giorno. Alla sera
le donne s'erano raccolte in una casa amica, e tutte in ginocchio
pregavano per Calvi e pei loro cari, quando giunsero le prime relazioni
della lotta.
La difesa trionfava, il Cadore era chiuso all'invasione, il nemico
non osava avventurarsi in quelle gole tremende, ma disgraziatamente
s'erano perduti degli uomini. A tale annunzio doloroso le donne
sbigottite si affollarono intorno al messo, e tutte in una volta
volevano conoscere la sorte dei loro congiunti. Costui nominava i
morti, i feriti, gli scomparsi, e quasi ad ogni nome pronunziato
si udiva un grido, poi succedevano lagrime, gemiti, desolazioni,
manifestazioni di dolore, accenti d'ira e tremende imprecazioni. Quando
venne annunziato che Tiziano era smarrito lo strido fu doppio, perchè
la madre e la fidanzata erano entrambe presenti, quando poi si udì che
i croati nel furore della collera avevano ucciso i prigionieri, allora
la disperazione, e lo sdegno raggiunsero il colmo, il desiderio di
vendetta divenne frenesia e invase quelle disgraziate che passarono
la notte in scene strazianti, deplorando le perdite irreparabili,
progettando le più strane rappresaglie.
Si piangevano i morti, e si tremava pei vivi. Maria voleva
assolutamente partire, voleva vedere suo padre, voleva conoscere con
precisione e certezza la sorte del suo fidanzato; l'incertezza le
sembrava insopportabile.
Sior Antonio, colpito egli stesso dalla sventura, era costretto a
calmare la esaltazione della sposa, e doveva studiarsi di consolare
la madre immersa nel dolore, con supposizioni e speranze che non
poteva dividere. La desolazione era penetrata in tutte le famiglie,
le relazioni succedevano alle relazioni, sempre contradditorie ed
esagerate con invenzioni esorbitanti di fatti inauditi, e con tutte
quelle incertezze che agitavano gli animi oppressi, con amarezze
peggiori della morte.
Era poi sicuro che i tedeschi non si sarebbero arrestati ai primi
tentativi falliti, sarebbero ritornati alla prova sempre più numerosi,
più agguerriti, più feroci, e che cosa avrebbero fatto i cadorini per
prolungare la resistenza in attesa di qualche valido soccorso?....
Anche Calvi attendeva un nuovo attacco e si apparecchiava a riceverlo
con coraggio, ed a respingerlo con vigore. Le varie vicende del giorno
7 avevano convinto tutti che il migliore partito era quello di tenersi
alla difensiva, di non lasciarsi trascinare dall'entusiasmo d'un
successo, di obbedire agli ordini del capitano, di aspettare il nemico
nelle posizioni preparate per distruggerlo.
Il punto scelto per la nuova difesa fu quella gola di monti fra Rivalgo
e Ricurvo, che dai più esperti fu riconosciuta opportuna, ed accettata
da tutti. Sono in quel sito altissime montagne che chiudono il Piave
in angusto letto. Il fiume torrente scorre tortuoso e profondo fra i
burroni in fianco alla strada sulla quale s'innalzano a picco nude
roccie, con massi sporgenti che sembrano sospesi sulla testa dei
viandanti. Chi attraversa quell'orrido e stretto passaggio crede di
trovarsi nel fondo d'un pozzo, e guardando in alto non vede che un
breve lembo di cielo, come da un pertugio praticato nella rupe.
All'altezza di circa 150 metri quelle roccie presentano l'aspetto d'un
parapetto perpendicolare sulla strada, dietro al quale si stendono
estese praterie, vasti pascoli e malghe, ove si trovano innumerevoli
frammenti di roccie franate dalle più alte montagne e grossi macigni
arrestati sul pendio dai cespugli o da altre pietre.
Salendo dai fianchi praticabili a quella specie di terrazza, i cadorini
muniti di leve rotolarono e disposero sul margine del precipizio
un'immensa quantità di quei massi enormi, in modo tale da poterli
precipitare nel fondo con una spinta, e colla massima facilità.
Poi sopra una rupe di Rivalgo, con pietre, alberi e zolle erbose
costruirono una specie di fortino sul quale collocarono dei fucilieri,
per difendere da ogni assalto gli uomini addetti al lavoro dei
sassi, o come dicevano essi, alle batterie di sassonia. In altri siti
approntarono delle mine, e alle seghe di Venago, sulla sinistra del
Piave, si disposero dei gruppi di fucilieri. Un altro cannone, fatto
venire con somma sollecitudine da Treponti, venne collocato dietro una
barricata in sito da dominare la strada.
Predisposta in tal modo la difesa, con apparecchi affrettati nella
notte, e condotti a compimento prima dell'alba, presi gli opportuni
concerti tutti in silenzio e in ordine, aspettarono la nuova comparsa
degli austriaci.
Verso le sette del mattino apparvero infatti i croati dalla svolta
di Candidopoli, avanzandosi lentamente, ed occupando tutta la strada
verso Rivalgo. Erano molto cresciuti di numero, ed avevano un aspetto
marziale imponente. Le loro baionette percosse dal sole brillavano di
luce sinistra.
Giunsero fino a Rivalgo. I Cadorini aspettavano ansiosamente che
avanzassero per passare sotto le batterie di sassonia, quando invece
con somma sorpresa videro uscire dal villaggio un uomo vestito in
borghese con in mano un lungo bastone sul quale sventolava una bandiera
bianca, e presso di lui un ufficiale austriaco.
I Cadorini dietro la barricata alzarono un fazzoletto bianco, ed
invitarono i due parlamentari ad avvicinarsi.
L'ufficiale era il tenente colonnello del genio cav. di Haunesthein,
il quale essendo stato lungo tempo di guarnigione a Venezia conosceva
Calvi, e il suo compagno del Comitato. Si strinsero reciprocamente la
mano, poi egli dichiarò che veniva a nome del generale comandante del
corpo d'armata di Belluno.
Il generale deplorava gli avvenimenti del giorno antecedente, e
domandava il passaggio delle sue truppe sulla strada d'Alemagna,
dovendo recarsi in Tirolo. Gli risposero che l'Austria aveva terminata
la sua dominazione in Italia, e che avrebbero accordato il passaggio
alle truppe qualora deponessero le armi, e ritornassero al loro paese
alla spicciolata. Il colonnello accolse tale proposta con un assoluto
rifiuto, e continuavano a discutere sull'argomento, quando si udì
gridare da più parti: — tradimento!... tradimento!....
I Croati infatti avanzavano, e abbandonata la strada procuravano di
guadagnare le alture ove sorgevano le batterie dei sassi. Gli uomini
che circondavano il gruppo dei parlamentari puntarono le armi per
arrestare il colonnello, il quale impallidito protestava della sua
innocenza. Allora Calvi, rendendosi garante della lealtà dell'ufficiale
che conosceva da un pezzo, rese possibile il suo ritorno.
Egli si era appena ritirato dietro le truppe austriache quando il primo
corpo dei croati si avanzava nella gola più stretta occupando tutta la
strada da Rivalgo a Ricurvo e già si avvicinavano alla barricata quando
i Cadorini diedero fuoco al cannone. Era questo il segnale convenuto,
e questa volta veniva in punto. Lo scoppio delle mine, la valanga dei
macigni e le scariche dei fucili furono istantanei e sparsero nella
valle un turbinio di fumo, di fuoco, di polvere e di frantumi, come
l'eruzione d'un vulcano combinata colla caduta d'un monte. Fu una vera
carneficina, una scena d'orrore e di sangue. La strada fu trasformata
in un mucchio di rovine sotto le quali i soldati trovarono la morte e
la sepoltura.
Diradato il fumo e la polvere, cessato ad un tratto il frastuono, si
vide il terreno coperto di cadaveri frantumati fra i macigni caduti, e
il sangue che correva a rigagnoli sulla via fra i corpi mutilati e le
membra disperse; e si udiva fra il cupo rumore della Piave gli urli dei
feriti e i gemiti dei moribondi. Alcuni morti galleggiavano nel fiume
sbattuti sulle rive dalle onde insanguinate, e i superstiti spaventati
corsero in fuga precipitosa, e non si arrestarono che a Longarone.
Il numero dei nemici morti in quel giorno non si seppe mai, ma deve
essere stato grandissimo a quanto asseriscono i bellunesi, che,
invece della _menada delle taglie_, videro galleggiare nel Piave che
attraversa la città, una _menada di croati_. Si dicono «taglie» i
tronchi d'alberi tagliati nei boschi del Cadore, che vengono spediti
al loro destino mettendoli a fluttuare liberamente nel fiume, sul quale
vengono raccolti nei punti designati.
Quella fiera ecatombe di vittime umane è uno dei fatti più spaventosi e
meno noti delle nostre guerre d'indipendenza, e in quel giorno il bravo
ingegnere Paladini che diresse le terribili batterie _di sassonia_,
venne nominato per acclamazione dei suoi colleghi, Duca di Rivalgo.
Quanti titoli assai meno meritati vengono presi sul serio!....
Tra i feriti in quella strage vi fu anche il cav. di Haunesthein, e se
ne popolarono gli ospitali militari di Belluno e Serravalle.
Ai feriti raccolti dai Cadorini e trasportati a Pieve vennero prodigate
le stesse cure che si ebbero pei propri feriti; e alcuni croati sani,
trovati nascosti sotto ai ponti, dai quali non osavano uscire, fatti
prigionieri ebbero tale trattamento, che mai non fu superato nei più
bei giorni della loro esistenza.
Lungo tutta la strada si rinvennero assise militari, armi, munizioni e
vari altri oggetti perduti dai fuggiaschi e dai morti.
Calvi ritornò a Pieve chiamato dal Comitato per provvedere con
nuove disposizioni urgenti ad altre minaccie tedesche che mettevano
in pericolo il Cadore, e condusse con sè uno dei Corpi Franchi, e
quello appunto nel quale trovavasi Bortolo, il figlio della Betta, il
domestico dell'ufficiale Tiziano, perduto nell'attacco di Termine.
Appena questo giovane fu libero, per un'ora corse ad abbracciare sua
madre; e Maria, saputolo di ritorno, corse in casa Lareze per aver
notizie precise del suo povero fidanzato.
Bortolo che era stato testimonio dell'orrendo spettacolo del giorno
antecedente, era ancora sbalordito, e riportava idee confuse e
spaventose delle batoste guerresche.
Tutti gli chiedevano ansiosamente i più minuti particolari del fatto
d'armi nel quale il suo padrone era scomparso, ma era impossibile di
cavarne un qualche costrutto. Nella confusione della lotta egli non
aveva veduto che sè stesso, e raccontando quanto aveva fatto, gli
pareva di render conto di tutto. Invece di dire che alle prime fucilate
egli si era nascosto in un fosso, egli diceva: — ci siamo riparati in
un fosso,... poi siamo saliti in un bosco, e dietro una roccia abbiamo
veduto i croati che avanzavano. — Sior Antonio impaziente di sapere
qualche cosa di preciso sulla sorte di suo figlio procurava di fargli
delle domande semplici e chiare, ma era fatica sprecata.
— Ma infine, gli disse il padrone, quando l'hai tu veduto per l'ultima
volta?...
— Veduto?... io non l'ho veduto!... egli rispose. Io stavo dietro
il tronco d'un albero... i croati tiravano dai balconi delle case...
perchè....
— Ma tu non lo vedevi dunque mai?... non gli stavi mai vicino?
— Sempre vicino... al rancio... si sa... perchè alla guerra tutto si
confonde e non si capisce più nulla... e quando fischiavano le palle...
io stavo fermo... perchè....
— Ma lui andava avanti, lo stesso?...
— Sicuro che andava avanti... e gridava «avanti, sempre avanti» e
non ascoltava più nessuno... nemmeno il capitano che lo chiamava
indietro... e avanti... avanti... palle... fumo... polvere e
confusione... non ho veduto più niente!...
— Ma hai udito dire che sia stato ferito?...
— Ferito no!...
— Dunque morto?...
— Nemmeno!... non ho udito niente, e nessuno sa niente. Dicono che
quelle bestie croate abbiano massacrato i prigionieri....
A tali parole lo spavento alterava tutti i volti, allora egli
si pentiva d'aver detto troppo, voleva lasciar sperare, e si
contraddiceva.
— Bortolo, parla schietto... siamo disposti a tutto... è meglio sapere
la verità,... tu hai udito dire che Tiziano è stato massacrato....
— Ecco... ho udito che hanno massacrato i prigionieri... ma....
— Ma che cosa?...
— Ma nessuno può sapere esattamente ciò che sia succeduto... noi
ci siamo ritirati... e il padroncino ha mancato all'appello... ecco
tutto!...
E queste furono tutte le notizie che si poterono raccogliere sul povero
Tiziano. Si è per altro saputo che fuori di casa egli parlava più
francamente, e che coi padroni non si sentiva il cuore di spaventarli
raccontando tutte le crudeltà dei croati che fucilavano i prigionieri
e trucidavano i feriti, e li descriveva simili alle belve feroci, neri
come spazzacamini, brutti come il diavolo, capaci d'ogni atto il più
atroce, ed inumano, gente che faceva paura!...
In quanto poi al terribile macello del giorno prima, quando lo
interrogavano egli si metteva le mani nei capelli, contorceva gli
occhi, ed esclamava:
— Figuratevi la fine del mondo!... io posso dire d'aver veduto la fine
del mondo!... ed anche peggio!... prima di tutto ho veduto... che non
si vedeva più nulla!... poi una specie di terremoto con lampi e saette,
poi una vera beccheria di carne umana!... Ahi! ahi quale spavento!...
teste schiacciate coi cervelli sgusciati, e gli occhi a penzoloni, le
budelle uscite dal ventre, il sangue che correva sulla strada,... e
morti orrendi da per tutto!...
Sior Antonio, Maddalena, Maria erano inconsolabili, la Betta piangeva
il padroncino morto poveretto!... ma ammirava l'eroismo di suo figlio,
e andava orgogliosa di poter vantare un simile figliuolo. Ma avrebbe
voluto che in un modo o nell'altro tutto fosse finito, e non si
tornasse da capo a mandar la povera gente in tanti pericoli. E intanto
metteva sotto al naso del suo eroe delle gran zuppiere di minestra, per
riparare le sue forze, e gli soffiava all'orecchio:
— Bortolo... sii prudente!... non andare mai avanti da minchione. Hai
fatto abbastanza, e se non puoi essere ufficiale, procura almeno di
conservarti sano e salvo... in mezzo a tanti pericoli!...
Egli le faceva l'occhiolino in segno d'adesione, e macinava a due
palmenti.
Fido, malinconico, stava sdraiato ai piedi del giovane, e alzava verso
di lui i suoi grandi occhi pietosi, come per domandargli notizie del
suo amico che aspettava invano ogni giorno, dopo la sua partenza.


VIII.

La storia delle guerre dell'indipendenza non ha finora tenuto tutto
il conto che doveva dell'eroica difesa del Cadore, del coraggio e dei
sacrifizi di quelle brave popolazioni, le quali hanno fatto vedere
che se le Alpi sono fortezze naturali che alzano le eccelse cime
sui confini d'Italia, gli alpigiani hanno la tempera dei loro monti,
e sono capaci di farli rispettare, uno contro venti. Quel pugno di
montanari isolati in mezzo ai loro dirupi, senza nessun soccorso,
scarsi di munizioni e di viveri, fecero prodigi di valore, ignoti
ancora alla maggior parte degl'italiani, che ignorano parimenti la
stupenda bellezza di quelle vallate le quali possono rivaleggiare colla
Svizzera, pei pittoreschi prospetti d'una ammirabile natura.
Queste povere pagine nelle quali si raccontano semplicemente le vicende
domestiche di qualche famiglia Cadorina non possono diffondersi a
narrare le diverse alternative di quella lotta meravigliosa, ma tutti
i fatti storici narrati sono della più scrupolosa verità, attinti
direttamente sul luogo stesso, da testimoni oculari.
Gli austriaci ingrossati a tutti i confini minacciavano il Cadore da
vari punti, nessun aiuto esterno veniva a sostenere il coraggio dei
difensori, che resistevano senza speranza di buona riuscita per solo
amore di patria, per l'onore della nazione, come una protesta davanti
l'Europa indifferente del diritto delle genti violato dall'Austria,
e del predominio della forza sulla giustizia. E difendevano ancora
i loro focolari, le care famiglie, le proprietà e le case invase e
saccheggiate da crudeli stranieri, che commettevano esecrandi delitti,
quando trovavano popolazioni inermi e fidenti nella loro tranquillità.
La convenzione stipulata cogli abitanti d'Ampezzo venne violata dopo
pochi giorni, contro la volontà dei tirolesi; le truppe austriache
ingrossate da rinforzi passarono nuovamente il confine, uccisero
la sentinella e penetrarono in Cadore. Il piccolo Corpo Franco che
sorvegliava la Chiusa dovette ritirarsi davanti il numero imponente di
nemici, i quali avanzando sempre più, uccisero a colpi di moschetto un
uomo di S. Vito che fuggiva.
Il giorno 10 maggio una pattuglia tedesca sorprese una povera
donna, Giustina Belfi-Morel, con un figlio ed una figlia, nella loro
cascina di Col. Il figlio che era andato ad invitare i tedeschi ad
entrare, offrendo loro una refezione, cadde ferito mortalmente da
quei soldati, i quali penetrati poi nel casolare, trassero fuori
le due donne spaventate, fecero nefando strazio della figlia, e poi
uccisala ne trasportarono il cadavere accanto al fratello non ancora
morto, obbligando la madre a scavare la fossa pe' suoi figli. Poi la
condussero in uno stanzone di Vodo con altri prigionieri tormentati
in tutto quel giorno con terribili angoscie. Saccheggiarono il paese
e trovatovi un povero pazzo lo unsero col sego e gli diedero fuoco, e
dopo di avergli tagliata traversalmente la pelle del ventre lo finirono
a colpi di moschetto.
Respinti dai cadorini accorsi da ogni parte, dovettero ripassare il
confine, ma tali efferatezze sparsero la desolazione ed il terrore in
tutto il paese.
Allora, prevedendo la possibilità d'una invasione per sorpresa, e
temendo giustamente non solo le depredazioni, i saccheggi, gli incendi,
ma ancora più gli spaventi, gl'insulti, le torture morali, e tutti gli
altri pericoli, si venne nella determinazione di far ritirare in luoghi
sicuri la popolazione inerme con gli oggetti preziosi, o più facili a
trasportarsi.
Quest'esodo alpino del 1848, certamente ancora ignorato fuori
del Cadore, è un fatto assai curioso ed interessante delle guerre
d'indipendenza, e merita d'essere raccontato.
Tutti gli uomini validi erano sotto le armi, intenti alla difesa
dei confini. Si lasciarono nelle case le sole persone strettamente
necessarie all'assistenza dei mariti o dei figli, che compiuto il
loro turno nel servizio della difesa, ritornavano a casa per riposarsi
qualche ora, e si fecero partire le donne, i vecchi, i fanciulli, coi
gioielli, le argenterie, i rami di cucina, le biancherie, gli arredi
che si tenevano più cari.
Da ogni paesello delle Alpi salgono sull'erta dei sentieri serpeggianti
fra le macchie e i frammenti di roccie caduti dall'alto; stradicciole
praticate soltanto dalle mandre, che costeggiano i precipizi, entrano
nei boschi, e riescono sulle cime, dove a grandi altezze, si distendono
vastissime praterie, sparse d'armenti al pascolo. In quelle malghe si
fecero salire le donne, i vecchi, ed i fanciulli, che si ricoverarono
nei casolari dei pastori, o in quelle capanne dette _baite_ dove si
ripone il fieno falciato sulle alture e che sono costruite con tronchi
d'alberi soprapposti, uno sugli altri, coi tetti contesti di pezzetti
di legno collocati a foggia delle squame d'un pesce.
Ogni paesello del Cadore fissava il monte dove credeva trovare
maggiore sicurezza e minore disagio. Era cosa commovente vedere
quell'emigrazione di donne che, abbandonate le dolci abitudini e gli
agi delle loro dimore, andavano ad esigliarsi in luoghi inospiti,
lontane dai loro cari che lasciavano esposti a tutti i pericoli della
guerra, e salivano pel faticoso sentiero portando in braccio i bimbi
ancora lattanti, trascinando per mano quelli che camminavano appena;
precedute dai più grandicelli che stavano in fianco alle guide, seguite
dai vecchi ansanti, affaticati per l'erta e scabrosa via, e dalle
donne di servizio colle gerle sulle spalle, cariche di provvisioni, di
fardelli, e masserizie d'ogni fatta. E la lunga fila saliva lentamente,
arrestandosi talvolta sotto un albero, o sopra una roccia sporgente,
per riprender fiato e mandare un saluto affettuoso alla casa lontana, e
al caro paesello abbandonato.
E dopo molte ore di cammino, trafelati dal sudore, giungevano in
quelle eccelse regioni del silenzio, in quelle solitudini sublimi e
severe, sotto l'aspre giogaie irte di scogli nudi e minacciosi. Colà si
arrestavano, davanti una squallida capanna, che, ripulita e riparata
con tende, offriva un rifugio dalle intemperie, e dagli uragani delle
Alpi. E tutte le donne si accingevano con operoso coraggio ad allestire
alla meno peggio il loro accampamento.
La cucina veniva approntata in pien'aria, e lontano dalla baita per
timore degl'incendi, e si faceva il rancio come i soldati. Il salotto
di società che serviva anche di sala da pranzo aveva sul pavimento un
verde tappeto, uno strato erboso colore di smeraldo, sparso di fiori
alpini; le pareti rappresentavano le catene delle Alpi colle cime
nevose, con monti che succedevano ad altri monti, e boschi ad altri
boschi, ed era soffitto l'azzurro padiglione del cielo. Nelle baite si
dormiva sul fieno, che offriva un letto soffice ed odoroso. Cosicchè
nessuna città poteva vantare più pittoreschi prospetti, nè giardini
più spettacolosi, nè aria più pura, nè letti più profumati di quella
colonia femminile. La quale per non vivere nell'anarchia aveva messo in
ordine i suoi affari, nominando un consiglio con una direttrice, e dei
regolamenti di reciproca utilità, ed aveva attivato un servizio postale
che portava regolarmente le notizie dei paesi vicini, e i bollettini
della guerra.
E in quei dolorosi frangenti, in mezzo ai pericoli, ai disagi,
ai timori, alle ansietà, chi credesse che quelle donne si fossero
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